Parte III.
Per una concezione materialistica della storia.
Vico, la dinamica delle forme di governo
e le leggi del mutamento
«Una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia»
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. III, p. 1860 (Quaderno 16, XXII, § 9)
1. Due premesse
1.1. La classificazione delle forme di governo e le regole del loro mutamento
Due premesse mi sembrano necessarie: la prima sui limiti, la seconda sul metodo dell’analisi che mi accingo a svolgere.
Per quanto concerne la delimitazione dell’indagine avverto che non tratterò il tema – decisivo in sede dogmatica – della «definizione» del concetto di «forma di governo» e dei caratteri che valgono a qualificarla. Non mi preoccuperò, in sostanza, di stabilire se la tripartizione vichiana tra repubblica aristocratica, repubblica popolare e monarchia sia conforme ad un qualche modello o rispecchi determinati elementi tipici. Mi limiterò ad assumere la particolare classificazione proposta (la statica della forma di governo) per come da Vico espressa. Il mio sforzo sarà rivolto, invece, ad esaminare la dinamica delle forme di governo, ovvero le regole del mutamento che presiedono la teoria ciclica vichiana in rapporto all’esercizio del potere; poiché questo – come mi propongo di sostenere – appare il contributo più originale compiuto dell’autore napoletano nello studio delle forme di governo.
Aggiungo che non mi occuperò neppure direttamente della collegata – ed anch’essa decisiva – questione del rapporto tra forma di governo e forma di Stato. Una distinzione che da tempo ha perduto, a mio avviso, una sua specifica valenza euristica, come può essere dimostrato dallo scivolamento progressivo di molte forme di governo nelle forme di Stato. Basta pensare a come sia ormai assai problematica la classificazione di alcuni regimi che hanno adottato le «forme» di governo tipiche delle democrazie moderne, ma che si conformano poi, nella realtà dei fatti, come regimi autoritari, ricadendo dunque entro forme di Stato sostanzialmente autocratiche (ovvero neo-totalitarie).
Sul punto, mi limito qui ad osservare che chi volesse oggi riconsiderare in sede dogmatica il controverso rapporto tra forme di governo e forma di Stato potrebbe utilmente partire proprio dalla riflessione vichiana. Giambattista Vico fu, infatti, tra i primi – dopo Machiavelli e Spinoza, poco prima di Montesquieu – a comprendere che la riflessione sulla distribuzione dei poteri non poteva andare disgiunta dai rapporti che questi intrattenevano con i governati: forme di governo che andavano a conformare le forme di Stato, dunque. E viceversa. La «Scienza nuova» non poteva più limitarsi – come era consueto invece nella tradizione antica – a considerare gli «assetti» formali dei poteri, ma doveva ricomprendere anche l’uso che del potere veniva in concreto esercitato per ragioni di dominio e controllo sociale. Certo anche per Vico era importante stabilire se il potere fosse concentrato nelle mani di uno, di pochi o di molti, ma la maggiore attenzione andava rivolta ai modi di esercizio dei poteri. Ciò ha finito per ridurre l’importanza della classificazione tradizionale delle forme di governo, incentrata sulla domanda «chi governa?», individuando il vero discrimine nella questione del «come si governa e per quali interessi si governa».
Anche per questo profilo, dunque, può dirsi che la maggiore originalità dell’opera di Giambattista Vico deve essere ricercata non nella classificazione delle forme (di Stato e/o di governo), quanto nell’attenzione prestata da questo autore alle ragioni del mutamento, alle «leggi eterne» che si pongono alla base della sua particolare teoria della storia di natura ciclica.
1.2. Questione di metodo: descrivere e prescrivere
La seconda premessa riguarda il metodo. La scelta del metodo giuridico e quella – parallela – sul tipo d’indagine che viene praticata da ogni studioso discendono – consapevolmente o meno – dalla particolare rappresentazione del ruolo della scienza giuridica e – ancor più in generale – del compito che ciascuno di noi – in base alla propria Weltanschauung – ritiene debba essere assegnato alle scienze umane e agli intellettuali nella società. Una scelta di fondo che vale a qualificare la ricerca, che è pertanto opportuno sin da subito esplicitare.
Si avverte una forte propensione nella cultura (non solo giuridica) più recente ad adottare metodi d’indagine puramente analitici. A volte con il buon proposito di difendere l’autonomia della scienza praticata, ma correndo il pericolo di cadere nel mero descrittivismo, ovvero in un ambiguo tecnicismo fine a sé stesso. In tal modo, l’esito non può che essere la rinuncia alla funzione critica e prescrittiva dell’analisi compiuta, che è poi – a ben vedere – proprio ciò che legittima sia l’autonomia della scienza in quanto scienza (non solo quella giuridica), sia il lavoro intellettuale come professione separata dalla politica. È dunque vero che il giurista deve anzitutto «descrivere e sistematizzare» il dato normativo (entro un contesto sociale determinato) e poi esaminare la misura del vincolo derivante da quel dato, ma non può con ciò ritenere esaurito il proprio compito. Egli, dopo aver formulato i più puntuali e argomentati giudizi di fatto, deve anche, necessariamente, chiarire il senso del suo fare in base a specifici giudizi di valore. Nel rispetto, s’intende, delle fondamentali obbligazioni nei confronti della giustizia, della verità e della ragione che – ci ha insegnato Julien Benda – rappresentano gli unici effettivi limiti invalicabili della ricerca e dell’impegno dell’intellettuale.
Se questo è vero in generale, appare tanto più necessario nelle analisi scientifiche dedicate allo studio delle forme di governo ove – seguendo l’insuperata impostazione di Norberto Bobbio – descrizione e prescrizione (fatti e valori) si sommano. Limitarsi a classificare le forme di governo apparirebbe un’operazione sterile se non fosse accompagnata da un uso assiologico delle tipologie definite.
D’altronde, che non possa separarsi lo studio della struttura da quello delle funzioni è dimostrato dalla non neutralità delle ricostruzioni classiche delle forme di governo, le quali – sin da Erodoto – si preoccupano di classificare per poi distinguere le forme «pure» da quelle «degenerate». Eventualmente giungendo ad indicare forme «miste», con le quali ci si propone espressamente di fornire una sintesi che riesca ad escludere i vizi ed a comporre gli elementi positivi delle diverse forme di governo.
Nel caso di Vico, poi, l’adozione di un metodo d’indagine non neutrale, non puramente analitico, che si sforzi di coniugare descrizione e prescrizione appare quanto più necessario. In questo caso è l’uso storico che impone di valutare la dottrina di Giambattista Vico alla luce delle sue e delle nostre precomprensioni.
Ma cosa vuol dire in concreto proporsi di svolgere un’analisi del pensiero di Vico che non si limiti alla descrizione della sua sistematica sulle forme di governo, sforzandosi di andare oltre, giungendo a valutare la sua portata prescrittiva? ...