Lâepoca dâoro dellâingiuria.
Insulti a Merkel, stima per Putin: le telefonate di Trump che allarmavano i suoi collaboratori1, Insulti omofobi di un genitore al maestro dâasilo2, Insulti alla Camera, Sgarbi: «Denuncio Carfagna e Bartolozzi»3, ... fischi e insulti allâintruso Salvini4, Salvini chiama Zingaretti âcretinoâ, poi ritira lâinsulto5, Torino, insulti razzisti a un negoziante6. Sono solo alcune delle notizie che oggi, 2 luglio 2020, compaiono sulle prime pagine online dei principali quotidiani italiani. Il tema dellâinsulto Ăš un motivo che risuona con sempre maggiore frequenza nella politica interna ed estera, nella cronaca, cosĂ come nelle notizie di costume. Lâinsulto provoca reazioni, suscita indignazione, esorta a prendere posizione, quindi, fa notizia.
Abbiamo in effetti la netta sensazione di vivere in unâepoca in cui ingiurie, insulti e improperi piovono da tutte le parti. Forse, perĂČ, sarebbe ingenuo guardare al presente con preoccupazione, mossi dalla nostalgia per un piccolo mondo antico in cui i dialoghi erano scanditi da elogi e ossequi. Gli esseri umani si insultano, da sempre. Persino dalle bocche di Catullo, Sallustio e Cicerone uscivano spesso e volentieri insulti rozzi e volgari7. Che cosâĂš dunque che rende cosĂ attuale e urgente una riflessione sul tema dellâinsulto? Vi sono perlomeno due motivi per credere che la diffusa considerazione per il fenomeno dellâinsulto abbia a che fare con cambiamenti attuali nel modo di concepire la comunicazione e le interazioni con gli altri, che fanno dei nostri tempi lâepoca dâoro dellâingiuria.
La prima ragione risiede nella frequenza con la quale le espressioni di insulto ricorrono nel linguaggio politico odierno. Insulti e offese sono oggi piĂș che mai un attrezzo retorico di delegittimazione dellâavversario e di costruzione del consenso politico. Ă sufficiente una frettolosa ispezione dei piĂș recenti tweet di Trump per rendersi conto di come emerga con facilitĂ la strategica e sistematica propensione allâannientamento degli oppositori politici per mezzo di denigrazione â «The New York Times» ha stilato una lista delle 598 persone, luoghi e cose insultati da Trump su Twitter8. I rivali vengono spesso appellati come «deboli», «incompetenti», «falliti», «frivoli», «stupidi» o «clown». I nomi propri dei suoi detrattori sono abilmente storpiati con rodati meccanismi retorici tramite i quali lâavversario viene ribattezzato come dope-, drogato, sloppy-, sciatto o crazy-, folle: «Dope Frank» (Frank Bruni, giornalista del «New York Times»), «Dopey Mort» (Mortimer Zukerman, proprietario del «New York Daily News»), «Sloppy Graidon» (Graidon Carter, ex editore di «Vanity Fair»), «Sloppy Michael» (Michael Moore, noto documentarista americano), «Crazy Nancy» (Nancy Pelosi) e «Crazy Bernie» (Bernie Sanders). Nulla di particolarmente nuovo dalle nostre parti. Ricorderanno in molti, nel periodo caldo dei Vaffa-day, come Beppe Grillo infarcisse le sue sfuriate pubbliche di sostantivi ingiuriosi per chiamare in causa i bersagli della sua satira politica: «Psiconano» Berlusconi, «Rigor Montis» Mario Monti, «Salma» e «Zombi», rispettivamente, lâex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Walter Veltroni, «Alzheimer» Prodi o, senza timore di cadere nella coprolalia piĂș violenta, anche perifrasi piĂș ingiuriose, come nel caso di Giuliano Ferrara definito «un container pieno di merda liquida»9.
