Suite per Irène
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Parigi 1942, Irène Némirovsky ha nove minuti per fare la valigia e lasciare un marito e due figlie, prima di essere deportata al campo di Auschwitz-Birkenau. In quel luogo, ogni notte, come un antidoto al dolore, la sua mente ripercorre l'infanzia vissuta a Kiev e a Mosca, l'esilio in Finlandia, in Svezia e il suo arrivo nella sognata e amatissima Francia. Il romanzo biografico immaginato da Federica Lauto ci porta in un viaggio nel mondo interiore di una delle autrici più importanti e prolifiche del Novecento, i cui giorni si intrecciano con quelli della Storia con la "s" maiuscola: dalla Rivoluzione Russa all'Europa degli anni Venti e Trenta, dalla salita al potere di Hitler allo scoppio della Seconda guerra mondiale. L'omaggio di Federica Lauto a Némirovsky si basa su una ricerca scrupolosa e accurata della vita e dei romanzi della scrittrice, da cui emergono i conflitti in famiglia, e in particolare con la madre, i successi e le delusioni professionali. Di Irène Némirovsky affiora e palpita, inoltre, il desiderio di appartenere ai luoghi in cui vive, e in particolare a Parigi, città che la farà sentire tanto amata quanto respinta, come una figlia accolta ma mai realmente voluta.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9791280559135

