Uomini sotto il fuoco
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Uomini sotto il fuoco

Il problema del comando in battaglia

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Uomini sotto il fuoco

Il problema del comando in battaglia

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S.L.A. "Slam" Marshall fu un veterano della Prima guerra mondiale e uno storico delle operazioni durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1947 fece sussultare il mondo militare e civile quando dichiarò che, in una compagnia di fanteria media, non più di un soldato su quattro sparava effettivamente le proprie munizioni mentre entrava in contatto con il nemico. Le sue considerazioni si basavano su interviste condotte immediatamente dopo i combattimenti durante il secondo conflitto mondiale, sia in Europa che nelle zone di guerra del Pacifico. Per rimediare a questo squilibrio, Marshall propose di attuare delle modifiche all'addestramento di fanteria per garantire che i soldati americani nelle guerre future riuscissero a fare fuoco sul nemico con maggior successo. I suoi studi condotti durante la guerra di Corea dimostrarono che gli spari furono più che raddoppiati rispetto alla Seconda guerra mondiale. Ma, soprattutto, in questa prima edizione italiana di un classico della Seconda guerra mondiale, emerge il volto più crudele della guerra e il testo si trasforma in un inno ai valori della pace.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788861029590
Argomento
History
Categoria
World War II

CAPITOLO XII

UOMINI SOTTO IL FUOCO NEMICO

“I disegni sono resi stabili dal consiglio;
fa’ dunque la guerra con saggi consigli.”
Bibbia (Proverbi 20:18)
A chi è stato sulla linea del fuoco non occorre puntualizzare che il morale in combattimento non è mai una stabile corrente di forza, ma un’onda che oscilla rapidamente, le cui variazioni non sono né misurabili né prevedibili. È soprattutto per questo motivo – la rapidità e capricciosità delle variazioni – che il morale nella zona dei combattimenti differisce da quello esistente nelle retrovie.
Un gruppo di uomini può affrontare un terribile scontro con il nemico, sopportare con coraggio le perdite, quindi demoralizzarsi completamente nell’ora in cui deve seppellire i propri morti. Un reggimento ridotto in condizioni pietose da una prolungata permanenza in prima linea può ritrovare il suo spirito combattivo nel giro di sei ore, durante le quali i soldati possono spidocchiarsi e avere un cambio di biancheria. Un battaglione che avanza audacemente può essere indotto ad arrestarsi perché il suo comandante gli ha reso il cattivo servizio di andare troppo avanti e farsi uccidere sotto gli occhi dei propri uomini. Un plotone può attaccare e catturare una collina tenuta dal nemico, perdendo metà della sua forza, e poi ritirarsi solamente perché una granata dell’artiglieria amica è caduta troppo vicino e ha colpito un suo soldato.
Quelle citate non sono che alcune delle curiose correnti che si trovano all’interno della marea sempre in movimento. In battaglia c’è molto poco ordine, spesso il corso degli eventi viene determinato dal più banale incidente, e molto di ciò a cui capita di assistere sembra non avere senso. Eppure, vi sono notevoli eccezioni che lasciano pochi dubbi sul fatto che la maggior parte delle regole per la condotta delle truppe sotto il fuoco nemico sono valide e che molti insuccessi dipendano da una loro applicazione non corretta. Quella che segue è la testimonianza di chi assistette all’avanzata del Secondo Battaglione del 502° Reggimento Paracadutisti contro le posizioni tedesche a Best, nei Paesi Bassi, nel settembre del 1944:
“Gli olandesi avevano raccolto il fieno, e pertanto i campi davanti erano coperti da piccoli covoni. Questa era l’unica copertura sul terreno perfettamente piatto. Da sinistra a destra, la linea di soldati si mosse con ordine e disciplina perfetti. Ogni gruppo di due o tre uomini correva verso il successivo covone appena arrivava il proprio turno. E il movimento sul terreno era così sicuro che un osservatore distante avrebbe potuto pensare che i mucchi di fieno fossero di cemento. Ma il tiro delle mitragliatrici colpì i paracadutisti, talvolta dando fuoco ai covoni e talaltra ferendo o uccidendo gli uomini che vi si nascondevano dietro. Queste sfortune non fermarono nessuno, tranne i morti e i feriti. Un uomo fu abbattuto da un colpo, e udii qualcuno gridare: ‘Sergente Brodie, il prossimo sei tu!’ Un altro uomo dietro a un mucchio di fieno rispose: ‘Brodie è morto, ma sto arrivando’, dopodiché saltò su e corse in avanti. Sembrava un’esercitazione su un campo da parata, con i comandanti di squadra in testa e quelli dei plotoni a incitarli. Gli uomini che continuarono a correre in genere riuscirono a salvarsi, mentre i pochi che tentarono di tornare indietro vennero uccisi”.
