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Manifesto per la riduzione della settimana lavorativa

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Manifesto per la riduzione della settimana lavorativa

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L'obiettivo della settimana lavorativa di quattro giorni è la costruzione di una società della piena occupazione a orario ridotto. Una società in cui tutti i cittadini siano coinvolti nello sforzo produttivo e di riproduzione sociale, e al contempo abbiano una disponibilità crescente di tempo liberato da dedicare al perseguimento delle proprie aspirazioni in maniera piena e autonoma. Questa strategia permette di condividere le capacità che il lavoro consente, rendendo più robusto l'ordine sociale e riducendo le aree di marginalità. Allo stesso tempo fa sì che nessuno si senta sopraffatto dai propri doveri oppure abbia la sensazione di stare dedicando l'intera esistenza a un obiettivo che non sente proprio né utile. Riducendo l'ammontare di ore che ciascuno di noi apporta al sistema economico, e redistribuendo il lavoro tra tutti i cittadini attivi, permetteremo a ciascuno di condurre una vita dignitosa.

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Informazioni

Editore
People
Anno
2022
ISBN
9791259790835
Argomento
Business
Noi non ci realizziamo mai.
Siamo due abissi: un pozzo che fissa il cielo.
Fernando Pessoa

Prefazione

di Fausto Durante*

La riflessione che Giorgio Maran ha svolto, puntando la sua attenzione sulla questione dell’orario di lavoro e della sua riduzione, ha il merito di presentare in maniera chiara ed efficace le caratteristiche del lavoro nel tempo presente e, più in generale, del rapporto tra l’attività lavorativa, l’economia e le società nell’epoca della globalizzazione e della massima integrazione dei mercati e dei sistemi produttivi. Un’epoca che, anche attraverso la diffusione su larga scala della tecnologia digitale, dell’intelligenza artificiale e della robotizzazione, ci sta facendo conoscere il più straordinario e rapido processo di rivoluzione industriale nella storia dell’umanità. Tutto sta cambiando progressivamente davanti a noi, che siamo posti di fronte a una gigantesca trasformazione dei meccanismi della produzione, dei modelli di impresa, della fornitura di beni e servizi, delle modalità di effettuazione delle prestazioni di lavoro.
In genere, quando nel passato si sono realizzati i grandi cambiamenti spinti dall’introduzione delle nuove tecnologie, il mondo del lavoro ha goduto dei vantaggi portati dal progresso. Dalla prima rivoluzione industriale in poi, un lento ma continuo processo di miglioramento ha riguardato le condizioni di lavoro, i livelli salariali, i contesti ambientali e di salubrità dei luoghi di lavoro, le tutele sociali, i diritti all’associazione in sindacato e alla contrattazione collettiva. In parallelo, dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni Settanta dello scorso secolo, gli orari di lavoro hanno conosciuto una graduale tendenza verso la riduzione, per giungere all’attuale situazione che vede nei Paesi più sviluppati, con l’eccezione della Francia e di diversi settori industriali in altre nazioni europee, un orario di lavoro medio attestato prevalentemente su otto ore al giorno per cinque giorni a settimana. Come è ovvio, non si è trattato di un processo spontaneo. Diritti, salari, tutele, condizioni di lavoro hanno conosciuto miglioramenti, in particolare in quella che definiamo come l’area occidentale del mondo, perché i rapporti di forza tra lavoro e impresa hanno permesso una efficace azione di contrattazione e perché le scelte politiche e i provvedimenti legislativi di governi e parlamenti hanno determinato un contesto favorevole a una distribuzione equa della maggiore ricchezza creata in virtù delle nuove tecniche produttive e dell’innovazione, con attenzione e sensibilità per l’impatto sulla società delle conseguenze dei cambiamenti strutturali nel lavoro.
L’insieme delle condizioni sopra descritte non è più automaticamente dato, di questo occorre essere consapevoli. I grandi avanzamenti tecnologici, i progressi scientifici, i miglioramenti nel funzionamento di macchinari e sistemi produttivi stanno certamente rivoluzionando il mondo che conosciamo e cambiando il panorama del lavoro. Stanno già oggi, cioè, distruggendo posti di lavoro, ne stanno creando di nuovi e nel futuro ne creeranno ancora di più. E, tuttavia, se il cambiamento non avviene in maniera regolata e socialmente sostenibile (e oggi in larga misura ciò non avviene), esso può rappresentare sia un progresso sensibile per i lavoratori che saranno pronti e formati a quel cambiamento sia una minaccia per la stabilità degli impieghi e del reddito per i lavoratori che dovessero essere esclusi dal processo di riqualificazione e di aggiornamento delle proprie competenze. In più, da molti anni la diffusione di smartphone e altri dispositivi mobili ci sta portando il lavoro a casa in momenti in cui dovremmo essere liberi, in orari che dovrebbero essere dedicati alla famiglia, al riposo, agli interessi personali, oppure nei fine settimana o nei periodi di ferie. Per molte imprese sta diventando normale inviare e-mail o richieste di prestazioni di lavoro in qualunque ora del giorno o della notte, aspettandosi in numero crescente reazioni just in time da parte dei propri dipendenti.
