La guerra gallica
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Negli anni dal '58 al '50 a.C. Caio Giulio Cesare conquistò la Gallia con una terribile guerra, guidato dall'ambizione e dalla ricerca del profitto. Il senato romano si oppose, ma Cesare dimostrò di essere un maestro nella tattica politica e scrisse una raffinata giustificazione indirizzata al pubblico romano: il "De bello gallico". Schauer presenta il contesto storico, grazie anche alle fonti letterarie, in primis il "De bello gallico", e fa luce sulla situazione politica di crisi della fine dell'età repubblicana che ha permesso a carriere come quella di Cesare di emergere. Spiega la genesi delle decisioni di conquista di Cesare, le campagne in Gallia e il trattamento nei confronti della popolazione locale: quasi un genocidio. Il libro si conclude con uno sguardo sulle drammatiche conseguenze della politica di Cesare nei confronti dello stato romano e sulla fama che l'opera letteraria di Cesare ha da 2000 anni.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788861029330

SECONDA PARTE

Foto in bianco e nero. La descrizione è nella didascalia sottostante
Denario (48 a.C.), Recto dell’immagine della moneta precedente: testa di un gallo, Vercingetorige

II

NOTIZIE DAL NORD
I COMMENTARII DI CESARE

Parliamo ora del 56 a. C. come programmato, Cesare affronta la terza estate di guerra in Gallia e può annunciare a Roma grandi vittorie, guerre e successi contro gli Elvezi, i Germani, i Belgi, contro popoli di alta montagna, contro i Menapi alla foce del Reno, contro i Morini sul canale della Manica, contro i Veneti nell’attuale Bretagna, contro i popoli dell’Aquitania come i Vocati sulla Garonna, i Bigerrioni ai piedi dei Pirenei e i Tarbelli nel golfo di Biscaglia.
Anche dai suoi scenari di guerra per quel tempo molto lontani l’irrequieto comandante supremo teneva stretti contatti con Roma. Accanto ai rapporti annuali che come governatore e comandante militare doveva inviare al senato – e che formano il nucleo centrale dei suoi Commentarii sulla Guerra Gallica – Cesare aveva una fitta corrispondenza con numerose personalità importanti che rappresentavano i suoi interessi a Roma, ad esempio con Cornelio Balbo. Tra l’altro si racconta che fosse in grado di dettare lettere a quattro scrivani contemporaneamente e, se non stava facendo anche dell’altro, addirittura a sette (Plinio, Storia naturale 7,91; Plutarco, Vita di Cesare 17,4-7). Non solo Cesare comunque scriveva alla capitale ma anche i suoi generali, i legati e altri ufficiali e sicuramente anche molti soldati semplici. A Roma la conquista di queste tribù e territori suscitava molto scalpore. Cicerone, tornato da poco dall’esilio proprio con il consenso di Cesare, colse l’atmosfera eccitata in un discorso del maggio del 56: “Le lettere e le ambasciate dalla Gallia ci comunicano quotidianamente nomi finora sconosciuti di popoli, territori e regioni”. (Cicerone, Sulle province consolari 22)
Cesare e le sue legioni non conquistarono un territorio ma soprattutto lo scoprirono e i rapporti che inviarono a Roma divennero la fonte principale delle informazioni sulla Gallia e sulla guerra che Cesare vi stava combattendo. Prima delle campagne di Cesare la Gallia, la Germania e la Britannia erano in gran parte terra incognita, solo qualche commerciante e forse qualche legionario che stazionava nelle province di confine avevano visto quella terra e quelle genti. Le carte geografiche erano quasi inesistenti e imprecise, alcuni trattati etnografici e geografici in lingua greca raccontavano cose favolose. Ad affascinare era soprattutto l’Atlantico, che era considerato parte dell’Oceano che circondava tutto il mondo. Sappiamo di due Greci che hanno scritto un’opera su questo oceano mondiale, Pitea e Posidonio. Il navigatore e geografo Pitea (IV sec. a. C. ) descrive la costa atlantica celtica compresa la Britannia, della sua opera tuttavia non si è conservato quasi nulla. Anche il filosofo e storico Posidonio (135-50 a. C. ), un contemporaneo più anziano di Cesare, insegnante di Cicerone e seguace di Pompeo, informa sulle coste e sui popoli del Nord ma la sua opera è stata tramandata solo indirettamente, tranne pochi frammenti, dal geografo Strabone che scriveva una generazione dopo Cesare.
