Chi ha ucciso Gesù?
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Chi ha ucciso Gesù?

Dall'antigiudaismo religioso all'antisemitismo. La vera storia

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Chi ha ucciso Gesù?

Dall'antigiudaismo religioso all'antisemitismo. La vera storia

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Duemila anni di storia attraversata da calunnie, massacri, espulsioni, bolle pontificie discriminatorie e ripetuti tentativi di cancellare il popolo ebraico. Dai primi secoli contrassegnati dall'antigiudaismo religioso si passa alla strage di ebrei della Prima crociata nel cuore dell'Europa e al periodo buio dell'Inquisizione, passando per l'istituzione del ghetto fino ad arrivare alla nascita dell'antisemitismo razziale, culminato nella Shoah. E oggi? La Dichiarazione conciliare Nostra Aetate ha condannato "gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque". Dopo l'immane tragedia della Shoah sembrava che potessimo archiviare l'antisemitismo. Ma è stata un'illusione. Attacchi terroristici, aggressioni fisiche, minacce, vilipendio di cimiteri sono purtroppo gli esiti dell'azione di un mostro che pensavamo domato. C'è qualcosa di oscuro che affonda le sue radici nell'accusa di deicidio. L'antigiudaismo è ancora oggi la linfa che nutre l'antisemitismo e l'antisionismo, vale a dire l'odio che minaccia l'esistenza stessa degli ebrei e di Israele? Nelle pagine di questo libro si trovano le risposte a queste domande scomode.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788892232181
Argomento
History

