Ribellatevi!
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Ribellatevi!

Il grido di rivolta contro la guerra, la povertà e l'indifferenza del candidato al Nobel per la pace

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Ribellatevi!

Il grido di rivolta contro la guerra, la povertà e l'indifferenza del candidato al Nobel per la pace

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Informazioni sul libro

In un mondo in crisi, che ha nostalgia di grandi figure come l'Abbé Pierre, Madre Teresa di Calcutta o suor Emmanuelle, padre Pedro sembra davvero essere il loro successore. Ben nota è la lotta che conduce da trent'anni contro la povertà in Madagascar, attraverso l'associazione Akamasoa, come pure la sua bontà, e generosità. Chi lo conosce, però, ha esperienza anche del suo carattere forte, della sua sincerità senza peli sulla lingua, della sua "santa collera". In questo libro padre Pedro, insieme a Pierre Lunel, sui temi che gli stanno maggiormente a cuore: la scuola per tutti, la questione dei rifugiati, la guerra giusta, la decadenza della politica, il ruolo delle donne, la democrazia ecc. Ogni argomento è trattato senza far concessioni al politicamente corretto e, quando necessario, con indignazione che non può lasciarci indifferenti. Ne viene il messaggio forte di un insorto, che non smette di risvegliare le nostre coscienze.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788892232167

a Honorine
e a tutti i costruttori di pace
di Akamasoa

PREFAZIONE
di Yann Arthus-Bertrand

La prima volta che ho incontrato don Pedro è stato durante la trasmissione Vu du ciel di France 2. Sono stato subito colpito dalla forza interiore che emanava da quest’uomo. I suoi interessi e i miei, benché sembrino lontani, si incontrano: infatti le questioni umane e quelle ecologiche sono intimamente connesse, e don Pedro lavora, si può dire, per una ecologia umana, particolarmente necessaria. Quando ho scoperto l’impegno fraterno che metteva in atto da anni in Madagascar, a favore dei più poveri, ne sono rimasto stupito! Ha realizzato opere incredibili con la sua associazione!
Come si fa a non essere toccati dalle deplorevoli condizioni di vita dei malgasci? Don Pedro ne è stato toccato fin nel profondo del suo essere. Questo argentino di origine slovena, quando aveva vent’anni, indignato da quella assoluta miseria, si è innamorato di quel popolo e non l’ha più lasciato. Si è stabilito a Tana, in mezzo alla grande discarica, e vive con loro, condivide la loro sofferenza, e con tutte le forze e con tutta l’anima cerca di rimediare a quella ingiustizia.
Come si fa a non impressionarsi per Akamasoa, la fondazione che don Pedro ha creato insieme ai suoi fratelli malgasci? Sotto la sua guida, migliaia di malgasci si sono costruiti la casa, lavorano nella cava, mandano a scuola i loro figli… Un tetto, un lavoro, un’educazione per ritrovare dignità! Aiutare, non fare l’elemosina: questo è lo slogan di don Pedro! Ed è bello vederlo all’opera, realizzare progetti, animare la gente. La sola ricompensa che cerca è godere della gioia di un bambino. Grazie a don Pedro, con lui, e tenendosi tutti per mano, i più poveri rialzano la testa e riprendono in mano il loro destino. Questo infaticabile e vulcanico missionario non si scoraggia mai, malgrado le difficoltà, i fallimenti, la prostituzione, lo sfruttamento dei minori, la delinquenza… Cose che naturalmente non sono scomparse. È un uomo d’azione che non si compiace mai di se stesso, che parla francamente, che detesta i discorsi dei politici, dei potenti e di tutti quelli che pretendono di parlare senza mai aver vissuto con i più poveri. Don Pedro è in guerra, sì, ma contro l’egoismo, contro la cattiva gestione, contro la corruzione e l’indifferenza.
Anche quando lo intervistai per Human, si ribellò, come sempre, alla miseria: «È una prigione! È come la lebbra!», disse. Don Pedro promuove l’amore, la verità e la giustizia, ma con realismo e senza ingenuità. Anch’egli può dire la frase di Gandhi: «Sii tu stesso il cambiamento che vorresti vedere nel mondo!». Don Pedro spinge chiunque ad assumere le proprie responsabilità, a sforzarsi di essere migliore per fare della sua vita un esempio. In altre parole, spinge a ribellarsi contro tutto ciò che è inaccettabile. La sua generosità e la sua costanza sembrano inesauribili, e il suo carisma incontestabile. L’impegno per gli altri si costruisce e si rafforza grazie a degli uomini come don Pedro.
Sosteniamo padre Pedro, come lui ci invita a sostenere papa Francesco! Sosteniamo la sua associazione! E ribelliamoci anche noi, quando è il caso, con le armi del cuore.

1

RIBELLATEVI!