Geografia, storia e vita contemporanea dei territori oltre le Alpi erano quindi conosciuti solo in modo schematico e lacunoso e il poco che si sapeva era intessuto di immagini mitiche e racconti fiabeschi. L’oceano era considerato un mare misterioso alla fine del mondo con acque dense, quasi non navigabili e piene di mostri marini. Nella poesia greca anche del II sec. a. C. le Alpi a volte erano ancora collegate ai mitici monti Rifei oltre i quali si pensava vivesse il leggendario popolo degli Iperborei, monti altissimi dietro i quali il sole andava a nascondersi ogni notte. La poesia greca e questo tipo di trattati specialistici mettevano le ali a fantasia e pregiudizi nei confronti del mondo barbaro nel quale Cesare stava avanzando e si mescolavano alle notizie che dalle province arrivavano a Roma attraverso funzionari romani, appaltatori fiscali, diplomatici, commercianti e legionari. La Provincia della Gallia Transalpina però esisteva già dal 121 a. C. e Roma manteneva relazioni diplomatiche con diversi prìncipi e popoli celtici, tra l’altro con gli Edui e negli ultimi tempi (dal 59 a. C. ) anche con il re degli Svevi Ariovisto. Il flusso di nomi nuovi che in quei giorni annunciavano le scoperte e le conquiste di Cesare aprivano tuttavia un nuovo mondo al di là delle Alpi e Roma vi partecipava con grande eccitazione. Come sostiene Mommsen, era come se si fosse scoperto un nuovo continente:
L’ampiamento dell’orizzonte storico attraverso le campagne di Cesare al di là delle Alpi fu un avvenimento di portata mondiale come l’esplorazione dell’America da parte degli Europei. Alla stretta cerchia degli Stati mediterranei si aggiunsero i popoli dell’Europa centrale e settentrionale, gli abitanti del Mar Baltico e del Mar del Nord, al vecchio mondo se ne aggiunse uno nuovo. (Mommsen, vol. 3, 1854 e segg. , 273)
L’anno 56 ebbe quindi un’importanza eccezionale perché Cesare stava per superare i confini di quello che allora era considerato il mondo, partiva per la Britannia che era nell’Oceano, ai margini del mondo. La lontana Roma era in fibrillazione per il suo audace esploratore e per i suoi soldati. Da quei giorni è giunta fino a noi una lettera preoccupata che Cicerone inviò a suo fratello, legato in Gallia, che avrebbe dovuto partecipare alla spedizione in Britannia. Cicerone è intimorito ma anche affascinato dalle ripide scogliere dell’Atlantico che eccitano la sua fantasia poetica. Chiede al fratello maggiori informazioni sulla Britannia per poterne scrivere, anzi per poter spronare il mitico Pegaso, il destriero dei poeti:
Così [... ] attaccherò i miei cavalli, anzi addirittura – tu dici che la mia poesia gli piace [a Cesare] – la quadriga del poeta. Datemi solo la Britannia, con il mio pennello la dipingerò nei tuoi colori. (Cicerone, Lettere al fratello Quinto 2,14,2; cfr. anche 2,16,4)
Cicerone non era il solo ad avere l’ambizione di descrivere in versi la campagna di Cesare in Gallia. Si suppone che Varrone Atacino nel suo poema epico Bellum Sequanicum – ci è stato tramandato solo il titolo – abbia raccontato la vittoria di Cesare su Ariovisto mentre Catullo dice di sé che a causa delle sue pene d’amore vuole andare alla fine del mondo:
possa superare [Catullo] le Alpi elevate per guardare di Cesare i trofei, del Grande, della Gallia il Reno, il mare terribile, dei Britanni l’estrema frontiera. (Catullo, Poesie 11,9-12)
La vecchia topica poetica dei confini del mondo abitato viene associata all’attualità delle spedizioni militari di Cesare che osava spingersi dove finora – a parte il quasi dimenticato Pitea – solo gli eroi mitici erano arrivati. I poeti raccontano che Giasone e gli Argonauti erano penetrati nell’Atlantico con la loro nave divina e che anche il figlio di Zeus, Ercole, nel suo viaggio verso le Esperidi e Odisseo nelle sue peregrinazioni avevano passato l’attuale via di Gibilterra e visto l’Atlantico ma la maggior parte dei miti si limitava a Paesi e regioni nel Mediterraneo. Nell’antichità le Colonne d’Ercole localizzate nello stretto di Gibilterra marcavano il punto estremo del mondo conosciuto. È significativo che anche il comando straordinario (67 a. C. ) contro i pirati che fece di Pompeo il comandante assoluto di tutti i mari arrivasse “solo” fino alle colonne. Al di là di questo punto geografi e poeti immaginavano terre mitiche proibite agli uomini: la leggendaria Atlantide, le paradisiache Isole dei Beati o un alter orbis da sempre immaginato da poeti e filosofi, un secondo mondo non ancora scoperto. Ora Cesare, come sembrava, si accingeva a percorrere proprio questa via.

