Un giorno – si era in giugno e già scendeva la
sera – ci fu annunziata la visita di Martino Petrovich.
Mia madre si meravigliò: da più di otto giorni
egli non si era fatto vedere, e fino allora non era mai venuto così
tardi a farci visita.
— Deve essere accaduta qualche cosa — disse mia
madre a mezza voce.
Infatti il volto di Carlof, il quale, appena
entrato, si lasciò cadere su di una sedia, aveva un'espressione
così strana, era così pallido e angosciato, che mia madre non potè
frenare un grido.
Martino Petrovich alzò lentamente i suoi
piccoli occhi e la guardò, rimase per alcuni istanti in silenzio,
sospirò profondamente, tacque di bel nuovo, e finalmente cominciò a
dire delle parole confuse: era venuto per una cosa… . una cosa…
.
E dopo aver borbottato altre parole sconnesse,
improvvisamente si alzò e se ne andò.
Mia madre suonò il campanello e ordinò a un
domestico di corrergli dietro e di ricondurlo a ogni costo; ma
Martino Petrovich aveva avuto il tempo di risalire nel suo
carrozzino e si era allontanato.
La mattina seguente mia madre, che era rimasta
preoccupata di quello strano contegno del nostro vicino e
dell'espressione del suo volto, stava per mandargli un messo,
quando lo vide entrare. Il gigante sembrava un po' più tranquillo
della sera precedente.
— Ebbene — disse mia madre appena lo vide, —
dimmi, che cosa avevi ieri sera? In verità ho pensato che tu avessi
perduto il bene della ragione!
— No, stimatissima signora, la ragione non l'ho
perduta — rispose Martino Petrovich, — ma devo parlarvi di una cosa
molto importante e domandarvi un consiglio.
— Sentiamo!
— Però, ho paura che voi… .
— Parla parla, via; non mi tenere in pena
inutilmente. Forse sei stato ripreso dalla tua solita
malinconia?
Carlof corrugò la fronte.
— No, non è stata la malinconia: quella mi
capita adesso soltanto al tempo della luna nuova. Però
permettetemi, stimatissima signora, di farvi una domanda: Che cosa
ne pensate della morte?
Mia madre trasalì spaventata.
— Di che? — domandò.
— Della morte. Credete che essa possa
risparmiar qualcuno in questo mondo?
— Oh, Martino Petrovich — rispose mia madre, —
a che ti tormenti con questi pensieri? Lo sai bene che nessuno
degli uomini è immortale; anche tu, con tutta la tua gigantesca
corporatura, un giorno dovrai morire.
— Sì, anch'io un giorno dovrò morire — disse
Carlof, chinando il capo.
E con voce lenta e cupa aggiunse:
— Ho avuto una visione notturna.
— Che dici?
— Una visione notturna — ripetè Carlof. — In
sogno io ho sempre delle visioni.
— Tu?
— Sì, io; non lo sapevate?
Sospirò profondamente, poi riprese:
— Ebbene, stimatissima signora, ascoltate: otto
giorni fa, la vigilia di San Pietro, dopo il desinare, mi ero
coricato per riposarmi alquanto e mi addormentai. Improvvisamente
vidi un puledro nero nero come uno scarafaggio che cominciò a
saltare e a digrignare i denti.
Carlof tacque un momento.
— E poi? — domandò mia madre.
— Poi, da un momento all'altro, il puledro mi
dà un calcio poderoso al gomito sinistro, proprio nel punto più
sensibile… . Mi svegliai e mi accorsi che non potevo muovere il
braccio sinistro e nemmeno la gamba sinistra. Pensai che fosse una
paralisi; ma un po' alla volta potei muovere così la gamba come il
braccio; solo che per molto tempo sentii, e sento ancora, un
formicolìo alle articolazioni. Ecco, appena apro la mano sento di
nuovo il formicolìo.
— Ma, Martino Petrovich, avrai dormito posando
col corpo sul braccio sinistro.
— No, stimatissima signora, non è questo: la
visione che io ho avuta e il formicolìo sono un annunzio della mia
morte.
— Oh, questa è bella! — lo interruppe mia
madre.
— Un annunzio, ripeto — disse Carlof. — Devo
tenermi pronto a morire; e perciò, stimatissima signora, sono
venuto per comunicarvi quanto segue. Siccome non voglio — proseguì
gridando, — siccome non voglio che la morte sorprenda impreparato
questo servo del Signore, così ho deciso di dividere, mentre sono
ancora vivo, le mie sostanze fra le mie figliuole Anna ed
Eulampia.
Martino Petrovich si fermò un momento, mandò un
sospiro e aggiunse:
— E intendo di farlo senza perdere un
momento.
— È una decisione ragionevole, capisco —
rispose mia madre: — però, mi pare che non ci sia alcuna ragione di
affrettarsi tanto.
— E poichè — riprese Martino Petrovich, alzando
ancor più il tono della voce, — e poichè intendo che la cosa venga
fatta in piena regola e nelle forme imposte dalla legge, e poichè
non ho il coraggio d'incomodar voi, stimatissima signora, prego il
vostro figliuolo Demetrio Semenovich, e nello stesso impongo al mio
parente Bickof come suo obbligo e suo dovere, di assistere alla
rogazione dell'atto legale e alla consegna dei miei beni alle mie
due figliuole, la coniugata Anna e la nubile Eulampia; la quale
cerimonia solenne si compirà dopodomani, alle ore dodici, nella mia
tenuta di Jeskovo, detta anche Kosulkino, alla presenza della
competente autorità, alla quale è stato già fatto il debito
invito.