1

LE RADICI DELL’ODIO

Esiste una relazione tra l’accusa di deicidio che perdura da quasi due millenni e la persecuzione degli ebrei che ha raggiunto il suo culmine nella Shoah? Rispondere a questa domanda non è facile. Il quesito è posto in modo chiaro e doloroso dalla Commissione vaticana per i rapporti con l’ebraismo nel documento Noi ricordiamo, una riflessione sulla Shoah del 16 marzo 1998: “Il fatto che la Shoah abbia avuto luogo in Europa, cioè in Paesi di lunga civilizzazione cristiana, pone la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli ebrei”.
Nel linguaggio ecclesiastico, si parla di “atteggiamenti dei cristiani” e non si affronta il tema spinoso di una vera e propria dottrina religiosa antigiudaica che, secondo alcuni teologi e storici, ha prodotto un vasto apparato giuridico e simbolico, con l’obiettivo di discriminare gli ebrei mantenendoli in uno stato di costante decadimento, rendendoli sudditi di serie B ed estranei alla società, secondo la dottrina di sant’Agostino, come vedremo più avanti. Non si tratterrebbe solo di una semplice contrapposizione religiosa, derivata dal cosiddetto proto-scisma, la rottura avvenuta nel I secolo tra la comunità ebraica dell’epoca e i “nazareni”, ossia i primi giudeo-cristiani. Siamo purtroppo di fronte a una forma di avversione duratura, che non ha mai cessato di produrre frutti avvelenati, fino a impedire la stessa esistenza di intere comunità. Una forma di odio che nasce e si sedimenta a partire dall’attribuzione agli ebrei della responsabilità dell’uccisione di Cristo, che si basa su una particolare interpretazione dei vangeli, degli Atti degli apostoli e delle Lettere di san Paolo.
Negli scritti sinottici2 Pilato sembra apparire come un’autorità spinta dagli ebrei a crocifiggere Gesù suo malgrado. Il vangelo di Giovanni (capitolo 18 versetti 28-40) ci presenta infatti il governatore romano quasi più come una vittima dei giudei che come un carnefice. Secondo questa visione, Pilato addirittura assolve Gesù dicendo ai sinedriti3 che gli avevano consegnato il prigioniero: “Io non trovo in lui colpa alcuna”.
Leggiamo insieme il racconto dell’evangelista:
Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: “Che accusa portate contro quest’uomo?”.
Gli risposero: “Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato”.
Allora Pilato disse loro: “Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!”.
Gli risposero i Giudei: “A noi non è consentito mettere a morte nessuno”. Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: “Sei tu il re dei Giudei?”.
Gesù rispose: “Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?”.
Pilato disse: “Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?”.
Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.
Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”.
Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”.
Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?”. E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: “Io non trovo in lui colpa alcuna.
Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?”.
Allora essi gridarono di nuovo: “Non costui, ma Barabba!”. Barabba era un brigante.
Più stringata la narrazione di Matteo al capitolo 27, dove comunque si “assolve” Pilato e si getta tutta la colpa sugli ebrei presenti, notabili e non solo:
Disse loro Pilato: “Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?”.
Tutti gli risposero: «Sia crocifisso!».
Ed egli aggiunse: “Ma che male ha fatto?”
Essi allora urlarono: “Sia crocifisso!”.
Nel vangelo apocrifo di Nicodemo, il racconto relativo al Governatore romano è molto più lungo e ricco di particolari; la responsabilità della passione e della morte di Cristo è tutta attribuita agli ebrei, spesso con forti toni accusatori. Addirittura Pilato viene dipinto come uno strenuo difensore di Gesù costretto infine a cedere di fronte alle pressioni e alle accuse dei capi del Sinedrio. Tra queste, che il Messia fosse in realtà un mago figlio di Belzebù che guariva di sabato, nato per di più da una relazione peccaminosa.
Il racconto evangelico degli scritti canonici e di quelli apocrifi, scritti che comunque circolavano, furono utilizzati dai primi teologi cristiani per colpevolizzare indistintamente tutti gli ebrei della morte di Cristo, anche quelli geograficamente e temporalmente lontani dagli eventi: tutto Israele divenne responsabile della crocifissione del Messia, che non riconobbe. Una visione che è stata completamente rovesciata solo in anni recenti, precisamente con la Dichiarazione conciliare Nostra Aetate4.
Quel che sappiamo è che la rivalità tra i due gruppi religiosi divenne più aspra dopo il 70, anno della distruzione del secondo tempio, e nei decenni successivi, con reciproche accuse che venivano abilmente sfruttate dai Romani, soprattutto dopo la definitiva sconfitta di Israele con l’ultima disperata rivolta del 135, guidata da Simon Bar Kokhba. La straordinaria diffusione del cristianesimo, soprattutto a opera dell’ebreo Saul, divenuto poi san Paolo, folgorato sulla via di Damasco mentre era in missione per perseguitare alcuni seguaci del Nazareno, accrebbe la distanza tra i due gruppi: da una parte i farisei, sempre più stretti attorno alla tradizione ebraica e alla Torah, dall’altra i fedeli di Gesù, sempre più lontani dalla tradizione, una distanza dovuta anche all’ingresso nella loro comunità di gentili5 non circoncisi: di pagani affascinati dalle predicazioni di san Paolo e dei suoi discepoli.
Siamo in un contesto di feroci scontri tra due formazioni religiose che si lanciavano accuse reciproche; gli ebrei perseguitavano i cristiani che venivano arrestati e processati secondo il diritto romano. Del resto, lo stesso san Paolo fu uno strenuo persecutore. Le accese polemiche antiebraiche dei primi cristiani costituirono dunque il pilastro su cui costruire la nuova identità religiosa e culturale in un clima di scontro e di ricerca di legittimazione.
È innegabile che in questa fase ci fosse, sia da una parte sia dall’altra, la tentazione di soppiantare l’avversario per ovvi e opposti interessi. Già qualche anno dopo la morte e resurrezione di Cristo, san Paolo scriveva la Prima Lettera ai Tessalonicesi, databile intorno all’anno 50:
