Alcyone
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Alcyone

Gabriele d'Annunzio, Annamaria Andreoli, Niva Lorenzini

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Gabriele d'Annunzio, Annamaria Andreoli, Niva Lorenzini

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Notizia sul testo, Note di commento e Cronologia della vita di Gabriele d'Annunzio a cura di Annamaria Andreoli. Nell'ebook si ripropone il testo di Alcyone raccolto nei Versi d'amore e di gloria, edizione diretta da Luciano Anceschi, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, vol. II, "I Meridiani", Mondadori, Milano 1982. Gli apparati riproducono quelli pubblicati nell'edizione dei "Meridiani". La Cronologia riproduce quella pubblicata nel primo tomo delle Prose di ricerca (a cura di Annamaria Andreoli e Giorgio Zanetti, "I Meridiani", Mondadori, Milano 2005). Alcyone, terzo libro delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi è unanimemente considerato il capolavoro del d'Annunzio poeta, è il diario lirico di una stagione estiva vissuta tra le colline di Fiesole, le Apuane e le spiagge della Versilia e, nel contempo, la storia di un impossibile sogno di totale divinizzazione dell'uomo attraverso i sensi e il mito. In questi versi d'Annunzio trasfigura e traduce musicalmente sensazioni, impressioni e immagini, scardinando il lessico, la sintassi e il metro tradizionali per conseguire il massimo della suggestione e dell'estasi panico-naturalistica. Perfetta sintesi di immediatezza lirica e di elaborazione tecnica, di "natura" e di "arte", gli ottantotto componimenti di Alcyone rappresentano il momento più felice della creatività dannunziana e segnano il punto di partenza di tutte le esperienze poetiche novecentesche.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2013
ISBN
9788852034954
Subtopic
Poetry

