Era una giornata freddissima del mese di febbraio, e nella città di P… , nel Kentucky ad ora già avanzata due gentlemen, seduti col bicchiere in mano in una ricca sala da pranzo, liberi dall’incomoda presenza dei servi, discorrevano con molto calore sopra un argomento di alta importanza.
Abbiamo detto due gentlemen, ma per modo di dire; perché uno di essi, attentamente osservato, a tutto rigore non appariva tale.
Era bassotto e atticciato, aveva lineamenti comuni e grossolani; il suo fare pretenzioso e superbo mostrava l’uomo plebeo che agogna di uscire dalla sua sfera.
Il panciotto vistoso, a vari colori, la cravatta turchina a pallini gialli, sbollante e svolazzante, corrispondevano in modo perfetto alla sua arroganza. Aveva le mani larghe e ruvide, piene di anelli. Portava sopra il panciotto una grossa catena d’oro con un fascio di ciondoli d’ogni colore e di grandi dimensioni, che, nel calore del discorso, era solito agitare con evidente soddisfazione.
Parlava un inglese libero dalle pastoie grammaticali, ed il suo discorso era di quando in quando condito di espressioni tali, che, con tutto il nostro desiderio di essere esatti, non avremmo il coraggio di trascrivere.
Il suo compagno, il signor Shelby, aveva invece i modi di un uomo ben educato, e l’ordine e le suppellettili della casa indicavano l’agiatezza, ed anche l’opulenza. Come abbiamo detto, i due interlocutori discorrevano di cosa d’alta importanza.
— Definirei l’affare a questo modo, — disse Shelby.
— Non posso accettare le vostre proposte; no, non posso proprio! — disse l’altro, guardando il bicchiere pieno che teneva alzato tra gli occhi suoi e la candela.
— Perché no, Haley? Tom supera in pregi ogni altro schiavo, né vi è somma che possa pagarlo; è fedele, onesto, pieno d’abilità; egli governa la mia fattoria come un orologio.
— Onesto come può esserlo un negro! — rispose Haley versandosi un bicchiere d’acquavite.
— Oh, no! V’assicuro che Tom è un servo buono, amorevole e religioso. Egli si fece cristiano quattro anni or sono, allorché passò di qui l’ultimo predicatore, ed io credo che lo diventasse davvero. D’allora in poi gli affidai tutto ciò che possiedo: denaro, casa, cavalli; gli concessi di percorrere il paese, e l’ho trovato sempre fedele e puntuale in ogni cosa.
— Molte persone non sanno persuadersi che i negri possano aver religione — disse Haley, levando la mano con un certo gesto di sincerità — per me, non son di questo parere. Io avevo uno schiavo, comprato l’anno scorso alla Nuova Orléans, tutto religione, e di una dolcezza veramente angelica. Lo comprai in un momento in cui il suo padrone si trovava nella necessità di venderlo, e ne ho ricavato seicento dollari di guadagno. In verità io considero la religione, quando essa è pura e senza miscuglio, come cosa eccellente in un negro.
— Tom — riprese Shelby — è appunto quale voi dite. L’autunno scorso, mandandolo solo a Cincinnati per dar sesto ad alcune mie faccende e riportarmi cinquecento dollari, gli dissi:
«— Tom, io mi fido di voi perché siete cristiano ed incapace d’ingannarmi: ho la certezza che tornerete. Andate pure! —
«Avendolo alcuni mariuoli consigliato di fuggirsene al Canada, egli rispose loro:
«— Il mio padrone s’è fidato di me: io non posso fuggire. —
«Il separarmi da Tom, — seguitò Shelby — lo confesso, mi riesce grave. Se siete un uomo di coscienza, accetterete la mia proposta e lo prenderete in cambio di tutto il mio debito.
— Io ho la coscienza di quanti fanno il commercio: cioè quella poca che basta per prestar giuramento! — disse il trafficante con aria beffarda. — E tuttavia sono pronto a fare quanto mi sia ragionevolmente possibile per compiacere gli amici. Ma voi sapete che gli affari sugli schiavi vanno male, malissimo in quest’anno. —
Mandò un sospiro, e si versò dell’acquavite.
— Quanto volete darmene? — disse Shelby, dopo un penoso silenzio.
— Non avete un garzoncello o una fanciullina da aggiungere a Tom?