L’invenzione di un genere

Le campagne militari e le spedizioni al nord di Cesare erano dettate da motivi di politica interna. Esse servivano a dimostrare il suo potere ed erano una propaganda assolutamente necessaria per ristabilire la sua reputazione danneggiata dalle ambiguità del consolato. Per lui era davvero importante dare visibilità ai suoi grandi successi come generale e come esploratore e cercò di conquistare e di impressionare l’opinone pubblica con molte iniziative, ad esempio le feste di ringraziamento di più giorni durante le quali il popolo romano poteva festeggiare a sue spese, ma anche attraverso la pubblicazione di libri. Il racconto in sette libri delle sue campagne militari in Gallia altro non era che la prosecuzione della politica con i mezzi della letteratura. Il filologo Will Richter (1977, 97) coglie nel segno quando dice che i Commentarii di Cesare “sono allo stesso tempo resoconti, letteratura e azione politica”. Cesare persegue la sua politica non solo con mezzi militari ma anche letterari o come afferma il filologo Hermann Fränkel: “La configurazione letteraria nelle relazioni di Cesare è solo una prosecuzione della configurazione che egli con le sue azioni imprimeva alla realtà” (Fränkel, 1960, 311).
Cesare comunque non costituiva certo un’eccezione. Una breve panoramica storico-letteraria mostrerà in che modo a Roma politica e letteratura erano strettamente intrecciate e dove si collocasse il genere del commentarius all’interno di questo intreccio. Questo tipo di scritto infatti rientra in una lunga tradizione romana che Cesare accoglie ma modifica anche; inventando alla fine, come vedremo, un nuovo genere.

La vita letteraria “romana”