Vi sono molti episodi accaduti nella Seconda guerra mondiale che eguagliano per valore quello citato. La sua unicità risiede nel fatto che, con un’intera nazione sotto le armi e con migliaia delle nostre ben addestrate unità di fanteria impegnate contro il nemico, cercheremmo invano altri esempi che dimostrino la possibilità di ottenere un ordine quasi perfetto in manovra nelle condizioni esistenti su un campo di battaglia moderno. Questo è l’unico chiaro esempio che possa trarre dalla mia esperienza personale o che sia stato posto alla mia attenzione. Vi furono altre azioni nella stessa campagna militare, l’operazione Market-Garden, che dal punto di vista tattico ottennero risultati molto superiori, ma nessun’altra avanzata fu condotta con la stessa chiarezza e precisione.
Mi sono chiesto perché riusciamo così raramente a ottenere una tale situazione, che è quella di cui avremmo più bisogno in combattimento. Forse una parte della risposta viene dalle condizioni dominanti sul campo di battaglia, che ho già descritto: nelle menti degli uomini si crea un turbamento che fa dimenticare molto di ciò che è stato insegnato in addestramento per il loro stesso bene, ed è vano pensare che esista un rimedio che possa funzionare contro questo fenomeno in ogni occasione.
Allo stesso tempo, sarebbe bene considerare il paradosso secondo cui i soldati sarebbero davvero preparati a manovrare con ordine sul campo di battaglia soltanto se, nell’ambito di un addestramento intelligente, fossero preavvisati del tipo di disordine che dovranno aspettarsi di incontrare in azione.
Fare ciò – ovvero rendere gli uomini consapevoli della natura umana per come è e per come reagisce sotto le varie ed estreme tensioni del combattimento – non può essere ritenuto dannoso per la loro fiducia, a meno che non si riconosca che tale fiducia è una virtù ingannevole.
Quante volte capita, in battaglia, di vedere un giovane ufficiale eccessivamente turbato e scosso perché la realtà che ha sotto gli occhi è molto diversa da quella che aveva immaginato! Vedendo il caos, le lettighe e l’inazione, egli li considera come simboli di sconfitta perché i suoi nervi non sono stati preparati, né il suo occhio allenato a vedere i segni dell’ordine e dei progressi in mezzo alla confusione. È molto meglio che egli conosca la verità e che ciò avvenga gradualmente, in modo che possa vederla con tutte le facoltà mentali e in prospettiva. Se ciò venisse fatto, allora, aspettandosi di trovare lo scompiglio, egli affronterebbe il combattimento con la tenacia del comandante di una nave colpita da una tempesta, concentrandosi sui suoi strumenti invece di rimuginare sugli scuotimenti subiti dal suo vascello. Questo è il tipo di fiducia che è sempre stato richiesto al bravo comandante, ma che non fu mai difficile acquisire e mantenere quanto nella guerra moderna, nella quale le truppe non vengono più stimolate dal procedere spalla contro spalla o rinfrancate dal sapere che il combattimento sarà di breve durata.
Nel momento in cui il contatto e la collisione con il nemico muovono gli uomini in battaglia, facendo leva sulle loro paure e speranze; ingannando la loro immaginazione; incitando la loro iniziativa e poi respingendola; mettendoli improvvisamente di fronte a inaspettate prospettive di successo; facendo svanire tali prospettive a causa di qualche bizzarro scherzo del destino; ricordando loro che sono mortali e allo stesso tempo stimolando i loro istinti animaleschi; ebbene, lo stesso gruppo di soldati potrà agire come un branco di leoni e poi, nel giro di pochi minuti, come uno di lepri impaurite.
Non esiste un soldato che sia intrepido in tutte le situazioni di combattimento. Non esiste una compagnia che stia sempre bene o possa resistere a qualsiasi urto: ce ne sono soltanto di più risolute rispetto ad altre, e meno facili a scompaginarsi di fronte a una sorpresa o a un’emergenza inaspettate. Il Maresciallo Sassonia scrisse in merito alla strana disavventura capitata a un reggimento francese che, dopo aver respinto il nemico, si pose al suo inseguimento. A un certo punto quell’unità dovette dividersi per superare un bosco. Quando le sue colonne ebbero aggirato i fianchi di questo, si videro l’un l’altra all’improvviso e si scambiarono reciprocamente per una nuova formazione nemica, il che non si aspettavano, scappando dal campo di battaglia più veloci che poterono.