La pandemia da Covid-19 e il ricorso a forme di lavoro a distanza con scarsa o nulla regolazione contrattuale hanno contribuito ad accrescere la portata di questo fenomeno. La dimensione del lavoro, un tempo fisicamente limitata a fabbriche e uffici, ci segue e ci accompagna pressoché ovunque, diventando elemento permanente nella vita quotidiana e cambiando il concetto di tempo libero, attività di lavoro, sfera familiare e privata. Senza una adeguata definizione di accordi collettivi e di norme contrattuali su questi nuovi temi, è sempre più reale il rischio che l’idea di orario di lavoro cambi natura e divenga più liquida, più pervasiva e assorbente. E con in più la possibilità che – a differenza di quanto è auspicabile ed è normale attendersi – le nuove e più avanzate tecnologie concorrano a far diminuire i margini di libertà e di autonomia dei lavoratori, invece che ad accrescerli e farli progredire. Basterebbe solo considerare quanto avviene con il lavoro nelle piattaforme digitali, in particolare quelle per il trasporto e la consegna di merci e cibi a domicilio. Tra comando di freddi algoritmi con cui non ci può essere relazione diretta, ritmi frenetici e massacranti (che, ad esempio, Ken Loach ha drammaticamente ma realisticamente rappresentato nel film Sorry We Missed You), assenza di contrattazione collettiva e di rappresentanza sindacale, il lavoro nella cosiddetta gig economy acquisisce via via i tratti del moderno schiavismo e della precarietà digitale.
Per tutte queste ragioni, il tema che nella attuale fase della storia il movimento dei lavoratori deve affrontare, a livello nazionale ma soprattutto con una attività di respiro internazionale, è proprio come provare a invertire queste tendenze. Oggi non è scontato e “naturale” che il maggior numero di lavoratori e i settori più deboli delle nostre società, in Occidente come nel resto del mondo, si vedano riconoscere i vantaggi che ogni cambiamento ha sempre portato con sé. Anzi, nell’economia del turbocapitalismo e del neoliberismo imperante, assistiamo a fenomeni dai caratteri opposti: il quadro di norme legislative e di tutele contrattuali a favore del lavoro dipendente tradizionale è stato attaccato e deteriorato pressoché ovunque, i nuovi posti di lavoro sono caratterizzati da alti tassi di precarietà e instabilità e da salari di livello insufficiente, il numero di working poors è in costante crescita, la tendenza alla diminuzione dell’orario di lavoro si è bloccata e in molti casi ha lasciato il posto a dinamiche di segno contrario. In gran parte del mondo, per la classe lavoratrice del XXI secolo il segno distintivo della propria condizione sta diventando l’equazione “lavoro = orari lunghi + stipendi bassi”.
Ribaltare quei paradigmi significa mettere in discussione l’ordine delle cose esistente, che presenta aspetti di distorsione sociale e di diseguaglianza per molti versi intollerabili, significa riscrivere la gerarchia dei valori sociali anteponendo la felicità e il benessere delle persone ai conti economici delle imprese e ai guadagni degli azionisti, significa ripristinare il primato della politica e della dimensione pubblica sull’economia. In questo senso, il discorso generale sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario deve uscire dal cono d’ombra in cui è stato collocato e conquistare una nuova centralità, anche nella discussione interna al movimento sindacale.
Alcuni segnali incoraggianti in tal senso si sono già registrati, non solo negli ambienti della sinistra politica e sindacale ma anche presso istituzioni internazionali e organi di informazione interessati a quella riforma del capitalismo che sempre più viene considerata indispensabile. Ad esempio, il programma elettorale del Labour Party per le elezioni del dicembre 2019 nel Regno Unito conteneva la proposta di portare in dieci anni l’orario di lavoro a trentadue ore settimanali senza diminuzione di salario, mentre nello stesso anno la leader socialdemocratica finlandese Sanna Marin (che sarebbe poi diventata prima ministra della Finlandia) proponeva di discutere di una settimana lavorativa ancora più breve, quattro giorni di sei ore ciascuno. Con la pandemia Covid-19 il carattere strategico della questione è emerso in tutta la sua attualità. A favore della riduzione dell’orario di lavoro e della settimana lavorativa di quattro giorni si sono levate le voci della prima ministra della Scozia Nicola Sturgeon e della sua omologa della Nuova Zelanda Jacinda Arden, mentre in Germania il presidente del sindacato metalmeccanico IG Metall Jörg Hofmann, appoggiato dal ministro del Lavoro Hubertus Heil, ha proposto di introdurre la settimana di quattro giorni nell’industria tedesca dell’automobile in risposta sia all’emergenza Covid-19 sia all’impatto della digitalizzazione del settore dell’automotive, che contemporaneamente deve affrontare la ristrutturazione legata agli impegni assunti per la sostenibilità ambientale e la decarbonizzazione delle produzioni. In realtà, anche giornali economici come il Financial Times, centri di studio come il National Bureau of Economic Research degli Usa o la New Economics Foundation di Londra e riviste come The New Yorker hanno pubblicato negli ultimi anni articoli di approfondimento e ricerche basate su metodi scientifici per illustrare i possibili risultati positivi della settimana lavorativa di quattro giorni. In Gran Bretagna è aperta la discussione su un libro scritto a più mani da Anna Coote, Aidan Harper e Alfie Stirling intitolato The Case for a Four Day Week, nel quale gli autori spiegano come una settimana lavorativa di quattro giorni potrebbe migliorare il rendimento dei lavoratori e la produttività delle imprese, aiutare a contrastare la povertà nel lavoro, assecondare la transizione verso una società più equa e un’economia più sostenibile.
Come risulta evidente, la riduzione dell’orario di lavoro non è un tema superato o un ricordo vintage per sindacalisti del secolo scorso, ma è uno degli strumenti più attuali per ricostruire un’idea di valore e di centralità del lavoro e per aiutare la società ad affrontare meglio la nuova rivoluzione industriale e il grande cambiamento digitale. Fenomeni a cui non bisogna certo opporsi ma che vanno governati e orientati in favore dell’interesse generale, della qualità della crescita economica, della sostenibilità dell’industria e dell’economia. Il testo di Giorgio Maran si inserisce nel filone degli studi sul nuovo ruolo del lavoro nel mondo del futuro e ci fornisce al riguardo un utilissimo contributo.

