Terre vergini
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Terre vergini

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"Terra vergine" e l'ultimo romanzo dello scrittore russo Ivan Turgenev, pubblicato nel 1877. Narra il fallimento dei giovani populisti del movimento dell'andata al popolo del 1874.

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Informazioni

Editore
Booklassic
ISBN
9789635264346

Terre vergini

Convien dissodare la terra vergine non già con aratro che ne sfiori la superficie, ma col vomero che affonda e squarcia.
(Giornale d'un agronomo)

I.

Era la primavera dell'anno 1868 e batteva appena il mezzogiorno.
Nella via degli Ufficiali, a Pietroburgo, arrampicavasi su per una buia e sudicia scaletta d'una casa a cinque piani un uomo sui ventisette anni, sciattato e povero in arnese. Con uno strofinìo pesante delle ciabatte, dondolando sfiaccolato il corpo massiccio e goffo, arrivò questo uomo finalmente in cima alla scaletta, si fermò davanti a una porta sgangherata e socchiusa, e senza darsi il fastidio di suonare il campanello, andò oltre, sbuffando come un mantice, e si trovò in una piccola e scura anticamera.
— È in casa Nejdanow? — gridò con voce alta e baritonale.
— No, ci sono io invece, — suonò dalla camera contigua una voce femminile, non però meno burbera.
— Chi? Masciùrina? — domandò il nuovo venuto.
— In petto e in persona. E voi chi siete? forse Ostrodumow?
— Pimen Ostrodumow, — rispose l'altro, mentre si andava cavando le caloscie. Poi, sospesa ad un chiodo la vecchia mantellina che aveva indosso, entrò nella camera donde la voce femminile era venuta.
Era una camera bassa, sudicia, dalle pareti tinte di verdognolo, rischiarata a mala pena da due finestrette polverose. Per tutta mobilia, non c'era che un lettuccio di ferro in un cantuccio, una tavola nel mezzo, poche seggiole spaiate e una scansia carica di libri.
Sedeva accanto alla tavola una donna sulla trentina, dai capelli arruffati, vestita di lana nera. Fumava tranquillamente una sigaretta.
Vedendo entrare Ostrodumow, non aprì bocca, contentandosi di porgergli una mano grossolana e rossa. Quegli, anche in silenzio, la strinse. Poi, lasciatosi cadere sopra una seggiola, cavò di tasca un mezzo sigaro, e lo accese al fuoco che Masciùrina gli offriva.
Nè una parola, nè uno sguardo. L'uno e l'altra si dettero a spingere nugoli di fumo azzurriccio nell'aria grigia e già abbastanza affumicata della camera.
Benchè al viso non si somigliassero, aveano i due fumatori non so che di comune. Figure ruvide e sciamannate; grosse labbra, grossi denti, grossi nasi: Ostrodumow, per giunta, era butterato: l'una e l'altro però portavano una loro impronta di onestà, di laboriosità, di proposito.
— Avete visto Nejdanow? — domandò finalmente Ostrodumow.
— Sì. Tra poco sarà qui. È andato alla libreria a portare i libri.
Ostrodumow sputò in là prima di riattaccare il dialogo.
— O che gli piglia ora che non istà fermo un momento? Non c'è verso di coglierlo, mai!
Masciùrina cavò un'altra sigaretta e l'accese al mozzicone della prima.
— Si secca, — disse poi.
— Si secca! — ripetette Ostrodumow in tono di rimprovero. — Questa sì ch'è bella! Tutta la baracca addosso a noi, tutti per noi i sopraccapi, e Dio voglia che si fili diritto, e il signorino si secca!
— È arrivata la lettera da Mosca? — domandò Masciùrina dopo un momento di silenzio.
— Sì, avant'ieri.
— E l'avete letta?
Ostrodumow accennò di sì col capo.