La storia sembra originale solo perché appare nelle memorie di un grande soldato. In realtà, questi improvvisi sbalzi emotivi sono comuni ovunque ci siano uomini che combattono. Su una scala più limitata, un incidente del genere si ripete decine di volte in ogni giorno di battaglia.
Nel giugno del 1944, il tenente Woodrow W. Millsaps condusse una pattuglia dalla cima 30 giù verso la strada rialzata che porta a Chef du Pont. Si trattò di un’azione notturna nell’ambito delle operazioni lungo il fiume Merderet, in Normandia. Sebbene tutti i suoi uomini si fossero offerti volontari per la missione, al momento della partenza ognuno di loro si trovava in uno stato mentale di disperazione: per tre giorni il battaglione era stato circondato da forze nemiche, e all’interno del perimetro difensivo i soldati morivano a causa della mancanza di sangue per le trasfusioni e i feriti soffrivano in maniera più acuta per la carenza di acqua. Le loro grida di angoscia avevano demoralizzato così tanto i loro compagni, che Millsaps accolse con sollievo la possibilità di scendere dalla collina per un contrattacco.
Ai piedi dell’altura, una mitragliatrice nemica aprì il fuoco sulla pattuglia, ma le pallottole passarono alte. Gli uomini ruppero lo schieramento e “corsero via come cani”. Millsaps e un sergente li costrinsero a tornare indietro usando anche la forza fisica. Dopo che si furono nuovamente raggruppati, Millsaps perse quasi un’ora, alternativamente maltrattandoli e supplicandoli, prima di ottenere che andassero avanti.
Alla fine, i soldati attaccarono il nemico e lo impegnarono in una lotta corpo a corpo. Il massacro iniziò con bombe a mano, baionette e colpi di arma da fuoco. Alcuni componenti della pattuglia rimasero uccisi, altri feriti, ma in quel momento tutti agivano con sprezzo del pericolo. Una volta iniziata, la carneficina non poté essere fermata. Millsaps tentò di riprendere il controllo, ma i suoi uomini non gli prestarono attenzione. Dopo aver ucciso tutti i tedeschi che avevano sott’occhio, corsero nelle stalle delle fattorie francesi e macellarono tutti i suini, bovini e ovini che vi trovarono. L’orgia di sangue terminò soltanto quando anche l’ultima bestia giacque morta.
A quel punto, Millsaps cercò dei volontari per tenere la posizione conquistata e accompagnarlo oltre il fiume. Solo un uomo si fece avanti, e l’ufficiale iniziò a muoversi con quest’unico soldato, il quale però rimase presto indietro. Allora Millsaps gli chiese: “Qualcosa non va?” E lui rispose: “Non mi pare”. Quando il tenente gli sfilò la giacca da lancio, scoprì sei fori di proiettile nella parte alta del braccio e della spalla destri: fino a quel momento non si era accorto di essere ferito, e all’improvviso crollò a terra. Millsaps andò avanti da solo.
Quella descritta fu una vicenda particolarmente brutale. L’ho tratta dalla mia personale raccolta di documenti, nella quale singoli episodi di combattimento sono collocati nel quadro delle più ampie operazioni militari. Difficilmente lo descriverei come un esempio comune, ma in battaglia ci si imbatte spesso in fatti insoliti e l’anormale diventa normale.
La vicinanza della morte e la prospettiva di incontrarla nel momento successivo muovono gli uomini in molti modi curiosi e contrastanti. Numerosi sembrano cambiare carattere sotto il fuoco delle armi. La vita di sacrifici e pericoli dona ulteriore forza a quanti sono già forti di per sé, e ulteriore debolezza ai già deboli. L’ex fatalista può trasformarsi nel membro più superstizioso della compagnia, così come il sognatore diventare realista, colui che normalmente resta dietro posizionarsi davanti, l’arrogante mostrare compassione, il “comandante nato” perdere il suo entusiasmo. Tutti gli uomini che sono stati in combattimento hanno assistito a simili strane trasformazioni. “Il coraggio”, come disse il maggior generale John W. O’Daniel, “è una qualità innata, ma rimane in quantità sconosciuta fino al momento della verità.”