Costoro hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi, non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini. Essi impediscono a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano sempre di più la misura dei loro peccati! Ma su di loro l’ira è giunta al colmo (2,15-16).
Un passo che richiama a sua volta il celebre versetto del vangelo che narra la scena di Pilato di fronte alla folla raccolta nel suo cortile nel momento decisivo della condanna a morte:
Allora il governatore domandò: “Chi dei due volete che vi rilasci?”.
Quelli risposero: “Barabba”.
Disse loro Pilato: “Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?”.
Tutti gli risposero: “Sia crocifisso!”.
Ed egli aggiunse: “Ma che male ha fatto?”.
Essi allora urlarono: “Sia crocifisso!”.
Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla: “Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!”.
E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”.
(Matteo 27,21-25).
L’evangelista si riferiva a tutto il popolo o solo ai “pochi” presenti, eletti a rappresentanti degli ebrei tout court? “Per Matteo è tutto il popolo giudaico che si assume la responsabilità della morte di Gesù. Non bisogna tuttavia esagerare la portata di questa frase, per due ragioni: si tratta di un’espressione stereotipata, usata in senso generico; un gruppuscolo di gerosolimitani esagitati non poteva coinvolgere tutti gli israeliti di allora e dei tempi successivi”6.
Purtroppo questo passaggio è stato utilizzato in passato, e forse ancora oggi, per alimentare l’avversione storica di cui ci occupiamo in questo libro.
“L’accentuazione della responsabilità dei giudei, estesa da Matteo a tutto il popolo ebraico (27,25), riflette la tensione esistente tra la chiesa e la sinagoga al tempo dell’evangelista. L’incredulità e il rifiuto dei giudei, tuttavia, determinarono il trasferimento del regno a un nuovo popolo (21,43), accelerando l’attività missionaria della Chiesa fra tutte le genti, conforme al mandato del Risorto ai discepoli (28,19)”7.
Quando i vangeli dicono che furono i Giudei ad accusare Gesù e a chiederne la condanna a morte, questo non significa che si tratti di tutto il “popolo di Israele”, afferma Benedetto XVI nel suo libro Gesù di Nazareth (Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2011). «Domandiamoci anzitutto», si chiede il papa, «chi erano precisamente gli accusatori? Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte»?
Molto è stato scritto attorno al duplice processo subito da Gesù, quello presso il tribunale supremo giudaico, il Sinedrio, e il successivo giudizio presso il governatore romano Ponzio Pilato. Curiosamente, “Matteo non nomina gli scribi, ma al termine ‘anziani’ aggiunge ‘del popolo’, per coinvolgere nel dramma l’intero popolo giudaico, al suo tempo refrattario al vangelo”8.
E ancora, a proposito del comportamento del Sinedrio ci sono delle differenze nel racconto dei sinottici che accentuano o attenuano la responsabilità del trattamento di Gesù. “‘Allora gli sputarono in faccia’…: Matteo attribuisce gli oltraggi all’intero Sinedrio, una scena davvero disgustosa della più alta magistratura giudaica. Marco parla genericamente di ‘alcuni’ e Luca con più aderenza storica attribuisce gli oltraggi agli ‘uomini che custodivano’ Gesù, i quali, sembra, avevano incominciato a burlarlo per passatempo…”9.
Certamente, i vangeli riflettono lo spirito del tempo e le tensioni tra i due gruppi di giudei, gli ortodossi e i seguaci di Gesù. Una spiegazione la troviamo in questo brano tratto dal documento della Pontificia commissione biblica Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana: «La presentazione dei Farisei nei vangeli è influenzata in parte dalle polemiche più tardive tra cristiani ed ebrei. Al tempo di Gesù, c’erano certamente dei Farisei che insegnavano un’etica degna di approvazione».
L’apostolo Matteo, nel suo racconto, non può che essere lo specchio dell’aspro conflitto in corso: l’evangelista fa emergere con forza le responsabilità del Sinedrio, ma attenua la sentenza del procuratore romano, scaricando su coloro che stavano davanti all’autorità la responsabilità finale della condanna a morte di Cristo.
“I presenti nel cortile, proferendo le parole: ‘Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli’, paradossalmente pronunciano su di sé non una maledizione, bensì una benedizione. Difatti Gesù dalla croce pregherà il Padre dicendo: ‘Perdona loro perché non sanno quello che fanno’ (Lc 23,34) e il suo sangue, che porta salvezza, invocato sulle teste di quegli uomini e dei loro discendenti, vi scorrerà sopra come misericordia divina, vivificandoli”10.
La frase “il suo sangue su di noi…” va però collocata nel contesto della cultura ebraica del tempo, cultura in cui gli evangelisti erano immersi in quanto giudei sostenitori di Gesù. Dobbiamo quindi fare riferimento al valore dell’aspersione del sangue per avvicinarci il più possibile a una corretta esegesi del versetto in questione, in armonia con lo spirito del Vangelo, che certamente non può ammettere a cuor leggero l’interpretazione della colpa che ricade su tutto il popolo. In sintesi, il passo evocherebbe un vero e proprio rito catartico, non dissimile da quello della festività dello Yom Kippur, con l’aspersione del sangue, che ritroviamo nel racconto dell’Esodo (Es 24).
L’aspersione del sangue nella Bibbia è dunque un rito di salvezza e protezione, non di maledizione o di morte. Nella visione evangelica, il sangue versato da Gesù salva tutti, nessuno è escluso, soprattutto il popolo dal quale egli proviene: “Egli ha dato la sua vita come prezzo del riscatto di tutti noi” (Lettera a Timoteo 2,6).
Eppure, per secoli si è affermato un pensiero religioso che ha elaborato e diffuso l’idea della maledizione perenne che peserebbe su tutto il popolo d’Israele, parole che diventeranno vere e proprie armi contundenti e costituiranno la fonte per legittimare le future omelie dei padri della Chiesa nei loro trattati adversus judeos, letteralmente “contro i giudei”.
Oltre ai sinottici e agli atti degli apostoli, furono taluni passi delle Lettere di san Paolo a essere utilizzati come fonti su cui costruire la teologia della sostituzione e l’insegnamento del disprezzo.

