La paziente silenziosa
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La paziente silenziosa

Alex Michaelides, Seba Pezzani

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La paziente silenziosa

Alex Michaelides, Seba Pezzani

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Alicia Berenson sembra avere una vita perfetta: è un'artista di successo, ha sposato un noto fotografo di moda e abita in uno dei quartieri piú esclusivi di Londra. Poi, una sera, quando suo marito Gabriel torna a casa dal lavoro, Alicia gli spara cinque volte in faccia freddandolo. Da quel momento, detenuta in un ospedale psichiatrico, Alicia si chiude in un mutismo impenetrabile, rifiutandosi di fornire qualsiasi spiegazione. Oltre ai tabloid e ai telegiornali, a interessarsi alla «paziente silenziosa» è anche Theo Faber, psicologo criminale sicuro di poterla aiutare a svelare il mistero di quella notte. E mentre a poco a poco la donna ricomincia a parlare, il disegno che affiora trascina il medico in un gioco subdolo e manipolatorio.

«Quando la dichiararono in arresto restò in silenzio, rifiutando di negare la sua colpa o confessarla. Alicia non parlò mai piú. Il suo silenzio incrollabile trasformò una banale tragedia domestica in qualcosa di ben altra portata: un giallo, un enigma che conquistò i titoli dei giornali e catturò l'immaginario pubblico per mesi e mesi».

«Che abilità. Molto, molto consigliato».
The Times «Un thriller formidabile e carico di suspense».
Lee Child

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Information

Seconda parte

Le emozioni inespresse non muoiono mai. Sono sepolte vive e destinate a riemergere in un secondo momento, in modi piú sgradevoli.
SIGMUND FREUD

1.