Se tutto quello che ho detto finora trasmette l’idea che tutti i soldati debbano essere addestrati a credere che il combattimento è una vita di incessanti fatiche e durezze, si tratta di un’impressione che devo correggere. Chi scrive della guerra come di un fatto romantico tende sempre a sottolineare la noia, la fastidiosa routine e l’attesa infinita che si ritiene caratterizzino almeno il 90 percento del periodo operativo. La moderna scuola dei corrispondenti di guerra sembra ritenere un suo dovere quello di far piangere il pubblico per il duro destino del soldato. I cosiddetti realisti della narrativa bellica, come Eric Maria Remarque(22), vedono a tinte fosche ogni azione del soldato in prima linea. Ma quale uomo normale negherebbe che alcuni dei giorni più intensi e belli della sua vita sono stati trascorsi al fronte, o che il cielo sembra sempre più blu o l’aria più corroborante quando si presenta un indizio di pericolo?
Molte cose che accadono sulla linea del fronte sono puro melodramma; alcune, la più divertente delle commedie. È una legge della fisica che accanto alla luce più viva si trovi l’ombra più densa: l’essere umano ama ridere soprattutto nel momento di sollievo dal terrore o dalle lacrime.
Sulla “Isola” lungo il fronte del fiume Neder, nei Paesi Bassi, nell’ottobre del 1944 un elevato numero di mucche e pecore fu colpito di notte da un bombardamento “nemico”, con il risultato di procurare carne fresca alle mense militari statunitensi. Una mattina visitai una certa batteria di artiglieria e trovai i membri della Batteria Abe di un umore particolarmente torvo. La notte precedente avevano tenuto d’occhio una vitella a poca distanza dalle loro buche e avevano deciso che sarebbe stata colpita da una granata “nemica”. Puntualmente arrivò l’esplosione, seguita da un ultimo muggito di sofferenza da parte dell’animale. Gli uomini della Batteria Abe corsero fuori nel buio per raccogliere le loro bistecche. “Ma quando arrivammo”, disse un sergente, “la Batteria Baker era già sul posto e sei di quei bastardi avevano tirato fuori i loro coltelli per scuoiare la bestia.”
Non ultimo tra le risorse belliche del soldato americano è il suo senso dell’umorismo che riesce a sopravvivere allo shock e alla tensione del combattimento e a far fermare una battaglia. Ho visto con i miei occhi accadere esattamente questo.
Nel terzo giorno degli scontri per Kwajalein, nel febbraio del 1944, un rastrellamento condotto dal 7° Battaglione del Genio scoprì l’ufficio cassa giapponese e ne fece saltare in aria l’ingresso. Il bottino fu di circa 300.000 yen. I genieri avvertirono il 32° Reggimento di Fanteria, le cui posizioni si trovavano circa 200 iarde [180 metri] più avanti, che era giorno di pagamento e che venissero a prendere il denaro. Il messaggio passò da squadra a squadra fino alla prima linea, dopodiché i fanti spostarono indietro le loro posizioni. Per un’ora fecero la fila davanti all’ufficio cassa. Con aria svogliata, un geniere fece firmare a ogni uomo una ricevuta per il contante giapponese ricevuto. Poi la fanteria tornò a combattere.
Come esempio di disciplina in zona di combattimento, questa storia forse sconcerterà chiunque sia convinto che la fermezza nell’offensiva sia il solo criterio da seguire per le truppe sul campo di battaglia. Ma fortunatamente, la 7a Divisione di Fanteria era guidata da ufficiali che sapevano apprezzare uno scherzo e che videro in questo episodio quel tocco di umanità che rende simili tutti gli uomini. Il colonnello che più tardi assunse il comando del reggimento commentò: “Quando le truppe riescono a fare una cosa simile, dimostrano le une alle altre che hanno sconfitto la paura”. Ciò che accadde quella stessa notte gli diede ragione. La posizione a Kwajalein era oltremodo estesa quando i genieri fecero la scoperta di cui sopra. Il buio calò tre ore più tardi, e il battaglione di fanteria che quel pomeriggio si era messo in coda per ricevere la “paga” stava bivaccando, con il nemico schierato di fronte, di fianco e sul retro. Gruppi di giapponesi si erano nascosti anche all’interno del suo perimetro difensivo. La posizione venne attaccata duramente per tutta la notte, ma il battaglione non cedette un metro di terreno.