Se si volesse dire con una frase qual è il tratto fondamentale più appariscente della letteratura romana (giunta fino a noi) il risultato, forse sorprendente, potrebbe essere che è la relazione costante con la Roma politica contemporanea che non solo traspare ma assume una funzione portante in quasi tutti generi, in questo la letteratura romana si distingue fondamentalmente anche dalla letteratura greca. Basta una rapida rassegna dei generi della letteratura romana per rendere evidente la quasi onnipresenza della Roma politica. Se è ovvio che l’orazione o la storiografia, che è sempre legata a tendenze politiche, facciano costante riferimento alla politica romana contemporanea, anche generi poetici come il poema epico, l’elegia o la lirica mostrano – anche se in modo diverso – relazioni strette e concrete con il discorso politico. Virgilio ad esempio nella sua Eneide racconta la preistoria di Roma mantenendo un costante riferimento al suo tempo, nel quale sta nascendo il principato di Augusto, cioè il potere assoluto del “Primo Cittadino”. Anche se secondo la tradizione antica l’azione principale dell’Eneide, le peregrinazioni dei Troiani dall’Asia all’Italia, si svolge circa 300 anni prima del 753 a. C. , anno della fondazione di Roma, quindi nell’XI secolo a. C. , Virgilio spiega in tre scene centrali come le avventure dei Troiani si collegassero strettamente agli sviluppi della Roma contemporanea: il destino aveva voluto che Enea e suo figlio Iulo, capi troiani e anche antenati di Cesare e Augusto, e i loro compagni arrivassero sicuri in Italia e vi si stabilissero perché un giorno i loro discendenti, Augusto e i Romani, potessero ottenere il dominio di Roma e del mondo. La relazione con Roma è caratteristica anche delle odi liriche di Orazio e con questo non si intende solo che Orazio scrive lirica politica ma anche che egli in un’unica poesia combina spesso temi privati come amore, vino e musica con temi politici, anzi di quotidianità politica, egli tende l’arco dal piccolo mondo personale al grande mondo romano ed eleva a politica il vissuto quotidiano o nelle esperienze quotidiane rispecchia l’alta politica. La poesia elegiaca di un Properzio o di un Ovidio delinea un mondo sperimentale alternativo all’ordine sociale romano e alla politica di restaurazione di Augusto sempre riconoscibili sullo sfondo. Anche la commedia e la satira si occupano prevalentemente di critica sociale e spesso prendono di mira anche singoli politici. Si può quindi affermare tranquillamente che la maggior parte dei generi della letteratura romana ha una palese impronta politica e presuppone una conoscenza dettagliata della politica romana.
I motivi sono evidenti: il luogo sociale nel quale la letteratura latina poteva esplicarsi con vitalità era esclusivamente Roma. Quasi tutti gli autori latini che ci sono stati tramandati, da qualunque città dell’Italia o dell’Imperium Romanum provenissero, si trasferirono e lavorarono a Roma. Cicerone, il poeta Virgilio, Orazio e Ovidio, gli storici Sallustio, Livio, Tacito, il filosofo Seneca o l’epistolografo Plinio, nessuno di loro era romano di nascita ma tutti ricevettero o completarono a Roma quella formazione letterario-retorica che permise loro di essere attivi come scrittori e di intraprendere la carriera politica; com’erano definiti dagli aristocratici romani di lunga tradizione, essi furono gli homines novi della politica romana.
Anche i poeti che non intrapresero la carriera politica, il cursus honorum, come Catullo, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Tibullo o Ovidio, non erano affatto lontani dalla politica. Essi erano a volte degli indecisi destinati in realtà alla carriera politica, come Ovidio, o erano amici di politici, come Catullo, oppure avevano un rapporto clientelare con un aristocratico attivo in politica che li promuoveva, li proteggeva e li assisteva materialmente. Gli Scipioni, Mecenate o Messalla e più tardi molti imperatori romani assunsero il ruolo di protettori dei letterati anche in prima persona e non lo fecero senza contropartita. Un entourage colto non garantiva solo lo scambio spirituale personale ma intrattenimento adeguato nelle molte occasioni sociali, e soprattutto rappresentanza all’altezza del rango del suo patrono.
Se Roma era il luogo nel quale si imparava, si praticava, si curava e anche si finanziava l’attività letteraria, è anche ovvio che lì nascesse non solo una letteratura latina ma molto più concretamente una letteratura romana la cui comprensione presupponeva la Roma sociale, culturale e appunto anche politica. Il legame tra attività letteraria e politica romana però andava anche oltre perché molti aristocratici si occupavano personalmente di letteratura e non solo di politica. A Roma infatti formazione politica e formazione letteraria erano in un certo senso la stessa cosa, cioé lo studio della retorica, e nel mondo antico la retorica comprendeva anche una conoscenza approfondita della storia della letteratura perché sulla scorta della letteratura si esercitavano lingua e stile e si raccoglieva materiale per citazioni, esempi e confronti. Non c’è orazione di Cicerone che non citi dei versi.