Il secondo motivo che fa dellâinsulto una questione quanto mai viva e attuale ha a che fare con un problema che risiede lĂ dove oramai tutti puntano lo sguardo: i social media. Un insulto pronunciato su una piattaforma social sottopone al pubblico ludibrio. Lâesposizione pubblica sulla rete comporta un senso di vulnerabilitĂ che talvolta puĂČ persino tradursi in diverse forme di insicurezza sociale. Questo anche perchĂ© la trincea dei social media Ăš perennemente esposta alle raffiche del fuoco nemico. Ă noto che le comunitĂ online straripano di haters e trolls, utenti che, o per puro divertimento o forti della protezione che lâanonimato nei social media conferisce, si abbandonano a raffiche di scherni, rimproveri o ingiurie pungenti nei confronti degli altri membri della community. I social media, in tal senso, rappresentano un nuovo terreno di interazione sociale particolarmente fertile per il proliferare del linguaggio denigratorio.
Caccia allâinsulto.
Con lâespressione hate speech si fa generalmente riferimento a quelle parole o a quei discorsi che diffondono e promuovono contenuti violenti e offensivi nei confronti di persone o gruppi oggetto di discriminazione religiosa, razziale, etnica o legata allâorientamento sessuale. Le piattaforme social costituiscono uno dei principali territori ove prendono piede episodi di cyberbullismo e di propugnazione di messaggi dâodio, che spesso si traducono in azioni criminose. Un caso di qualche tempo fa: il 27 ottobre 2018, Robert D. Bowers, un quarantaseienne originario della Pennsylvania, armato di un fucile dâassalto e di tre pistole automatiche, entra in una sinagoga nel quartiere ebraico di Squirrel Hill di Pittsburgh e fa fuoco uccidendo 11 persone. Dalle indagini emerge che Bowers non era noto alle autoritĂ locali prima dellâattentato. Da mesi, tuttavia, egli condivideva liberamente in modo ossessivo insulti e messaggi dâodio nei confronti degli ebrei e degli immigrati sulle pagine social di svariati movimenti antisemiti dellâultra-destra statunitense. Non Ăš altro che uno degli innumerevoli casi di cronaca di una strage annunciata (sui social) che grida ai quattro venti la necessitĂ di un rapido intervento su una questione focale: sviluppare delle tecniche di individuazione (ed eventualmente rimozione) delle forme di linguaggio offensivo e ostile sulle piattaforme online.
Ad oggi, luglio 2020, YouTube conta circa 2 miliardi di utenti attivi mensilmente, Instagram 1 miliardo, mentre il piĂș datato Facebook ben 2,6 miliardi. Per le grandi multinazionali del web che gestiscono i social media Ăš diventato pressochĂ© impossibile esaminare tutti i contenuti che quotidianamente vengono pubblicati dagli utenti delle community. Si tratta tuttavia di una questione impellente, che da tempo Ăš nel mirino della politica e della giurisprudenza. In Germania, ad esempio, dal 1o gennaio 2018, Ăš in vigore una legge (la NetzDG) che impone ai principali social media di rispettare le rigide leggi tedesche in materia di incitamento allâodio e alla diffamazione10. La norma, tra i vari provvedimenti previsti, impone ai gestori dei social media di rimuovere post illeciti, volti a diffondere contenuti discriminatori, entro e non oltre 24 ore dalla loro pubblicazione. Si tratta di una serie di disposizioni particolarmente rigide, che non hanno tardato a generare le prime seccature per Zuckerberg e colleghi: a luglio 2019, il ministero federale della Giustizia tedesco (Bundesamt fĂŒr Justiz, BfJ) ha multato il colosso americano Facebook con unâammenda da ben 2 milioni di euro per aver fornito un elenco incompleto delle denunce ricevute in merito alla presenza di contenuti illeciti di hate speech sulla piattaforma online.
