La Svedese
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La Svedese

Giancarlo De Cataldo

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La Svedese

Giancarlo De Cataldo

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Roma non ha piú un padrone, ognuno può prenderne un pezzo. Lei lo ha fatto. Era una ragazza di borgata come tante, con sogni nemmeno troppo grandi. Poi ha afferrato un'occasione, ed è diventata la Svedese. Sharon, detta Sharo, poco piú di vent'anni, bionda, alta, magra, la faccia sempre imbronciata; non una bellezza classica, eppure attira gli uomini come il miele le mosche. Vive in periferia con la madre invalida e ha bruciato un bel po' di lavoretti precari sempre per la stessa ragione: le mani lunghe dei capi. Poi una misteriosa consegna portata a termine per conto del fidanzato, un piccolo balordo, cambia la sua esistenza. Con la protezione di un annoiato aristocratico, Sharo inizia la sua irresistibile ascesa criminale. Ma la mala che conta, quella che controlla il mercato della droga, si accorge di lei e comincia a tenerla d'occhio, a guardarla con rispetto, con timore, con odio. Lí, in quell'ambiente, nella zona oscura della città, nessuno la chiama piú con il suo nome. Per tutti è la Svedese.«A mano a mano che la mezzanotte si avvicinava, la foresta dei tetti si andava popolando di gente, e dall'orizzonte si intensificavano i bagliori e cresceva lo scoppiettante concerto dei botti. Le autorità avevano vietato di sparare, e Roma tutta sparava; le autorità avevano vietato gli assembramenti e le terrazze brulicavano di umanità».

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XXVIII.