San Paolo contro la Legge?

San Paolo in un’altra lettera (Galati 3,10,11) ci offre un ulteriore spunto di riflessione:
Di conseguenza, quelli che vengono dalla fede sono benedetti insieme ad Abramo, che credette. Quelli invece che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della Legge per metterle in pratica. E che nessuno sia giustificato davanti a Dio per la Legge risulta dal fatto che il giusto per fede vivrà”.
Questo passo è stato spesso utilizzato per contrapporre fede e Legge11, sulla base dell’accusa di formalismo rivolta soprattutto ai Farisei.
Il cristianesimo muove i primi passi e san Paolo è impegnato nel diffondere la nuova fede tra i Gentili. La polemica nei confronti dei suoi ex correligionari è al massimo. Il cristianesimo diventa il nuovo Israele: vecchio e nuovo si fronteggiano, senza esclusione di colpi. Per l’Apostolo delle Genti la fede detiene il primato della grazia, mentre sembra posta in secondo piano la Legge. In realtà, anche questo è un dibattito fra correligionari che non è mai venuto meno all’interno dell’ebraismo, ma la prospettiva della contrapposizione tra Legge e fede è funzionale al duro confronto tra due visioni che si allontanano sempre di più.
Sempre nella Lettera ai Galati (4, 21-26) l’attacco alla tradizione ebraic a assume tinte forti, il distacco dalla Sinagoga ormai è netto:
Ditemi, voi che volete essere sotto la Legge: non sentite che cosa dice la Legge? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma il figlio della schiava è nato secondo la carne; il figlio della donna libera, in virtù della promessa. Ora, queste cose sono dette per allegoria: le due donne, infatti, rappresentano le due alleanze. Una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar – il Sinai è un monte dell’Arabia –; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi.
Tutta la teologia di Paolo è contrassegnata da una attenta e perenne contrapposizione alla Torah, alla Legge. “L’Apostolo afferma che una concezione strettamente normativa della Torah è un ostacolo per chi cerca di essere ‘giusto’, ma non met...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Autore
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Indice
  7. Prefazione di Riccardo di Segni
  8. 1. Le radici dell’odio
  9. 9. Le grandi espulsioni
  10. 10. Il Papa che volle il ghetto
  11. Inserto fotografico