DIARIO DI ALICIA BERENSON

16 luglio
Non avrei mai pensato di poter agognare la pioggia. Siamo alla quarta settimana di questa ondata di caldo e inizia a sembrare una prova di resistenza. Ogni giorno pare piú caldo del precedente. Non sembra nemmeno di essere in Inghilterra. Piuttosto in un paese straniero: in Grecia o in un posto simile.
Sto scrivendo da Hampstead Heath. Il parco è costellato di volti arrossati, corpi seminudi, stesi su coperte, panche o semplicemente sull’erba, come in una spiaggia o in un campo di battaglia. Sono seduta sotto un albero, all’ombra. Sono le sei e la temperatura ha iniziato a rinfrescare. Il sole è basso e rosso in un cielo color oro. Con questa luce il verde della brughiera ha un aspetto diverso: ombre piú scure, colori piú accesi. L’erba pare infuocata, fiamme tremolanti sotto i miei piedi.
Mentre venivo qui mi sono tolta le scarpe e ho camminato scalza. Mi è venuto in mente quando ero piccola e giocavo all’aperto. Mi è venuta in mente un’altra estate, calda come questa – l’estate in cui morí mia mamma – quando giocavo insieme a Paul, pedalando in bicicletta per i campi dorati e punteggiati di margherite, esplorando case abbandonate e frutteti infestati. Nei miei ricordi, quell’estate dura in eterno. Ricordo mamma e quelle canottiere dai colori vivaci che portava, con le spalline gialle, sottili e delicate: proprio come lei. Era magra come un uccellino. Accendeva la radio, mi prendeva in braccio e si metteva a ballare, facendomi girare al ritmo delle canzoni pop. Ricordo il suo profumo di shampoo, sigarette e crema per le mani, con un odore onnipresente di vodka. Quanti anni aveva? Ventotto? Ventinove? Era piú giovane della me di adesso.
Che strana considerazione.
Mentre venivo qui ho visto un uccellino che giaceva tra le radici di un albero, sul sentiero. Ho pensato che doveva essere caduto dal nido. Non si muoveva e mi sono chiesta se avesse le ali spezzate. Gli ho accarezzato la testa delicatamente con un dito. Non ha avuto la minima reazione. Gli ho dato un colpetto, l’ho girato e la pancia dell’uccellino non c’era piú, era stata divorata, lasciando al suo posto una cavità piena di larve. Grosse larve bianche e viscide che si dimenavano, vorticavano, si contorcevano… Mi sono sentita rivoltare lo stomaco: ho temuto di stare male. La scena era nauseante, disgustosa: satura di morte.
Non riesco a togliermela dalla testa.
17 luglio
Da qualche tempo trovo rifugio dalla calura in un caffè con l’aria condizionata sulla strada principale, il Cafe de l’Artista. Dentro si gela, è come entrare in un frigorifero. Accanto alla vetrata c’è un tavolo che mi piace dove spesso mi siedo a bere un caffè freddo. A volte leggo, disegno o prendo appunti. Per lo piú lascio vagare la mente godendomi il freddo. La splendida ragazza dietro il bancone se ne sta lí con l’aria annoiata e gli occhi fissi sul suo telefono, controllando l’orologio e sospirando. Ieri pomeriggio i suoi sospiri mi sono sembrati particolarmente lunghi e mi sono accorta che aspettava che io me ne andassi per poter chiudere. Me ne sono andata con una certa riluttanza.
Camminare con questo caldo è come avanzare nel fango. Mi sento spossata, strapazzata, maltrattata dal caldo. In questo paese non siamo attrezzati – io e Gabriel non abbiamo l’aria condizionata a casa –, chi lo è? Ma senza condizionatore è impossibile dormire. Di notte ci sbarazziamo delle coperte e giacciamo al buio, nudi, madidi di sudore. Lasciamo le finestre aperte, ma non c’è la minima corrente. Solo aria calda immota.
Ieri ho comprato un ventilatore elettrico. L’ho sistemato ai piedi del letto, sopra la cassapanca, e Gabriel si è subito lamentato:
– Fa troppo rumore. Non riusciremo mai a dormire.
– Non dormiamo comunque, – ho detto. – Almeno cosí non faremo la sauna.
Gabriel ha brontolato ma, alla fine, si è addormentato prima di me. Io sono rimasta lí ad ascoltare il ventilatore: mi piace il suono che produce, un ronzio delicato. Posso chiudere gli occhi e armonizzarmi con esso e sparire.
Mi sono portata il ventilatore in giro per la casa attaccandolo alla corrente e staccandolo a ogni spostamento. Questo pomeriggio me lo sono portato nello studio, all’altro lato del giardino. La presenza del ventilatore ha reso l’aria appena tollerabile. Ma fa comunque troppo caldo per riuscire a lavorare. Sono in ritardo, ma ho troppo caldo per curarmene.
In effetti un piccolo passo avanti l’ho fatto: ho capito finalmente cos’è che non va nel quadro di Gesú. Perché non funziona. Il problema non riguarda la composizione – Gesú in croce – il problema è che non si tratta affatto di un quadro di Gesú. Non Gli somiglia nemmeno, qualsiasi fosse il Suo aspetto. Perché non è Gesú.