— Ebbene? che dice?
— Che dice?… Tra breve, capite, bisognerà partire.
Masciùrina si tolse la sigaretta dalle labbra.
— E perchè poi? Laggiù, sento dire, va tutto d'incanto.
— Per andare, va… .. soltanto, c'è un certo figuro che ciurla un po' nel manico. Bisognerà sostituirlo, mutargli destinazione, o anche allontanarlo a dirittura. E poi c'è anche dell'altro. Anche voi chiamano.
— Me?… nella lettera?
— Sì, nella lettera.
Masciùrina scrollò i folti capelli, che le cadevano in cerfugli disordinati sulla fronte e sulle ciglia, raccolti in groppo dietro la nuca.
— E sia! — brontolò. — Se c'è l'ordine, si sa che bisogna obbedire.
— Naturalmente. Ma senza i denari non se ne fa nulla: e dove pigliarli questi denari maledetti?
Masciùrina stette alquanto pensosa.
— Nejdanow li ha da trovare, — disse poi a mezza voce, quasi parlando a sè stessa.
— E gli è proprio per questo che son venuto, — notò Ostrodumow.
— Avete con voi la lettera? — domandò di botto Masciùrina.
— Si sa. Volete leggere?
— Date qua… Anzi no, non serve. La si leggerà insieme, poi.
— Vi ho detto la verità precisa, — borbottò Ostrodumow; — non dubitate.
— E chi è che dubita?…
Si rifece il silenzio. I globi azzurrognoli del fumo seguitarono a sollevarsi in nube su quelle due teste capellute. Suonò nell'anticamera un calpestìo.
— Eccolo! — esclamò Masciùrina.
L'uscio fu spinto con precauzione, e una testa nera si sporse dalla semiapertura.
Non era però quella di Nejdanow.
Era invece una testa piccina, nera, irsuta. Sotto una fronte rugosa e due folte sopracciglia luccicavano due occhietti bigi e vivacissimi. Un naso rincagnato, quasi impertinente, aggiungeva espressione alla bocca rosea e beffarda. Quella testa si volse curiosa in qua e in là, sorrise, mise in mostra due file di dentini bianchissimi, ed entrò nella camera insieme col suo busto scriato, con due braccini da fantoccio e con due gambette un po' torte.
Una specie di disprezzo pietoso si dipinse in viso a Masciùrina e Ostrodumow. “Ah, costui!” parve che esclamassero internamente.
Nè una parola, nè un gesto. Se non che, la singolare accoglienza non turbò niente affatto il nuovo arrivato, anzi, a vedere, gli procurò una certa soddisfazione.
— Che vuol dir ciò? — diss'egli con voce stridula. — Un duetto, eh? E perchè non un terzetto?… Ma dov'è il tenore di grazia?
— Domandate forse di Nejdanow, signor Paclin? — venne su in tono serio Ostrodumow.
— Per l'appunto, egregio signor Ostrodumow: di lui.
— Arriverà tra poco forse, signor Paclin.
— Ecco una notizia consolante, egregio signor Ostrodumow.
L'omiciattolo dalle gambe torte si volse a Masciùrina, che se ne stava accigliata e tutta assorta a fumare la sua sigaretta.
— Come state, gentilissima… gentilissima… Che rabbia, non c'è caso che mi venga in mente il vostro nome!
Masciùrina scrollò le spalle.
— Non serve che ve ne ricordiate! Sapete chi sono, e basta. Che vuol dir poi: come state?… O non vedete forse che son viva?
— Giustissimo, perfettamente giusto! — esclamò Paclin stringendo le sopracciglia e allargando le narici. — Se non foste viva, il vostro umilissimo servo non avrebbe ora il piacere di vedervi qui e di chiacchierar con voi… Attribuite la mia domanda alla cattiva e antiquata abitudine. In quanto al nome però, convenite che fa così brutto il darvi senz'altro del Masciùrina… So bene che voi firmate le lettere, come il gran Bonaparte: Masciùrina, basta così! Ma discorrendo, capite…
— O chi vi prega di discorrer con me?