QUATTRO GIORNI
MANIFESTO PER LA RIDUZIONE DELLA SETTIMANA LAVORATIVA

Introduzione

Nonostante a più riprese se ne annunci l’imminente fine, il lavoro rimane il fondamento della nostra società. Non è solamente lo strumento che ci garantisce un reddito ma, non fosse altro che per l’enorme quantità di tempo che gli dedichiamo nel corso della nostra esistenza, rimane un’attività umana centrale nella vita delle persone. Questo è vero quando il lavoro riesce a sprigionare il proprio potenziale di legame sociale mostrandosi nella sua versione migliore, quella poi ingenuamente e frettolosamente idealizzata come libertà creatrice nella tradizione socialista. Ma rimane vero anche quando mostra il suo lato peggiore, fatto di sfruttamento, precarietà e ripetitività. Non solo, il lavoro rimane centrale anche in absentia, quando manca a chi invece dovrebbe averlo. Ciò accade per il suo particolare carattere di attività umana trasversale e multiforme. È allo stesso tempo molte cose: un fattore di produzione delle ricchezze, il principale mezzo attraverso il quale queste ricchezze vengono distribuite, l’attività che permette all’uomo di mediare tra sé e la natura, uno dei legami che uniscono le persone alla propria comunità.
Credo che rispetto al concetto di lavoro vadano rifiutati alcuni eccessi di valutazione, in una direzione e nell’altra. Quelli di chi ritiene che il lavoro sia un’attività gratificante di per sé, perché ciò è vero solo per un ristretto e fortunato numero di individui che possono pensare al proprio lavoro come a un’opera: cioè quel tipo di attività profondamente umana che garantisce all’uomo la «possibilità di mettere una parte di quello che è in quello che fa, di dare corpo ai propri pensieri, di far realizzare al di fuori di sé ciò che ha concepito dentro di sé»1. Al di là di una ristretta minoranza, oggi in pochi riconoscerebbero il proprio lavoro in questa descrizione. Per la grande maggioranza delle persone, la propria esperienza lavorativa non risulta pienamente gratificante e ciò non dipende solo dalle condizioni nelle quali viene esercitata. Alcune attività rimarranno sempre faticose o ripetitive e attendere un mitico momento del riscatto che cancelli la parte negativa del lavoro ci allontana da una sua valutazione realistica.
Ma vanno anche rifiutate visioni di senso opposto che vedono il lavoro come un castigo biblico fatto di attività penose e necessariamente svolto in condizioni degradanti. Questo perché il lavoro non è una parentesi obbligata separata dal resto delle nostre giornate. Mentre lavoriamo sviluppiamo le nostre capacità professionali, coltiviamo relazion...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Colophon
  4. Frontespizio
  5. Indice
  6. Prefazione di Fausto Durante