È Gabriel.
È incredibile che non me ne fossi accorta prima. In qualche modo, senza volerlo, ho trasposto Gabriel lassú. È il suo corpo che ho dipinto, la sua faccia. Non è una follia? Devo rassegnarmi e fare ciò che il quadro mi chiede.
Ora so che quando ho un’idea per un quadro, un’idea predeterminata su come deve venire, non funziona mai. Rimane un aborto privo di vita. Invece se sto molto attenta e mi concentro, riesco a sentire una vocina che mi indica la direzione giusta da intraprendere. E se la accolgo come una sorta di atto di fede, mi conduce in un luogo inaspettato, dove non intendevo andare: un luogo vivissimo, splendido. Il risultato non dipende da me e ha una forza vitale propria.
Suppongo che ciò che mi spaventa sia arrendermi all’ignoto. Mi piace sapere dove sto andando. Ecco perché realizzo cosí tanti bozzetti, per tentare di controllare il risultato, e non c’è da sorprendersi se non riesco a dare vita a nulla, perché in quei momenti non riesco a percepire realmente ciò che sta avvenendo davanti a me. Devo riuscire ad aprire gli occhi, a guardare e a essere conscia di come la vita si stia manifestando e non semplicemente come vorrei che fosse. Ora che so che è un ritratto di Gabriel, posso riavvicinarmi. Posso ricominciare.
Gli chiederò di posare per me. È da parecchio che non lo fa. Spero che l’idea gli piaccia e che non lo trovi sacrilego o qualcosa di simile.
A volte manifesta stranezze simili.
18 luglio
Stamattina sono scesa dalla collina e sono andata a piedi fino al mercato di Camden. Erano anni che non lo facevo, da quando io e Gabriel ci andammo insieme un pomeriggio per cercare la sua infanzia perduta. È un posto che frequentava da adolescente, dopo che con gli amici avevano trascorso tutta la notte a ballare, bere e parlare. Si presentavano al mercato di prima mattina e osservavano i commercianti montare i loro banchi e provavano a procurarsi un po’ d’erba dagli spacciatori rastafariani che bazzicavano intorno al ponte di Camden. Quel giorno gli spacciatori non c’erano piú e Gabriel ci rimase male. – Non riconosco piú questo posto, – disse. – È una trappola infiocchettata per turisti.
Durante la passeggiata di oggi, mi sono chiesta se il problema non fosse che era Gabriel a essere cambiato, non il mercato. È ancora popolato da sedicenni che si godono il sole, stravaccati su entrambe le sponde del canale, un ammasso di corpi, – ragazzi in pantaloncini e a torso nudo, ragazze in bichini o reggiseno – pelle ovunque, carne bruciata, arrossata. L’energia sessuale era palpabile, la loro sete di vita, smaniosa e impaziente. Ho provato un improvviso desiderio di Gabriel, del suo corpo e delle sue gambe forti, delle sue cosce spesse sulle mie. Quando facciamo sesso, provo sempre una fame insaziabile di lui – di un qualche tipo di unione fra noi – qualcosa piú grande di me, che va al di là delle parole, qualcosa di sacro.
D’un tratto ho notato un senzatetto seduto sul marciapiedi a poca distanza da me, che mi stava fissando. Portava i pantaloni legati in vita con una stringa e scarpe tenute insieme con del nastro adesivo. Aveva la pelle piagata e sul viso un’eruzione cutanea irregolare. Ho provato un’improvvisa tristezza e repulsione. Puzzava di sudore acido e urina. Per un istante ho pensato che mi avesse parlato. Ma stava solo imprecando tra sé a bassa voce: ’fanculo questo e ’fanculo quest’altro. Ho pescato qualche moneta dalla borsetta e gliel’ho data.
Poi mi sono incamminata verso casa risalendo lentamente il colle, passo dopo passo. Mi è parso piú ripido. Ci ho messo una vita nella calura soffocante. Per qualche motivo non riuscivo a smettere di pensare al senzatetto. A parte la pietà, c’era un altro sentimento a cui non riuscivo a dare un nome, una specie di paura. Me lo sono immaginato da bambino, tra le braccia di sua madre. Quella donna aveva mai pensato che il suo bambino avrebbe finito per essere pazzo, sporco e maleodorante, abbandonato sul marciapiedi a mugugnare oscenità?
Ho pensato a mia madre. Era pazza? Perché mi aveva fatta sedere, con la cintura di sicurezza, sul sedile del passeggero della sua Mini gialla e si era diretta a tutta velocità contro un muro di mattoni rossi? Quella macchina, con quel suo allegro giallo canarino, mi era sempre piaciuta. Lo stesso giallo della mia scatola dei colori. Adesso quel colore lo odio: ogni volta che lo uso penso alla morte.
Perché l’aveva fatto? Non lo saprò mai. Un tempo pensavo che fosse stato un suicidio. Ora sono convinta che sia stato un tentat...

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