Paclin ebbe un risolino nervoso e parve masticare un boccone acre.
— Orsù, smettiamola, carina. Qua la mano, e non andate in collera! Vi conosco oramai per una donna eccellente… e nemmeno io sono un furfante… Da brava! una stretta di mano, e abbasso il malumore!
Stendeva, così dicendo, la mano. Masciùrina lo guardò di sbieco, ma non ebbe coraggio di opporre una ripulsa.
— Se vi è proprio indispensabile di saper come mi chiamo — disse poi, sempre di mala grazia, — sappiatelo pure: mi chiamo Tecla.
— Ed io, Pimen, — soggiunse Ostrodumow con la sua voce da baritono.
— Ah! benissimo! mille volte obbligato! Ma, in tal caso, ditemi, o Tecla, ditemi anche voi, o Pimen, perchè diancine tutti e due mi trattate costantemente con una così discutibile amorevolezza, mentre io invece… .
— Masciùrina trova, — interruppe Ostrodumow, — e non è mica sola a fare questa osservazione, trova che non si può fare assegnamento sopra un uomo che guarda tutte le cose dal lato comico.
Paclin fece una giravolta sui talloni.
— Eccolo! — esclamò. — Ecco il granchio che pigliano sempre coloro che mi giudicano, rispettabile Pimen! In primo luogo: non è vero ch'io rida sempre. In secondo: la cosa non fa male a nessuno. In terzo: si può benissimo contare su di me, come è dimostrato dalla lusinghiera fiducia di cui più d'una volta ho goduto nelle stesse vostre file! Io sono un uomo onesto, rispettabile Pimen!
Ostrodumow bofonchiò qualche cosa fra i denti, e Paclin, crollando il capo, ripetette, senza ombra di sorriso questa volta:
— No!… non rido sempre io! Non son mica un uomo allegro io! Guardatemi, non vi dico altro.
Ostrodumow alzò gli occhi. Infatti, quando non atteggiava le labbra al sorriso, quando taceva, Paclin assumeva un'espressione triste, quasi spaurita. Gli bastava però aprir la bocca, perchè il viso gli diventasse comico e perfino maligno… . Ostrodumow non disse nulla.
Paclin si volse di nuovo a Masciùrina.
— E lo studio come va?… sentiamo! Fate progressi nella vostra veramente filantropica professione?… Deve essere un affar serio, parola d'onore, aiutare l'inesperto cittadino nella sua prima entrata in questo basso mondo.
— Nessuna fatica, basta che il cittadino in questione sia un po' più grande di voi, — ribattè Masciùrina, che testè avea passati gli esami di levatrice.
Un anno e mezzo avanti, abbandonata la civile e non agiata sua famiglia nella Russia meridionale, Masciùrina se n'era venuta a Pietroburgo con soli sei rubli d'argento in saccoccia. Ammessa ad una scuola di ostetricia ne avea seguiti i corsi, ed era riuscita alla fine a guadagnarsi l'ambito diploma. Era ragazza, ed anche molto pudica. Niente di strano! dirà forse qualche scettico, ricordando quel che s'è detto della figura di lei poco avvenente. Strano invece e anche raro! ci permettiamo di dir noi.
Alla pungente risposta Paclin diè in una risata.
— Brava! — esclamò. — Me la son meritata! Perchè son rimasto quel nano che sono?… Ma insomma, si può sapere dove s'è sprofondato il padron di casa?