— Nessuno da cui io voglia separarmi! Non posso fare a meno d’un solo della mia gente. Per dire il vero, è la necessità che mi costringe a vendere. —
In quell’istante l’uscio si aprì, e un piccolo meticcio di quattro o cinque anni entrò nella sala.
Il suo viso era bello e grazioso: capelli neri, fini come la seta, scendevano in abbondanti ciocche sul suo collo; guance con le fossette, due grandi occhi neri pieni di vivacità e di dolcezza che scintillavano sotto a lunghe e belle ciglia e guardavano da curiosi nella stanza. Un vestitino scozzese rosso e giallo, ben tagliato e pulitissimo, faceva spiccare viepiù la sua bruna bellezza. Un’espressione di franchezza comica, temperata da modestia, denotava come egli fosse solito ad essere accarezzato e vezzeggiato dal suo padrone. Shelby prese un po’ d’uva e la lanciò verso lui.
— Piglia, Enrico, piglia! — gli disse.
Il fanciullo si slanciò con quanta forza aveva, e questo fece ridere il suo padrone.
— Vieni qua. —
Egli si accostò al padrone, che gli pose la mano fra i capelli e gli diè una lisciatina sulla guancia.
— Enrico, fai vedere a questo signore come sai cantare e ballare. —
Subito il fanciulletto intonò con voce chiara e sonora uno di quei canti selvaggi e grotteschi usati fra i negri; nel tempo stesso faceva con le braccia, con le mani, con tutto il corpo varie mosse comiche, ma in accordo perfetto con la musica.
— Bravo! — esclamò Haley porgendogli uno spicchio di arancia.
— Enrico, — disse Shelby — cammina al modo del vecchio zio Cudgioe quando ha i dolori reumatici. —
Subito le pieghevoli sue membra si atteggiarono alla deformità e allo storcimento.
Curvato il dorso, col bastone di Shelby in mano, col volto contraffatto, si diè a camminare intorno alla sala sputacchiando a destra e a sinistra come un vecchio.
I due spettatori si sbellicavano dalle risa.
— Enrico, mostraci come il vecchio Elder Robbins canta il salmo in chiesa. —
Il fanciullo allungò in modo strano il suo viso paffuto, e canticchiò in tono nasale un salmo con imperturbabile gravita.
— Bravo! — gridò Haley. — Questo bimbo fa per me. Aggiungete questo fanciullo, — disse battendo con la mano sulla spalla di Shelby — e la faccenda è conclusa. —
In quel momento l’uscio, sospinto pian piano, si aprì, ed una meticcia di venticinque anni circa entrò nella sala.
Un solo sguardo gettato sul fanciullo e poi su lei, bastava per far conoscere ch’ella era sua madre.
Aveva gli stessi occhi neri, nascosti sotto lunghe ciglia. Il color bruno della sua carnagione lasciò trapelare un lieve rossore sulle guance quando si accorse che quello straniero la fissava con uno sguardo di audace cupidigia e ammirazione non dissimulate. Gli abiti di lei erano della massima nettezza, e adattati in guisa da fare spiccare le sue bellissime forme.
La mano piccolissima e il piede ben tornito, la nocca delicata, erano cose che non potevano sfuggire allo sguardo pronto di un mercante avvezzo a riconoscere, di un sol colpo d’occhio, i pregi e i difetti d’un capo di merce femminino.
— Ebbene, Elisa?
— Cerco Enrichetto. —
Tosto il fanciullo saltellò verso lei, mostrandole l’uva che aveva raccolta nel lembo del suo vestitino.
— Conducetelo altrove, — disse Shelby.
Ella se ne andò subito, recandoselo in braccio.
— Per la barba di Giove, — esclamò il mercante preso d’ammirazione — ecco un bel capo di merce! Quando vi piaccia, potrete far la vostra fortuna ad Orléans. Io ne ho in vita mia comprate delle migliaia, ma non ne ho mai veduta una sì bella!
— Non voglio fare con essa la mia fortuna, — disse Shelby in tono asciutto.
Poi, per cambiar discorso, sturò un’altra bottiglia e domandò al trafficante che pensasse di quel vino.
— Eccellente! Di prima qualità! Suvvia, quanto volete vendere quella donna? Quanto ve ne ho da offrire?
— Signor Haley, essa non è da vendere; mia moglie non la darebbe per tant’oro quanto pesa.
— Oibò...