1

KIEV E L’ASMA

La mia prima camera a gas è stata la città in cui sono nata, con quei tigli asfissianti allineati lungo i viali.
Nei libri Kiev è descritta come una città meravigliosa, piena di alberi, sinuosa come la silhouette di una donna, di uno splendore selvaggio, e gonfia di luce in estate. Ma per me era una serra soffocante. In primavera si riempiva di pollini micidiali che mi provocavano una tosse tremenda e ci costringeva a camminare su un tappeto di fiori soffice come ovatta, tra corolle sgualcite e alberi violacei che lanciavano strane ombre nell’aria della sera.
Non potrò mai dimenticare l’odore di quella città, che si intensificava in primavera, quando un’umidità lieve saliva dalle strade e si diffondeva veloce in mezzo alle case.
Kiev era la madre delle città russe, perché lì era sorta la Russia degli zar. Il principe Oleg vi aveva instaurato la dinastia dei Rus, al termine di un lungo assedio dal quale era uscito vincitore nell’882 e, dopo un secolo, la città era stata convertita al cristianesimo sotto il regno di Vladimiro, che aveva costretto tutti a battezzarsi immergendoli nel Dnepr, il fiume nero.
Quel fiume, nonostante i saccheggi e le guerre, era sempre rimasto una via piena di traffici che portavano vita e ricchezze. Grazie ad esso Kiev cresceva e diventava la famosa culla della Russia. Ma non era di certo la mia, di culla. Per me, Kiev restava una cittadina grigia, che aveva poco a che fare con il brio e il divertimento che mi procurava invece Parigi, dove andavo spesso con mia madre.
Lì sì che c’era vita: alle Tuileries ammiravo la luna che spuntava sopra la colonna Vendôme, passeggiavo per il Bois de Boulogne fra negozi scintillanti e inspiravo l’odore di elettricità e benzina che si scioglieva nella nebbia sottile, in mezzo al cielo vestito di nubi.
Di Kiev, invece, ricordo i terreni incolti nel cuore della città, il Circolo dei Mercanti e la piazza intitolata a Nicola I; il parco centenario e le terrazze verdi sul Dnepr, ma anche la città bassa del Podol che si scorgeva da lì, l’orto botanico e il parco dello zar disteso sulle colline.
Era soprattutto l’orto botanico a impressionarmi, con i suoi tigli centenari, lo stagno torbido e le gabbie di ferro dove sonnecchiavano un’aquila del Caucaso, qualche vecchio lupo e un orso spelacchiato; animali che una volta erano stati selvaggi e ora sostavano all’ombra delle sbarre, senza più ricordare cosa si prova a essere liberi.
Altri ricordi riguardano i rumori: le urla del šurum-burum, il venditore di tappeti, e l’assordante scampanellio dell’uomo dei gelati. Questi ricordi si mescolano con la sensazione soffocante di non poter respirare.
Ho sempre sofferto d’asma, perciò in casa mia non c’erano fiori, tranne un tulipano solitario in mezzo alla tavola e alcune piante di tabacco tenute sul balcone, che crescevano solo di notte.
Un solo mazzo di fiori sarebbe bastato a stordirmi. La mia asma si presentava all’improvviso, costringendo il petto in una morsa. Era inevitabile e forte, e io dovevo convivere con lei. Ma la detestavo. La detestavo e la conoscevo profondamente, come una sorella malvagia che albergava dentro di me.
Quando è nata la mia asma?
Mi hanno sempre raccontato che nel 1905, quando avevo due anni, ci fu un pogrom, una rivolta. Io ero troppo piccola per ricordarlo ma, se scavo nella memoria, mi pare di sentire un intenso odore di tigli e la fatica delle mie gambe che si allungano mentre mi alzo in punta di piedi, cercando di guardare dalla finestra.
Doveva avermi attirato il rumore. Si era sentito un boato, là fuori. Per strada, c’erano molte persone. Cos’era successo? La Russia aveva perso la guerra contro il Giappone e il popolo era affamato. Solo uno spargimento di sangue poteva distrarlo ed era necessario agire subito perché il malcontento si era già mutato in un’insurrezione. I pogrom servivano a questo, a distogliere l’attenzione della gente creando un capro espiatorio.
Così si era diffusa la voce che gran parte dei rivoluzionari fossero ebrei e al grido di “Linciate gli ebrei e salvate la Russia” i soldati si erano gettati in città. C’erano stati incendi e saccheggi. In un solo giorno, nel quartiere della Moldavanka, si erano contati più di trecento morti. Era il settimo pogrom dal 1821, ma aveva superato tutti gli altri per ferocia. In meno di una settimana erano morti oltre ottomila ebrei. E molti sopravvissuti scelsero l’esilio.
Allora io non lo sapevo e, per tutta la mia vita in Russia, la parola pogrom non venne mai pronunciata nella mia famiglia, se non con un sussurro spaventato fra labbra strette. Ma anche se l’avessero detta, allora non l’avrei capita. Ero troppo piccola.
In quel momento vedevo solo vetri infranti, porte divelte e pietre lanciate. I rivoltosi avevano superato la linea che separava la città bassa dalla città alta e si erano riversati nel quartiere agiato dove abitavamo, spaccando vetri, sfondando portoni, spezzando i rami dei tigli e sollevando un polverone al loro passaggio.
Mi sporsi di più per vedere meglio. Allora mia madre mi prese, girò la mia faccia e la schiacciò contro il suo petto affinché non vedessi. Sprofondai fra i suoi seni e mi sentii soffocare. Aveva un profumo fortissimo che mi entrò nelle narici. Non riuscivo a respirare. Con la fronte graffiata dalle sue perle, cercai di liberarmi.
Finalmente, mollò la presa. Poi fu la cuoca Maša ad afferrarmi, mi infilò un crocefisso al collo e mi nascose dietro l’armadio, pregando che il Signore mi proteggesse. Poco dopo i rivoltosi passarono oltre, risparmiando la nostra casa. Le sue preghiere avevano funzionato.
Una volta uscite dai nostri nascondigli, mia madre respirava ancora affannosamente. Il suo petto si alzava su e giù.
Ecco, io credo che sia cominciato lì, quel mio problema così persistente e fastidioso. Da un profumo troppo forte, da una protezione che rischiava di farmi soffocare.
...
Vicino ai muri si alzano tavole che arrivano fino al soffitto. Noi dormiamo qui. È qui che sono appoggiati i sacchi che sono i nostri letti. Ci separa dal legno solo un sacco con poca paglia.
Dalla finestra si vede il crematorio. La fiamma si alza lenta dalla ciminiera.
Quando la sera piomba assieme al buio, ci stringiamo almeno in due su una panca di un metro e mezzo. In inverno forse sarà un sollievo, perché ci scalderemo a vicenda, ma adesso ci si soffoca e intralcia. Le ginocchia di una sbattono sulle anche dell’altra, le caviglie si intrecciano o spingono. Incastrate l’una nell’altra cerchiamo la posizione meno scomoda. A volte la troviamo, a volte no, e ogni mattina siamo indolenzite.
Ci sono momenti, però, in cui non sentiamo niente, neanche il dolore. Qualcuna si lascia morire. Qui si ha la sensazione di essere perdute.
Nel silenzio della notte si sentono gemiti, lamenti e il mio respiro stanco. Guardo lo squallido spazio intorno a me.
Adesso, le altre nella baracca dormono immobili, senza un sogno, sfinite dalla giornata. Una luce sbilenca cade davanti alla finestra. Se si può chiamare finestra questo buco dal quale entra solo orrore ed esce solo dolore.