Non senza un perchè mutava discorso. Per quanto facesse, non si dava pace di essere così minuscolo e così brutto. Tanto più la cosa gli coceva, in quanto che nudriva per le donne in genere una passione furiosa. Che cosa non avrebbe sacrificato per dar loro nel genio! La coscienza del miserevole aspetto molto più lo mortificava che non la bassa estrazione e la insignificante posizione sociale. Il padre, semplice borghese, s'era tirato su con tutte le male arti fino al grado di consiglier titolare, brigando, ingarbugliandosi in liti, maneggiandosi da affarista. A furia di amministrare per conto altrui case e poderi, era riuscito per conto proprio a mettere insieme una piccola sostanza; se non che, datosi al bere, se l'avea tutta ingollata. Il giovane Paclin, conosciuto anche sotto il nomignolo derisorio di Sansone, era stato educato in una scuola di commercio, dove aveva imparato il tedesco a perfezione. Dopo varie vicende più che fortunose, s'era acconciato finalmente in una casa privata di affari con 1500 rubli di onorario annuo. Questa somma gli serviva, alla meno peggio, al sostentamento proprio, di una zia inferma e della sorella gobba.
Poco meno che trentenne, avea fatto intima conoscenza con molti e molti studenti, giovanotti focosi, cui dava nel genio quella sua cinica improntitudine, quella sicurezza di sarcasmo, quella coltura superficiale e senza pedanteria. Tratto tratto però gli toccava d'ingoiar qualche pillola un po' ostica. Una volta, per un motivo o per l'altro, era arrivato in ritardo ad una riunione politica. A prima entrata, prese a profondersi in iscuse… . “Ha avuto paura il povero Paclin!” insinuò qualcuno dei convenuti; e tutti a sgangherarsi dalle risa. Paclin, facendosi animo, si unì al coro giocondo, benchè il cuore gli dolesse dentro “L'ha imbroccata il furfante!” pensò con dispetto.
Avea conosciuto Nejdanow in una osteria greca, dove andava a desinare, e dove a momenti non si peritava di esprimere opinioni molto libere e taglienti. Asseriva che le inclinazioni democratiche le doveva soprattutto alla detestabile cucina greca, che gli rovinava e gl'irritava il fegato.
— Sì… . dicevo… . dove diancine s'è cacciato il padron di casa? — ripetette Paclin. — Da un pezzo in qua, se non mi sbaglio, l'amico è fuor di chiave. O che sia innamorato. Dio liberi!
Masciùrina aggrottò la fronte.
— È andato a cercare non so che libri… . Ha altro pel capo che innamorarsi; e di chi poi?…
Poco mancò che Paclin non ribattesse: — E voi? — Si contenne però e disse forte:
— Mi preme vederlo, perchè ho da parlargli di un affar grave.
— Che affare? — venne su Ostrodumow. — Il nostro forse?
— Potrebbe anche darsi che si tratti di affari vostri… . cioè nostri, di tutti noi, se non vi dispiace.
Ostrodumow tossì in tono equivoco.
— Vè' il furbo come s'insinua! — pensò.
— Ah! finalmente, eccolo che viene! — esclamò ad un tratto Masciùrina.
Negli occhi piccini e non belli, fissi all'uscio dell'anticamera, si accese un momento come una scintilla di tenerezza, quasi riflesso fuggevole d'un bagliore dell'anima… .
La porta si aprì, e questa volta l'aspettazione non fu delusa.
Col berretto in capo, con un fascio di libri sotto il braccio, entrò un giovane sui ventitrè anni, Nejdanow in persona.

II.

Alla vista dei congregati in camera sua, si fermò sulla soglia, girò gli occhi intorno, gettò libri e berretto, e senza aprir bocca si accostò al letto e si pose a sedere sulla sponda.
Il bel suo viso pallido, che pareva ancor più pallido pel color fosco dei folti capelli rossigni, esprimeva il malumore e lo sconforto.
Masciùrina si volse un po' in là, mordendosi le labbra. Ostrodumow borbottò:
— Alla fine!
Paclin fu il primo ad avvicinarsi a Nejdanow.
— Che hai, amico del cuore?… che ti piglia, o russo Amleto? Qualcun...

Indice dei contenuti

  1. Titolo
  2. Prefazione del traduttore.
  3. Terre vergini
  4. Note a pie' di pagina