- Don Pedro, questo titolo: “Ribellatevi!” fa paura!
- State tranquilli! Non si tratta di prendere le armi contro qualcuno! Qui “ribellione” fa rima con “risurrezione”! E per “rivoluzione” dobbiamo pensare a quella degli astri che, compiuta la loro orbita, ne cominciano una nuova. È un dovere ribellarsi contro tutto ciò che ferisce profondamente l’uomo: la menzogna, l’ingiustizia, la miseria… Sono cose inaccettabili, contro le quali bisogna alzare la voce.
Il dovere di ribellione riguarda tutti, e non solo i rappresentanti eletti, i professori, i giornalisti, gli operatori umanitari, i detentori del potere… Quando la dignità umana viene calpestata, tutti dobbiamo ribellarci “con le armi del cuore”, qualunque sia il ruolo che ricopriamo. È un combattimento che non cessa mai! È come l’antico mito di Sisifo, che spingeva un masso che sembrava schiacciarlo da un momento all’altro ma non ci riusciva, perché la forza delle sue braccia veniva moltiplicata dalla forza dell’anima. È un combattimento che esige di rimetterci in causa: dobbiamo accettare di non essere perfetti e cominciare a fare qualcosa di bene. Ribellarsi non significa urlare, ma far agire il cuore. Ci si ribella per l’amore e in nome dell’amore. E basta.
Come si fa a non ribellarsi davanti al disprezzo dell’altro, allo scandalo di vite calpestate, allo spreco generalizzato, alla frenesia del denaro, all’indifferenza verso i vecchi, i poveri, gli affamati, i disoccupati, gli esclusi di tutte le specie? Di questi orrori non è responsabile Dio, ma noi: è un problema nostro! Semmai Dio potrà aiutarci se oseremo agire.
Se non avete un’idea della miseria, andate a vivere per una settimana nel quarto mondo. Penso che all’ottavo giorno scappereste… A meno che uno sgambetto del Dio misericordioso non vi faccia cadere nell’amore incondizionato! Bisogna provarlo il male degli altri, per essere presi dalla voglia di ribellarsi, innanzi tutto, e poi dalla voglia di rimediarvi con compassione, facendo fare al cuore la sua parte. Ribellarsi significa ascoltare il proprio cuore che spinge ad agire e qualche volta a opporsi e a insorgere. «Se tu potessi risvegliare in te il meglio, e farlo agire in ogni momento della tua vita, risveglieresti anche negli altri la loro parte migliore, che attendeva proprio te per diventare attiva», ha detto il nostro don André-Marie.
La ribellione del cuore è contagiosa. Amare a parole non è sufficiente: è tempo di passare all’amore concreto. All’ora della globalizzazione della finanza e dei beni, in cui crescono come non mai gli egoismi, è urgente mobilizzare la famiglia umana e ribellarsi in nome della fraternità. Senza fraternità, la vita può diventare un inferno…
Papa Francesco constata che «siamo entrati nella globalizzazione dell’indifferenza»: è a questa indifferenza che dobbiamo opporci. Questa opposizione farà di te uno strumento di pace, e non ti toglierà niente perché quando entri in una casa e dici: «Pace a questa casa!», se c’è un amico della pace, la tua pace andrà da lui, altrimenti ritornerà da te.
Ma non dimentichiamoci mai che, prima di ribellarsi, bisogna perdonare. Riuscire a farlo esige un combattimento interiore per cacciare il rancore e, talvolta, l’odio, che ci tormentano e ci fanno tanto male. Il perdono restaura la nostra umanità. È a prezzo dell’umiltà che diventiamo capaci di ristabilire i legami spezzati.
Fra le più lampanti ingiustizie di questo mondo c’è la miseria. Da quando è stata inventata la scrittura, il povero è stato descritto come un essere umano a parte, al gradino più basso della scala sociale e della considerazione generale. Poiché il povero non possiede niente, viene schiacciato dagli altri, contro ogni buon senso. Da dove viene questa energia negativa che spinge un uomo a sminuire e ad annientare un povero, che è suo fratello? Ribelliamoci a questo! Mettiamo in atto un’energia positiva, e aiutiamo invece il nostro fratello a rialzarsi, a ritrovare la sua dignità e la sua fierezza d’essere uomo. E facciamolo senza alcun senso di superiorità, senza attenderci riconoscenza e ringraziamenti. Facciamolo semplicemente perché dobbiamo farlo. Quando ci si attende un ringraziamento da un povero, egli ci potrebbe rispondere: «Che tu mi abbia aiutato è una cosa normale!», infatti la giustizia è una cosa normale, ed è in suo nome che il ribellarci diventa un dovere.