Probabilmente, la maggiore differenza tra la disciplina in prima linea e quella nelle zone di retrovia può essere meglio riassunta in questo modo: quando arriva il momento della verità, la questione principale non è come svolgi la missione, ma se questa avrà successo. Il comandante la cui vittoria dipenda dalla forza della sua personalità impara presto che in combattimento nessuno regala niente. Le maniere e l’apparenza continuano a ispirare rispetto per l’individuo solamente se quest’ultimo è capace di portare la sua porzione di fardello. Il criterio di giudizio del comando è l’abilità di pensare chiaramente e di lavorare duro, non quella di assumere atteggiamenti o accettare rischi sproporzionati.
Il comandante di un piccolo reparto che si espone troppo al pericolo nella speranza di produrre effetti positivi sul morale dei suoi uomini finisce per logorarne i nervi, e il più delle volte riesce a farsi uccidere senza alcun vantaggio per l’Esercito. Le truppe si aspettano di vedere i propri ufficiali al lavoro e in movimento assieme a loro, mentre il morale si indebolisce se capiscono che essi sfuggono al pericolo. Ma a loro non interessa nemmeno vederli recitare la parte del coniglio meccanico, che saetta in avanti per provocare i segugi. In situazioni di estrema emergenza, quando la posta in gioco è alta e l’inazione di altri rende necessario intervenire, atti del genere sono giustificati. Ma il loro valore sta in gran parte nella novità. Un comandante non può compattare i suoi uomini con un intervento spettacolare se li ha abituati a vederlo correre rischi inutili in circostanze normali.
Sempre per quanto riguarda il comandante di un piccolo reparto, occorre cercare il vero significato del consiglio insistentemente dato dal maggior generale Stuart Heintzelman, dal maggior generale Frank A. Ross e da altri: “Anticipare gli avvenimenti rappresenta il 60 percento dell’arte del comando”. Infatti, se è molto facile dire “Anticipate!”, è molto difficile farlo in pratica. Ciò è particolarmente vero per l’ufficiale che sta per lanciare le sue truppe contro il nemico. Il profano immagina vagamente che il lavoro sia già concluso quando, dopo aver attentamente valutato il terreno, il comandante decide lungo quale direzione i suoi uomini debbano muoversi. Ma questa è soltanto la minore delle sue responsabilità.
Invece, in linea con i principi di sicurezza, mobilità e azione offensiva, che sono sempre strettamente legati alla tattica, il comandante deve decidere come costituire la propria riserva. Questa rappresenta sempre una base tattica per le operazioni, un fulcro per le decisioni, un prezioso strumento nelle sue mani. Durante l’offensiva, il suo valore principale non risiede nel fatto che costituisce un serbatoio di forza da utilizzare contro minacce impreviste, ma che senza di essa il comandante non possiede alcuna garanzia contro la stagnazione della propria azione. È spesso un’abitudine del comandante debole quella di impiegare la sua riserva il più rapidamente possibile e poi chiedere aiuto all’esterno, usando il fatto come prova che fino a quel momento ha fatto tutto il possibile. Al contrario, è abitudine del bravo comandante trattenere la riserva fino a quando non è chiaro oltre ogni dubbio che la forza d’assalto ha perso il suo slancio nel momento decisivo, per poi impiegarla sia come rimpiazzo, sia come rinforzo per dare nuovo vigore all’avanzata.
Tornando alla necessità di anticipare gli avvenimenti, la maggior parte del lavoro del comandante ruota attorno al supporto e alla pianificazione logistica. L’elenco che segue non è completo, ma fornisce un esempio di alcuni dei punti dei quali tener conto.
1) Stimare quali supporti di fuoco siano necessari.
2) Verificare che questi supporti vengano forniti.
3) ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. SOMMARIO
  5. Introduzione (di Russell W. Glenn)
  6. Nota dell’autore
  7. I. L’illusione della potenza
  8. II. Sulla guerra futura
  9. III. L’uomo sul campo di battaglia
  10. IV. Isolati in combattimento
  11. V. Il quoziente di fuoco
  12. VI. Il fuoco come soluzione
  13. VII. Moltiplicare l’informazione
  14. VIII. L’enigma del comando
  15. IX. Coesione tattica
  16. X. Perché gli uomini combattono
  17. XI. La volontà aggressiva
  18. XII. Uomini sotto il fuoco nemico
  19. XIII. Considerazioni finali