2

MADRE E PADRE

Quando si può dire che siamo veramente nati? E perché? È una domanda che non ci si pone spesso. Forse se la pongono solo gli infelici.
Io sono nata per dare un erede a mio padre. Mia madre si era lasciata convincere a generarmi. Credo sia stata l’ultima volta che si sia lasciata convincere da lui a fare qualcosa. Da questa sua debolezza sono nata io e lei non me l’ha mai perdonato.
Ero la testimonianza vivente che non era un’eterna ragazza e ciò per lei significava rughe, bruttezza e la fine di un’esistenza piena di amanti, anche se a quelli non ha mai rinunciato. In una parola, significava invecchiare.
Madre è una parola che ha un sapore strano, qui dentro. Mi chiedo dove sia, oggi, mia madre, e non so rispondermi. La immagino in un appartamento polveroso ed elegante, distesa sul letto vicino a una toeletta piena di ciprie, che aspetta la fine della guerra, cercando di eliminare le rughe, sfregandosi sulla pelle qualche cosmetico.
È da prima della guerra che non ho contatti con lei.
La Grande guerra, che mi ha tanto impressionato, al punto da trovare continuo spazio nei miei racconti e nei miei romanzi, lei l’ha passata in un comodo appartamento di Nizza, con il suo amante che mi scriveva a suo nome lunghe lettere in cui mi pregava di non presentarmi più in casa loro e di restituirle le pellicce che avevo preso per pagare i vestiti delle bambine e il viaggio nella città in cui ci eravamo rifugiati.
Mia madre, invece, se l’è passata benissimo. Ha sempre trovato qualcuno che le pagasse abiti di lusso e cene eleganti. Sepolta dai gioielli, fin da quando ero bambina, si inabissava in un turbine di feste da cui usciva stordita e felice, tornando a casa con risate chiassose assieme a uomini che la seguivano in punta di piedi. Mio padre era spesso all’estero per lavoro. Io, dalla mia camera, sentivo tutto.
Se stringo gli occhi posso ancora vederla com’era allora, e vedere me bambina, tremante di rabbia nel mio letto. All’epoca non lo sapevo, ma quell’immenso fastidio che provavo era solo il dolore di non sentirmi amata.
...
Andare al gas significa essere selezionate per la morte. Ti mettono in fila e ti mandano in un locale dove accendono una serie di docce da cui, invece dell’acqua, esce il gas. Dopo, i corpi vengono caricati su una carriola e portati al crematorio.
Il crematorio è un immenso edificio grigio dove i cadaveri vengono inceneriti. Lì, bruciamo. Il fumo si alza nel cielo spento. Dalla mia baracca si vede il camino del crematorio. A volte lo guardiamo e tacciamo. Questo è uno degli orrori di Auschwitz. Ma non è il solo.
Auschwitz-Birkenau è un ampio spazio desolato, costellato di baracche lunghe e basse. Noi viviamo qui. C’è un doppio reticolo di filo spinato intorno. Quello interno è elettrificato. Quelle di noi che non ce la fanno più vanno a toccarlo. Oltre il filo spinato sembra ci sia il nulla. Il paesaggio è brullo e invisibile. La nostra casa e la nostra vita sembrano molto lontane.
Di mattina, all’alba, scattiamo al suono del risveglio. Una delle sentinelle ci avvisa con una sola parola: «Wstawać», che in polacco significa “sveglia”. Non serve che urli, abbiamo troppa paura e ci svegliamo dal sonno più profondo. Ci precipitiamo giù dalle brande e rifacciamo i letti che non devono avere neanche una grinza, altrimenti bisogna rifarli sotto una coperta di insulti. Poi dobbiamo correre a lavarci nella latrina sporca, senza sapone, tenendo i nostri stracci fra le gambe per non perderli o insozzarli. Quindi torniamo indietro e aspettiamo il pezzo di pane grigio che ci danno per colazione. Un pezzo che sembra ogni giorno più piccolo.
A questo punto dobbiamo correre nella piazza dell’appello, dove veniamo contate e ricontate un numero incredibile di volte. Mentre una banda suona una marcia lugubre, dobbiamo stare sull’attenti e solo dopo partire verso il lavoro.
Marciando a ritmo, camminiamo per ore fino a una cava dove spacchiamo pietre. Di sera rientriamo ma è difficile camminare con le scarpe che si rompono e i piedi coperti di piaghe. Però non bisogna zoppicare, o si rischia di inciampare su quella davanti e, se inciampi, ti arriva un calcio o una bastonata da una guardia. Le regole si imparano a suon di botte. Qui nessuno spiega niente. Solo le compagne più anziane ci hanno impartito qualche lezione, dopo un po’. E sono state lezioni dure da digerire.
Durante i primi giorni provavo soprattutto stupore. Di quello che avveniva intorno a me, mi rendevo conto in modo confuso. Era tutto indistinto: le strade fangose e molli, i corridoi troppo stretti tra le cuccette, le baracche piene di spifferi, la schiena della mia compagna con la spina dorsale sporgente, il letto fatto con un sacco. Solo dopo un po’, ho cominciato a capire. È allora che sono ammutolita. Mi è presa una specie di abbattimento. Vedo che capita anche alle altre.
Ma come evitarlo? Questo aver sempre fame e il lavorare senza speranza, il dormire di schianto, come schiave e il cadere come rami secchi dopo ore di lavoro. Il vento che fischia fuori e, di notte, la luna appannata dalle nubi sporche. Tutto questo ci spegne. E quando finiamo, piombiamo in una stanchezza senza sogni. Dormiamo gomito a gomito, come in un canile.
Di mattina è tutto grigio. Anche noi siamo grigie. La nostra pelle è grigia. I piedi sono coperti di piaghe, gli occhi secchi, senza più lacrime. Ma stiamo irrigidite in mezzo alla piazza, sotto il sole freddo e spento della Polonia. Tutte le cose sono finite. I nostri ricordi sembrano così lontani. Restano solo la fame e la desolazione.