NOTIZIA SUL TESTO
E NOTE DI COMMENTO

a cura di Annamaria Andreoli

1 NOTIZIA SUL TESTO
Taccuini a parte, dov’è dato di sorprendere fin dal ’95 qualche lacerto alcionio («Le cicale mescolano il loro canto al mormorio fresco dell’acqua», «Il pino [...] dà un suono melodioso, come uno strumento», T III, 55 e 57), è senza dubbio nella lettera a Hérelle del 16 gennaio 1896 il primo segno, consapevolmente comunicato, della disposizione poetica dalla quale dovevano nascere le Laudi. «Da qualche settimana sboccano nella mia anima fiumi di poesia» scrive il poeta da Pisa, riadattandosi una topica, invertito per ora, ma solo per ora, il dantismo del largo fiume che si spande, immancabile poi ogniqualvolta gli occorrerà di riferirsi ad Alcyone.
Spetterà all’eroe del Fuoco, storia esorcistica di una vocazione, di rivelare, fra uno scongiuro e l’altro («Ah se non sarò sopraffatto dalla mia stessa abondanza»), le ragioni speculari del traslato («si udrà a traverso tutta la mia opera [...] la melodia dell’acqua [...] L’ho trovata!»), con la stessa euforia vittoriosa che accompagna l’annuncio alcionio. «Io sono [...] converso in innumerevoli ruscelli di poesia», «mi pare che tutto il mio sangue sia divenuto un fiume lirico inesauribile»: nell’estate del 1902, mirabilmente prolifica quando la fisionomia del canzoniere va precisandosi assumendo i connotati del diario lirico, la consueta immagine strumenta un’eccitata metamorfosi. L’immagine, consueta davvero, era infatti già comparsa all’albore delle Laudi, nel luglio ’99: «i versi nascono spontanei dalla mia anima come le schiume dalle onde», e poco dopo, nell’agosto: «mi abbandonai al fiume di poesia cui avevo resistito per tanto tempo». La metafora equorea si celebrava del resto all’insegna di Glauco («Io veramente [...] mi sono trasfuso nel mito di Glauco»), uno dei grandi patroni delle arcane trasfigurazioni del canzoniere, composto appunto «imitando acque» sempre più impetuose: «sento scorrere dentro di me torrenti di poesia» (dicembre 1900).
Sulla traccia sicura, segnata da un’occorrenza tanto puntuale, torniamo dunque pure al ’96, ai giorni del gennaio durante i quali il fiume di poesia comincia a scorrere se non ancora a spandersi: d’Annunzio è con la Duse a Pisa, a San Rossore, al Gombo. L’escursione sarà senz’altro fatale, foriera, intanto, della Capponcina, stando all’esclamativo, giusto all’esordio della lettera appena menzionata: «Non riesco a liberarmi dall’incantesimo toscano!», se non forse di una prima movenza laudistica, provocata ora dalla suggestiva iscrizione del portale pisano: «Illaesus! [...] benedetta sia la Natura» aggiunge a commento «poiché mi concede di ripetere questa parola, quando sto al sole, con i piedi nell’erba, con gli occhi fissi su una cosa di bellezza». E si fa udire qui la voce di quello stesso Keats (a thing of beauty is a joy for ever) chiamato poi a dialogare con il Dèspota nella battute inaugurali della TREGUA: O magnanimo Dèspota, concedi [...] ch’ei senta l’erba sotto i nudi piedi [...] ei sarà giovine ancóra! (I shall be young again), com’era già nell’epigrafe di Canto novo e come compariva, a riprova dell’origine simultanea delle Laudi, nel primitivo abbozzo di LAVS VITAE (cfr. la Notizia sul testo a Maia).
Conviene pertanto non eludere la sottile agnizione dannunziana. Se illaesus è cifra che ben si addice allo stato di grazia, alla felicità edenica suggeriti da certa poesia di Alcyone, il benedetta sia la Natura, che segue, sembra segnare un limite preciso all’abbandono lirico, additando subito l’intraprendenza rituale dell’eletto scriba. Era questa – si ricorderà – l’opinione di Solmi, allorché negava l’esistenza del d’Annunzio «passivo» ritagliato dai cultori della lirica pura e insisteva invece sulla prodigiosa virtù mimetica del poeta, avvertibile meglio che altrove proprio nella lauda, «esplicazione volontaria» come la definiva «operante sulla passività dell’impressione, inserzione dell’io nel puro abbandono poetico» (p. 184).
Non parrà allora casuale che il primo indizio di una procedura così implicata con il destino della poesia dannunziana, la benedizione, appunto, della natura, faccia da preludio a una sequenza proprio alcionia: «Vado a San Rossore» scrive sempre a Hérelle nella stessa lettera «nei boschi, a contemplare le file dei cammelli carichi di frasca; e poi al Gombo su la riva del Tirreno sparsa di alghe morte, dove erra lo spirito giovanile di Percy Shelley». Due giorni dopo, d’Annunzio scriverà di nuovo a Hérelle confidandogli di sentirsi «gravido più che mai: onustior; e con una gran voglia di lavorare».
L’accensione lirica, al colmo del trasognato vagabondaggio sul litorale pisano, doveva attendere tuttavia più di un lustro prima di risolversi nella pagina di Alcyone: IL GOMBO, ANNIVERSARIO ORFICO, I CAMELLI (agosto 1902) sono infatti ancora di là da venire. Per il momento, solo i taccuini s’incaricano di conservare, come d’uso, quella che è sì, certo, l’immediatezza delle impressioni, ma insieme anche la riscrittura dei luoghi shelleyani ai quali non poco deve la vicenda alcionia. Ecco una nota del 15 gennaio 1896: «La pineta del Gombo. Tutta la spiaggia arenosa è sparsa di alghe morte, dalle radici contorte e nodose. Il mare grigio rumoreggia. Una solitudine immensa, quasi terrificante [...] E il cadavere di Percy Shelley approda, d’improvviso, sotto i miei occhi stupefatti». E dopo avere osservato il moto «tardo e grave dei camelli», d’Annunzio si sofferma sul paesaggio pisano: «la campagna è verde e piana, solcata di solchi acquosi, dove si mira il cielo» (T VI, 81-82). A monte, fra l’altro, di LUNGO L’AFFRICO, l’appunto è memore di The cloud e di The recollection che facevano di uno stagno strip of the sky o a little sky / gulfed in a world below. La poesia di Shelley, già vicinissima alle fantasmagorie di Andrea Sperelli, presta ora al d’Annunzio il registro percettivo, media l’osservazione del paesaggio che il taccuino tesaurizza.
Non sempre facile motivare con certezza il rinvio della composizione delle Laudi, di cui intanto è surrogato il rifacimento di Canto novo. Le OFFERTE VOTIVE, che risalgono proprio ai primi mesi del ’96, sembrano soddisfare l’esigenza di un canto «grecamente composto» («di un libro sovrabbondante, diseguale, contraddittorio ho fatto un libro quasi grecamente composto») e quel «bisogno di essere altrove» da cui nascono – come s’è visto – le prime prove di LAVS VITAE; senza contare poi il frammento di Persefone, inserto lirico destinato al Fuoco, già scritto, si direbbe, nell’estate. Per l’occasione d’Annunzio avverte Emilio Treves di essere «ritornato al Verso con abitudini nuove», mentre si lascia sfuggire un Laus Deae! sin troppo indiziato (31 agosto 1896). Portavoce dell’editore, l’«Illustrazione Italiana» dà notizia precisa di questo ritorno alla fine d’ottobre, annunciando come prossimi alla pubblicazione ben tre misteri: Persefone, Adone e Orfeo. La reticenza dei titoli, che resteranno per sempre tali, non cela comunque l’interesse per il mito demetriaco e orfico – la sostanza eleusina di Alcyone – quando poesia e tragedia si confondono nei progetti di un d’Annunzio oramai rivolto a quella classicità misterica di cui s’erano fatti portavoce, oltre che Nietzsche, Pater e Schuré.
I Sonnets cisalpins, composti alla fine dell’anno e per i quali non ha mezzi toni («quello scoppio di fanfara barbarica che è il verso A Perséphonéia fille de Démétèr [...] piacerebbe molto a Gustavo Flaubert», a Hérelle, 24 dicembre 1896), ribadiscono l’irresistibile attrazione verso la poesia, anche perché la polemica dei plagi, nonostante la disinvoltura che d’Annunzio non mancò allora di ostentare, lo costrinse pure ad aggiustare il tiro, a rivedere i propri programmi rincarando la dos...

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