Così Dio ha esaudito la mia preghiera quando gli ho chiesto di aiutarmi a fare “un patto di ribellione” insieme ad altri, per aiutare i poveri a rimettersi in piedi. Dio mi ha esaudito e il popolo di Akamasoa si è rialzato, perché la nostra ribellione si è realizzata in nome dell’amore e non dell’odio. Osate amare! Bandite l’odio! Se odiate, voi non siete diversi da quelli che vi odiano. Solo voi potete decidere di crescere. Ma come sapere che l’amore esiste se non accettiamo, tutti, uomini e donne, religiosi o no, di superare il nostro egoismo e la nostra viltà? È così che l’amore ci libera. Anche se il mondo sembra disperato, anche se attorno a noi ci sono barbarie, massacri e violenze, impegniamoci a essere di quei pazzi che credono alla condivisione, alla giustizia, alla verità e alla bontà. Allora la nostra ribellione sarà espressione dell’amore concreto. La nostra preghiera non sarà più: «Signore, fai finire le guerre», ma: «Signore, fammi strumento di pace». Non diremo più: «Signore, hanno fame», ma: «Signore, insegnami a condividere». Non faremo più delle considerazioni passive: «Sono schiacciati dalla miseria!», ma pregheremo: «Signore, aiutami a insegnare loro a rimettersi in piedi, per sorridere alla bellezza della vita». Dunque, ovunque noi siamo, nel ruolo che occupiamo, alziamoci e agiamo! Così il male non continuerà a crescere.
A me e ai miei confratelli missionari, tutti questi lunghi anni di attività hanno dato il piccolo diritto di sussurrarvi delle cose molto semplici. Io non sono esperto né in teologia né in morale, ma i poveri mi hanno insegnato che l’esperienza sul campo è la migliore teologia. Ho capito che il Vangelo non è un codice morale, ma una parola di misericordia e di liberazione. Non ho la ricetta giusta, né la bacchetta magica: ho soltanto vissuto con i più poveri e li ho visti soffrire. Insieme ci siamo ribellati a questa fatalità, e posso dire ai miei fratelli di tutto il mondo: sì, si può fare!
Se è stato possibile farlo in una discarica, perché non sarebbe possibile farlo dappertutto? Io non cerco né emuli, né discepoli, né compagni. Vi chiedo solo di lasciarvi ispirare dalla verità e dalla giustizia ovunque voi siate, e di non permettere mai che i poveri siano calpestati. È in una discarica che io e i miei confratelli abbiamo cercato di ricomporre l’essere umano fatto a pezzi: in tutte le discariche del mondo, noi dobbiamo ritrovare insieme il gusto della dignità e il gusto della vita.
Vi invito a una pacifica ribellione con le sole armi del cuore, in sensibilità e coscienza. Creiamo dappertutto delle oasi di speranza che siano a misura umana: esse parleranno da sole, illumineranno, risplenderanno tutt’intorno di una luce che sarà gioia perché caccerà le tenebre. Non è facile, lo ammetto. Saremo tentati di abbandonare, perché il masso di Sisifo starà sempre per caderci addosso mentre lo spingiamo su quella interminabile collina. A volte ci sentiremo stanchi, ma non abbandoniamo mai! Perché non saremo mai soli e altri fratelli verranno a loro volta per unirsi a noi.
Le persone generose e ardenti ci sono dappertutto. Non è più il tempo di parlare, di commentare, di analizzare: è tempo di agire. Diamoci da fare perché la povertà cava gli occhi. Il bene ha una flebile voce, oggi, coperta dal baccano della violenza, delle guerre, del denaro, del disordine… A questi mali non possiamo che opporre gesti di speranza, di solidarietà, di condivisione, di fraternità. Sembrano piccole cose, eppure è con esse che potremo rivoluzionare il mondo e far indietreggiare il male. Non lasciamoci prendere dalla paura! Ribelliamoci anche alla paura… Mi ricordo che durante una riunione, in un villaggio di Akamasoa, una donna alzò la voce contro un uomo che le aveva mancato di rispetto: «Basta! Non ci devi più trattare come facevi per la strada. Noi ti diciamo basta! Noi non abbiamo più paura!». Pronunciò con forza queste parole davanti a tutti gli uomini. Anche noi, come questa donna, non lasciamoci più prendere dalla paura. Ella aveva capito che cos’era l’onore di una vita, di stare in piedi, di sentirsi vivere, di essere riconosciuta nella propria dignità. La scintilla che si era accesa nel cuore di quella donna era la ribellione.