Martino Petrovich stentò non poco a snocciolare
questa filastrocca, che evidentemente aveva imparata a memoria, e
nel recitarla mandò non pochi sospiri. Si sarebbe detto che gli
mancasse l'aria: il suo volto, dapprima pallido, un po' alla volta
era diventato pavonazzo, e ripetutamente egli si asciugò il sudore
che gli imperlava la fronte.
— E hai già redatto l'atto di donazione? —
domandò mia madre. — Hai trovato il tempo di farlo?
— Sì, stimatissima signora.
— E lo hai scritto tu stesso?
— Non tutto, mia benefattrice: mi ha aiutato
mio genero, Volodka.
— E hai presentato il documento alle
autorità?
— L'ho presentato, e il tribunale lo ha
legalizzato e il funzionario che deve procedere alla lettura
dell'atto ha già fissato la data per la cerimonia.
Mia madre sorrise.
— Vedo che hai sbrigato tutte le pratiche
necessarie, e molto presto. Non avrai risparmiato denaro,
m'immagino…
— Non ho risparmiato denaro, stimatissima
signora.
— Ebbene, per conto mio, che Demetrio assista
pure alla cerimonia; anzi, ti manderò anche Souvenir e dirò anche a
Kvicinski di recarsi dopodomani a Jeskovo. E Gavrilo Fedulich l'hai
invitato?
— Sì — rispose Carlof con una certa esitazione,
— anch'egli, come mio futuro genero, deve venire…
Evidentemente Martino Petrovich aveva esaurito
tutta la sua eloquenza; inoltre, mi era sembrato sempre che egli
non vedesse troppo di buon occhio l'uomo che mia madre aveva scelto
come marito per Eulampia: forse egli avrebbe voluto trovarle un
partito migliore.
Il gigante si alzò e fece, come potè, una
riverenza.
— Stimatissima signora — disse, — vi ringrazio
infinitamente.
— Ebbene, dove vai ora? — domandò mia madre. —
Aspetta, ti farò dare un po' di colazione.
— No, grazie — rispose Carlof: — non posso:
devo tornare a casa.
E movendosi di fianco, secondo la sua
abitudine, si avviò verso la porta.
— Aspetta un momento! — disse mia madre. —
Dunque tu dividi la tua sostanza fra le tue figlie senza riservarti
nulla?
— Naturalmente senza riservarmi nulla.
— E dove andrai ad abitare?
Carlo alzò le braccia stupefatto.
— Dove andrò ad abitare? Oh bella, in casa mia,
come ho fatto finora. In questo non c'è da fare nessun
cambiamento.
— Hai tanta fiducia nelle tue figliuole e in
tuo genero?
— Oh, quanto a quel pitocco di Volodka, ci
penso io a tenerlo a posto, e poi egli non ha alcun diritto a
immischiarsi in queste faccende. Quanto alle mie figliuole, devono
darmi da mangiare e da bere, devono vestirmi e calzarmi e darmi
alloggio finchè vivo: questo, stimatissima signora, è il loro
sacrosanto dovere! Del resto, non dovranno mantenermi a lungo: mi
sento già la morte dietro le spalle.
— Dio manda la morte secondo la sua santa
volontà — rispose mia madre; — e le tue figliuole hanno
indubbiamente il dovere di mantenerti; però, non te ne avere a
male, Martino Petrovich, però Anna è una donna molto fiera, tutti
lo sanno: Eulampia, poi… .
— Oh, Natalia Nicolaievna — interruppe Carlof,
— che dite mai! Le mie figliuole negarmi obbedienza? Via, nemmeno
per sogno! Volete che si mettano contro di me, contro il loro
padre? Ma… ma, è possibile? Esse che hanno passato tutta la vita
obbedendo e tremando davanti a me? E ora… così da un momento
all'altro… Oh, mio Dio!…
E fu preso da un assalto di tosse così forte,
che pareva fosse lì lì per soffocare.
— Bene, bene — disse mia madre per
calmarlo.
— Solo non capisco perchè tu voglia procedere
ora alla divisione dei beni; tanto, dopo la tua morte, tutto
sarebbe andato a loro. Io temo che la ragione di tutto ciò sia un
nuovo assalto di malinconia.
— No, stimatissima signora — rispose Carlof, —
non si tratta della mia solita malinconia: io obbedisco a una forza
superiore, e ho deciso di procedere alla divisione della sostanza
perchè voglio stabilire io stesso che cosa tocchi a ciascuna delle
due, affinchè, dopo aver ricevuto questo beneficio, esse me ne
siano grate… e rispettino la mia volontà…
La voce di Martino Petrovich si fece di nuovo
esitante.
— Basta, basta! — si affrettò a dire mia madre:
— non vorrei che tornasse a mostrarsi il puledro nero!
— Non me ne parlate, Natalia Nicolaievna —
disse Carlof, — non me ne parlate: vi assicuro che era la morte.
Ora, addio; e voi, signorino, ricordatevi che vi aspetto
dopodomani.
Mentre Carlof si allontanava, mia madre gli
guardava dietro scuotendo la testa.
— Ciò non mi promette nulla di buono — mormorò,
— nulla di buono.
Poi, volgendosi a me, soggiunse:
— Hai notato che, mentre parlava, batteva le
palpebre come uno che venga colpito in pieno viso dai raggi del
sole? Brutto segno: chi fa così è minacciato da qualche sventura.
Dopodomani andrai a Jeskovo con Kvicinski e con Souvenir.