Non stupisce quindi che molti politici romani abbiano composto dei versi almeno in età giovanile; anche il giovane Cesare avrebbe scritto poesie e tragedie (Svetonio, Vita di Cesare 56, 5 e 7). Nei momenti di ozio o dopo il ritiro si dedicarono alla letteratura anche politici consolidati, ad esempio Lutazio Catulo, il vincitore dei Cimbri, scriveva tra l’altro lirica erotica, e abbiamo già parlato di un progetto di Cicerone relativo a un poema sulla Britannia. Cicerone scrisse i suoi trattati filosofici e retorici – per lo più in un’accattivante forma dialogica - nei periodi nei quali era escluso dal gioco politico. Durante la carica di legato nell’accampamento di Cesare suo fratello Quinto si distraeva componendo tragedie (Cicerone, Lettere al fratello Quinto III, 5, 7). Sallustio si dedicò alla storiografia alla fine del suo cursus honorum. Nel periodo repubblicano gli storici erano molto spesso senatori perché si riteneva che solo loro disponessero della competenza nelle faccende statali e militari richiesta da questo genere letterario. Quando la ricerca moderna parla di storiografia senatoria fa riferimento proprio a questo fatto.
C’erano anche aristocratici che nelle autobiografie esponevano direttamente il loro testamento politico. La prima opera di questo tipo è testimoniata per M. Emilio Scauro, console dell’anno 115 a. C. , che a partire dal suo consolato fu considerato primo tra i senatori (princeps senatus). Nonostante la sua origine patrizia egli dovette costruire da solo la propria carriera quasi come un homo novus perché, come racconta Cicerone (Cicerone, Per L. Murena 16), già da tre generazioni la sua famiglia non aveva più ottenuto cariche politiche e forse era indebolita anche economicamente. È significativo che proprio un aristocratico con questa realtà familiare fosse uno degli ottimati che sosteneva una politica particolarmente conservatrice e che con la sua autobiografia De vita ipsius (Sulla sua vita) in tre volumi volesse garantire la posizione sociale futura della sua antica e dimenticata famiglia ora riabilitata dal suo consolato. L’opera comunque non incontrò grande favore (Cicerone, Brutus 112). Anche P. Rutilio Rufo, console dell’anno 105 e di antica nobiltà plebea, oltre a un’opera storica scrisse anche un’autobiografia di tendenza apologetica, De vita sua. Nel 92 a. C. Rutilio, che durante la carica di legato in Asia aveva cercato l’appoggio dei cavalieri appaltatori fiscali, fu condannato per corruzione da giudici prevenuti appartenenti all’ordine equestre e fu esiliato. In questo caso la sua opera, che metteva nella giusta luce amici, nemici e se stesso, ebbe l’effetto desiderato e Rutilio entrò nella storia come martire di una giustizia ingiusta. Questi due esempi mostrano i motivi sociali e politici tipici che potevano spingere un aristocratico romano a scrivere un’autobiografia.
All’autobiografia però era sempre associato il sospetto di una certa presunzione e per questo motivo molti aristocratici scelsero una via più elegante. Infatti era del tutto normale che una famiglia nobile conscia del proprio rango avesse il proprio poeta o storiografo di casa che si preoccupava affinché le azioni compiute dai capifamiglia in guerra o in politica non fossero dimenticate. Il console M. Fulvio Nobiliore, ad esempio, si fece accompagnare in una campagna militare dal famoso poeta Ennio che celebrò questa guerra nel dramma Ambracia e nel libro XV dei suoi Annales. Il già citato Q. Lutazio Catulo, che nel 101 a. C. assieme a Mario aveva vinto nei pressi di Vercelli la tribù germanica dei Cimbri, scrisse un libro sul suo consolato che consegnò all’amico e poeta A. Furio perché ne traesse una poesia (Cicerone: Brutus 132). Gneo Pompeo assunse come storico di casa il suo amico Teofane di Mitilene e il dittatore Silla dedicò la sua autobiografia al giovane amico nobile L. Licinio Lucullo perché questi ne potesse trarre una monografia storica. Anche Cicerone inviò alcuni appunti sul suo consolato, tra gli altri, al suo ex insegnante Posidonio perché li elaborasse, ma questi rifiutò, come rifiutò anche lo storico Lucceio a cui in seguito chiese la stessa cortesia (Cicerone, Lettere ai famigliari 5,12). Solo il suo amico Attico, ricco cavaliere, gli fece il favore di elaborare la bozza. Cicerone ne fu contento ma trovò il suo tentativo troppo asciutto e conciso (Cicerone, Lettere ad Attico 2,1,1). Fu un bene che egli stesso fosse uno scrittore dotato perché prese in mano la penna e celebrò il suo consolato in generi diversi, tra l’altro anche in una poesia epica, affinché, come scrive in una lettera autoironica, nessun genere rimanesse inutilizzato per la sua gloria (Cicerone, Lettere ad Attico 1,19).
Naturalmente gli storici di casa o gli scrittori amici che avrebbe dovuto porre nella giusta luce le azioni dei loro nobili signori avevano comunque bisogno che questi fornissero loro materiale adeguato: documenti, discorsi, atti, lettere, diari e anche bozze rudimentali che delineavano le linee guida, i punti salienti e se possibile la tendenza politica desiderata. Questi dossier si chiamavano Commentarii, proprio come il titolo che Cesare scelse per i suoi sette libri sulla Guerra Gallica. Nel prossimo capitolo vedremo perché Cesare scelse questo titolo.
Anche se breve, questo riepilogo del carattere della letteratura romana mostra in modo esemplare quanto politica e letteratura romana fossero strettamente connesse – e ora si capisce anche la giusta importanza dell’aggettivo “romano” – perché molti letterati erano in contatto con i politici o in un rapporto clientelare con loro o addirittura erano essi stessi attivi in politica. Ma c’erano anche letterati d’opposizione che con i mezzi della letteratura lottavano contro politici malvisti e le loro posizioni. Per entrambi, letterato e politico, la sfera ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Prima parte
  3. Seconda parte
  4. Conclusioni. Cesare inventore di se stesso
  5. Riassunto dei libri I-VIII del De bello gallico
  6. Note
  7. Bibliografia
  8. Cronologia