La questione dellâindividuazione e rimozione dei contenuti insultanti e violenti sul web Ăš controversa per almeno due ragioni. Primo, rischia di porre seri vincoli alla libertĂ di espressione degli utenti dei social media. Occorre stabilire anzitutto in che misura un contenuto ritenuto offensivo va censurato e quando, invece, Ăš ascrivibile alla legittima manifestazione del dissenso. In estrema sintesi, potremmo dire che su questo tema si rintracciano due principali approcci11. Da un lato, il punto di vista, per cosĂ dire, statunitense, facendo appello al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti dâAmerica â che tutela la libertĂ di culto, di parola e di stampa â respinge ogni istanza di controllo e censura che limiti la libertĂ di parola. Questa visione si ancora al presupposto che la libertĂ di espressione sia un diritto fondamentale dei cittadini e non debba essere soggetta ad alcun intervento dello Stato; il conflitto dâopinione, da questo punto di vista, non si risolve nel contenimento delle possibilitĂ espressive dei cittadini bensĂ nella moltiplicazione delle idee, delle opinioni e dei punti di vista in gioco12. Dallâaltro lato, secondo la visione per cosĂ dire continentale, europea, la libertĂ dâespressione incontra dei limiti ben precisi nella difesa dei diritti umani nonchĂ©, in primis, nel rispetto degli individui. Le parole che veicolano odio e offesa, secondo questa visione delle cose, vanno espulse dal lessico del confronto democratico. Il bandolo di questa intricata matassa che impantana alcuni ambiti della giurisprudenza contemporanea pare dunque in buona parte di natura linguistica. Il quesito cruciale Ăš: quali espressioni del linguaggio hanno una funzione offensiva e quali no?
Il secondo grattacapo ha a che fare con lo sviluppo di efficaci tecniche di individuazione dei contenuti offensivi e denigratori online. Ad oggi, le grandi aziende come Google e Facebook hanno di fatto adottato due principali strategie per arginare la diffusione di espressioni dâodio sul web. In primo luogo, tramite logiche di autoregolazione. I social media predispongono delle linee guida di utilizzo che prescrivono le norme di comportamento degli utenti nelle piattaforme, con diversi gradi di rigore. A posteriori, i processi di sorveglianza sono poi demandati a un algoritmo che raccoglie le segnalazioni degli utenti e, tramite un software di trattamento automatico del linguaggio naturale, segnala i contenuti denigratori, razzisti o violenti. Lâanalisi automatica viene poi supervisionata da squadre di deciders che valutano eventuali segnalazioni ritenute immotivate o che di fatto non confliggono con le norme dâuso adottate dalla piattaforma social13. Scovare i casi di linguaggio ingiurioso, odioso e violento rimane tuttavia unâimpresa che comporta notevoli complicazioni teoriche. Un problema su tutti: la definizione di linguaggio insultante e offensivo non Ăš in alcun modo perspicua e, se consideriamo che piĂș di un quarto degli abitanti del pianeta Terra Ăš utente attivo di una piattaforma come Facebook, il numero e la varietĂ di circostanze che possono dar vita a contenuti potenzialmente offensivi diventa incalcolabile. Ecco dunque che inciampiamo in un altro rompicapo linguistico: quando e perchĂ© certi vocaboli si fanno veicolo di contenuti denigratori e offensivi?
Lâurgente questione di chiarire quali espressioni del linguaggio umano giochino una funzione offensiva sembra bussare nuovamente alla porta dei linguisti e delle linguiste. Quali termini possono essere considerati insultanti? Per quale motivo alcune parole offendono? Le risposte a queste domande si scontrano con un problema di non poco conto. Lâinsulto Ăš un complesso fenomeno sociale, che si realizza in forme diverse e con svariate funzioni a seconda dei contesti culturali di riferimento, della lingua parlata, dei parlanti e degli scopi in gioco nella comunicazione. Sebbene il concetto stesso sia in una certa misura universale, le sue declinazioni specifiche sono innumerevoli: un comportamento del tutto innocuo in una certa comunitĂ puĂČ essere considerato tragicamente offensivo in unâaltra. Lâinsulto, dunque, sfugge a una definizione univoca. Per capirne la natura e la genesi, occorre piuttosto osservare con attenzione le combinazioni di parole, azioni e cre...