2

NON ARRENDETEVI MAI!

Sono quarantasette anni che non riesco a tacere davanti all’indifferenza nei riguardi della miseria, e sono ancora di più se vi aggiungiamo gli anni passati in Argentina, quand’ero un giovane lazzarista impegnato, a imitazione di san Vincenzo de’ Paoli, nel più bel combattimento che potessi fare in vita: quello a favore dei più poveri tra i miei fratelli. Non potevo accettare la sorte di esclusione sociale in cui vivevano gli indiani Matacos e Mapuches! A vent’anni si ha sete di assoluto e si è irriducibili.
Non sono riuscito a migliorare in qualche modo la loro sorte, con le mie deboli risorse, ma almeno ho sperimentato la gioia di ascoltare il mio cuore, di tendere la mano, di temperare un po’ la loro sofferenza e di seminare speranza. Ho ricevuto in contraccambio un gran quantitativo di benefici: vedere aprirsi al sorriso la faccia dai lineamenti marcati di un vecchio a cui nessuno parlava più da tempo… Leggere la riconoscenza negli occhi di una madre abbandonata da suo marito… Cogliere la gioia di un giovane per la fiducia e la speranza ricevuta… Sono le più belle ricompense che si possano ottenere sulla terra, gioie mille volte superiori ai beni materiali che si accumulano inutilmente.
Dopo gli indiani, mi sono dedicato ai poveri delle baraccopoli di Buenos Aires, quegli stessi che il cardinal Bergoglio, allora vescovo di quella città, visitava ogni settimana per confortarli. Avrei potuto incontrare Jorge Bergoglio, più vecchio di me di dodici anni, quando era professore al Collegio di San Miguel, ma ciò non è avvenuto, benché io ne fossi alunno. Che sorte, quella di Bergoglio! È diventato il primo Papa latino-americano!, mentre a me è toccata quella di diventare missionario “di periferia”, immagine con la quale egli chiama il mondo dei poveri. Ciascuno al suo posto! Lui è stato chiamato a rivoluzionare la Chiesa da capo a piedi, spalancandone le porte al soffio del Vangelo; io a lottare pazientemente contro la miseria che degrada l’uomo, insieme a tanti compagni discreti e umili che lavorano sul campo e si sforzano di risollevare quelli che sono a terra. È un’utopia? Forse. Ma sono queste utopie che danno gioia a quelli che le vivono. E sono molti…
Avevo dunque appena vent’anni quando sono arrivato in Madagascar. Questa destinazione non era stata scelta a caso: il Madagascar era considerato uno dei Paesi più poveri al mondo, ed era quello che san Vincenzo de’ Paoli, nel XVII secolo, aveva scelto come primo obiettivo della missione d’oltremare. Dio solo sa quanto questa missione doveva essere difficile! Molto più difficile di quanto sia oggi. Occorreva quasi un anno di viaggio per arrivare su quella terra totalmente sconosciuta… Se non si moriva già sulla nave! Arrivati, non si aveva la garanzia di sopravvivere a lungo. Quelli che erano scampati allo scorbuto e alle tempeste vivevano qualche mese, o appena qualche anno. Ma i discepoli di san Vincenzo de’ Paoli non avevano paura di niente. Erano pronti a tutto, sotto l’insegna della fede e dell’amore dei poveri. Questa era la vocazione di san Vincenzo e dei suoi discepoli: amare fino alla fine, a rischio della loro vita, perché il messaggio del Vangelo è chiaro: «Non c’è niente di più bello che dare la vita per quelli che si amano».
Diventato lazzarista per vocazione, grazia che non si può rifiutare, ho vissuto nel Sud del Madagascar per tredici anni; ed è là che ho imparato che cosa significhi il termine miseria. Non è una parola, è una realtà visibile, tangibile, materiale. Miseria significa innanzi tutto sofferenza per la mancanza di cure, di scuole, di un tetto, di tutto quel che è naturale avere per essere felici: sposarsi, allevare i propri figli, mangiare a sazietà. Sofferenza anche per la mancanza di considerazione, di rispetto, di compassione e di amore. È dura vivere, quando si ha la sensazione di non essere niente, di non contare, di non essere guardato come un essere vivente, di non esistere per gli altri. Durante questi tredici anni di vita quotidiana con i miei fratelli malgasci, in cui ho condiviso i loro dolori, le loro speranze, in cui ho vissuto come loro, ho mangiato quel che mangiano loro, ho bevuto la loro acqua non potabile, mi sono ammalato come si ammalano loro, fino a temere di morire… ho scoperto la vera felicità, quella di appoggiarmi sulle parole di Gesù: «Quel che farete a uno di questi miei fratelli più piccoli lo avrete fatto a me». È stato per queste parole che ero diventato missionario: per aiutare e amare i più piccoli.
Non mi sono mai pentito della scelta fatta, anzi ne ho ricavato della gioia. Papa Francesco chiede a tutti di andare nelle periferie. Io ci sono andato. Non dico che l’ho fatto più intensamente e più efficacemente degli altri centomila missionari che operano nel mondo, ma l’ho fat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Autore
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Indice
  7. Prefazione di Yann Arthus-Bertrand
  8. 1. Ribellatevi!