3

LA MIA VENUTA AL MONDO E ZÉZELLE

Nemirovskij era un cognome diffuso in Russia e significa “colui che non ha pace”. Deriva da Nemirov, un’antica città della Podolia, un tempo dominata dai polacchi e solo in seguito diventata ucraina, che il 10 giugno 1648 venne attaccata da trecento cosacchi che, su ordine dell’atamano Smelnickij, sgozzarono uno per uno i seimila ebrei che vi abitavano. Uomini, donne e bambini finirono trucidati, fatti a pezzi e gettati nel Dnepr. Solo quelli che avevano accettato di convertirsi si salvarono.
A quel tempo Smelnickij godeva di una certa autonomia, grazie a una concessione dello zar, e aveva pensato di approfittarne per liberarsi degli ebrei a cui erano stati concessi dei terreni per i quali ora bisognava pagare loro un affitto. Via gli ebrei, via il problema. Niente più affitto. Smelnickij era uno sbrigativo e in quel modo avrebbe recuperato le terre. Per giustificare il massacro bastava inventare qualche colpa e il gioco era fatto. Allora diffuse la voce che gli ebrei inquinavano le acque, che erano in combutta con i nemici. La gente ci credette? Non lo so. Ma quell’episodio fu così violento che ancora oggi gli ebrei polacchi lo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. GLI SPOSTAMENTI DI IRÈNE NÉMIROVSKY
  6. PREFAZIONE
  7. PREAMBOLO
  8. PROLOGO
  9. 1 KIEV E L’ASMA
  10. 2 MADRE E PADRE
  11. 3 LA MIA VENUTA AL MONDO E ZÉZELLE
  12. 4 SERE DI PRIMAVERA
  13. 5 EREDITÀ
  14. 6 NONNO IONA
  15. 7 NIZZA, PARIGI, CRIMEA
  16. 8 VIAGGIO IN UCRAINA
  17. 9 I DATIEV
  18. 10 LA MIA BREVE CARRIERA IN TEATRO
  19. 11 LA VENDETTA DI MIA MADRE
  20. 12 LA MORTE DI ZÉZELLE
  21. 13 LA RIVOLUZIONE
  22. 14 DA SAN PIETROBURGO A MOSCA
  23. 15 ANCORA MOSCA
  24. 16 MUSTAMÄKI
  25. 17 HELSINGFORS
  26. 18 STOCCOLMA
  27. 19 CROCIERA CON TEMPESTA
  28. 20 DALL’ACQUA ALLA TERRAFERMA
  29. 21 FINALMENTE IN FRANCIA
  30. 22 LA PERLA PELEGRINA
  31. 23 DEBUTTO
  32. 24 TRA STUDIO E BALDORIA
  33. 25 RITORNI INSPERATI E NUOVI ROMANZI
  34. 26 MATRIMONIO
  35. 27 DAVID GOLDER 202
  36. 28 HENDAYE
  37. 29 RITORNO A PARIGI
  38. 30 DIVENTARE ADULTI, DIVENTARE SOLI
  39. 31 SCRIVERE PER NON CEDERE
  40. 32 RESPONSABILITÀ E DESTINO
  41. 33 PRIMI SEGNI DI INTOLLERANZA
  42. 34 LE COSE SI COMPLICANO
  43. 35 UN’ALTRA ESTATE
  44. 36 INDESIDERATI
  45. 37 IL RITORNO DI JULIE DUMONT
  46. 38 ULTIMO GIORNO
  47. 39 LA FINE DI TUTTO
  48. CHI ERA IRÈNE
  49. POSTFAZIONE
  50. RINGRAZIAMENTI
  51. GLOSSARIO
  52. NOTA BIOGRAFICA DELLA PREFATTRICE
  53. I LIBRI DE LE PLURALI