Entrarono nel palazzo poco prima di mezzanotte. Dall’ingresso principale. La strada era deserta, cadeva una pioggerellina improvvisa, da qualche finestra aperta filtravano la luminescenza dei televisori e il suono ovattato di un allegro battibecco di voci. Il Motaro non credeva ai suoi occhi.
– Ma allora è vero che c’hai le chiavi! E te l’ha date ’sto principe!
– Te l’avevo detto.
– Me sei sicura che nun ce sta nessuno?
– Ho telefonato dieci volte, stai sereno.
– Certo che ’sto principe è proprio matto! E tu manco ce sei annata a letto?
– Motaro, t’ho detto de statte zitto, va bene?
E cosí la Svedese non mentiva. Diciamo che erano ospiti non previsti, ma comunque non intrusi. C’ho una cosa mia da riprendere, è tutto a posto, aveva detto. Quasi quasi toccava crederle.
Una casa cosí il Motaro non l’aveva mai vista. Manco nei video della trap, dove pure abbondavano arredi e simboli del lusso. Intuiva, senza poi rendersene pienamente conto, che quei mobili, i divani, le statue, i quadri, i ninnoli, i marmi, le maioliche, le fotografie nelle cornici ovali, non erano che lontani parenti della roba che, per dire, si comperavano tipi come l’Aquilotto o Jimmy. Questa era una ricchezza di genere diverso. Metteva soggezione. Spaventava persino. Con lo zainetto che portava a tracolla, urtò sbadatamente un gattino di cristallo. Cadde su un tappeto, con un rumore sordo.
– E sta’ attento!
– Nun l’ho fatto apposta, Sharo!
Si chinò e raccolse l’oggetto. Si era scheggiato da un lato. Pazienza. Lo posò su un tavolino, fra una teiera e una specie di vaso cinese, poi ci ripensò e lo mise nello zaino. Anche se mezzo rovinato, qualcosa ci si poteva tirare su. Sharo non se n’era accorta. Andava dritta per la sua strada. Con una noncuranza che metteva invidia. E si vede che c’era abituata. Be’, a lui stavano venendo altre idee. Tipo, fargli uno sfregio qua, un taglietto là… cominciava a capire quei ladroni che dopo aver fatto lo sgobbo in certe case lasciavano un ricordino solido e puzzolente… era un modo di dire: ma chi cazzo ti credi di essere, eh? Io so’ passato de qua e te lo faccio sapere, t’ho fatto piagne, sta bene? Ma se si fermava davanti a qualche brutta faccia di vecchia di trecento anni prima dipinta con un cane pieno de pulci in braccio, Sharo lo tirava via, nervosa e imperativa.
Lui a Sharo ci teneva, chiaro. Gli era entrata dentro sin dalla prima volta che si erano incontrati. Una pischella linda e pinta di sedici anni con l’aria della studentessa seria, ma dentro agli occhi si leggeva quel fuoco… il Motaro aveva allungato le mani, e si era beccato uno schiaffone. Lei non poteva ricordarselo perché era carnevale, e lui portava una maschera da teschio. Però l’aveva capita. Con lei non dovevi scherzare. Mo’ stavano sotto a quel pecoraio di Jimmy, ma dalle tempo, alla Svedese… E il principe? Chissà che storia c’aveva veramente, co’ ’sto principe. Dice che gli piacevano i maschi e quindi non c’era stato niente di serio. Il Motaro ci credeva e non ci credeva. Che, si lasciano le chiavi di casa cosí a una che te porta la roba… perché era di questo che si trattava, in fondo…
– Secondo te mi assomiglia?
La domanda di Sharo lo distolse dai suoi pensieri. Era ferma davanti a una specie di busto, sembrava un mezzo manichino di quelli che al centro commerciale ci mettono sopra i cappelli e altre cose di donne. A guardare meglio, era una statua. Con dei capelli curiosi, e dietro uno sbrego sulla schiena, come se portasse un costume da animale.
– A te? ’Sta cosa? E chi lo dice?
– ’Sta cosa si chiama Lamia, – spiegò lei, con un certo disprezzo.
– E che nome sarebbe? Che, è ebrea?
– È una donna-serpente. Roba dell’antica Grecia.
– Davero? Me pare Batman vestito da donna! Comunque… Piacere, Lamia, io so’ Luca, ma me chiamano Motaro, – scherzò lui, – me dispiace, Lamia, ma secondo me con la Svedese tu non c’entri proprio niente, e lei è molto, molto mejo de te…
A Sharo scappò un sorriso. Il Motaro, Fabio… le voci del suo mondo… qui, nella dimora principesca… com’era tutto stonato, fuori fase…
– Ammazza quanto pesa!
– Rimettila giú, Mota’.
– Sharo, magari vale un sacco di soldi. Se vuoi, ce la portiamo.
– È una copia, non vale la pena.
– Se lo dici tu…
– Andiamo, va’.
– E che fretta c’è? C’amo le chiavi, il principe è amico tuo, nun c’è furto, nun c’è danno…
– Non è una visita di cortesia. Prendiamo quello che ci serve e ce ne andiamo.
Il Motaro rinunciò a obbiettare. Dopo tutto, il capo della spedizione era lei. Scesero attraverso una scala interna. Il Motaro si aspettava una cantina o qualcosa di simile, e invece era un altro appartamento, anche questo arredato a puntino. C’era una sala grande con una ventina di poltrone e uno schermo – morte’, il cinema in casa! – e una specie di taverna con un camino e un grosso tavolo da biliardo. Sharo si diresse alla rastrelliera, tirò una stecca, svelando un pannello mobile che occultava una piccola cassaforte. Il Motaro non credeva ai suoi occhi. Manco l’ultima serie co’ Arsenio Lupin! Ma le sorprese non erano finite. Il Motaro cominciava a chiedersi come avrebbero fatto a forzare la serratura, quando Sharo, in pochi secondi, aprí la cassaforte.
– Ma che, sapevi pure la combinazione?
– Prendi.
Senza degnarsi di rispondere, Sharo gli passò un fascio di banconote.
– Sharo, a occhio e croce saranno…
– Conta.
Il Motaro obbedí. Erano tutti tagli da cento, duecento e cinquanta euro.
– So’ quindici sacchi…
Sharo, sempre china nel vano della cassaforte, prese altre banconote, le contò e poi le porse al Motaro.
– Con queste fanno venti.
Le banconote andarono a raggiungere il gattino di cristallo. Il Motaro sbirciò da sopra le spalle di lei.
– Sharo, là dentro ce stanno almeno altri venti testoni.
– E allora?
– E quelle so’ bocce de «Gina».
– Lo vedo da me, Motaro.
– Voglio dire, visto che se trovamo…
– Non se ne parla. Abbiamo preso quello che ci serviva. I venti per Jimmy e basta cosí.
– Ma perché?
– Perché sí, e mo’ piantala di rompere.
Ma lui non se ne dette per inteso. Le girò intorno, tuffò le mani nel vano della cassaforte, arraffò un’altra manciata di banconote e una boccia di «Gina» e depositò il tutto nello zainetto.
– Ma sei scemo? Rimetti a posto, Mota’!
– Daje, Sharo: questa nun è roba tua che ti stai riprendendo…
– Cambia qualcosa? È un prestito! Prendo quello che mi serve e appena posso lo restituisco.
– Ma famme ride! – E qui lui si fece serio, o almeno cercò di sembrarlo. – Prestito! Qua stamo a ruba’… io nun ce credo che ’sto principe la prende a scherzo… è tanto se non chiama le guardie…
– Non lo farà. Rischia troppo.
– È uguale, Sharo. Dopo stasera, col principe hai chiuso. E allora tanto vale portasse avanti col lavoro, no?
Con la sua ruvida logica da coatto, il Motaro la stava riportando alla realtà. Ma sí, ma che si credeva, povera Svedese! Il principe si sarebbe sentito tradito. Il Motaro non aveva tutti i torti. Eppure, ancora esitava.
– Che poi, – il Motaro incalzava, eccitato, – ripaghiamo Jimmy, e con quello che avanza e tutta ’sta «Gina» possiamo alzare altri venti-venticinque sacchi solo per noi… cambiamo zona, lassamo perde’ le Torri… l’hai sempre detto, no, che le Torri te fanno schifo…
– Il ragionamento del tuo amico non fa una piega, Svedese…
La voce del principe suonava beffarda, con un fondo di amarezza. Sharo l’aveva riconosciuta subito. Mentre il Motaro si girava, fra lo spaventato e lo sbigottito, lei se ne restò ostinatamente di spalle, fissando la cassaforte aperta.
– Oh, – strillò il Motaro, – fa’ piano cor cannone, a coso!
– Ti sei portata appresso la guardia del corpo, Sharo? – ancora il principe, tagliente, questa volta.
Lei si voltò con lentezza. Il principe era su una sedia a rotelle. Indossava un kimono di seta azzurra. Accanto a lui c’era Renzino, maglietta nera e jeans. E un fucile puntato contro il Motaro.
– Oh! Ma io te conosco! Tu sei quello della televisione che è venuto alla festa der Tovaja… – sbottò il Motaro. – Ma che niente niente…
– Sí, sono io il famigerato principe. Complimenti per la memoria… ma vorrei essere lasciato solo con la mia amica Svedese, se possibile.
Renzino agitò il fucile, indicando la direzione della sala di proiezione. Il Motaro si avviò.
– Le consiglio di non azzardare pericolose iniziative, – ammoní il principe, rivolto al Motaro. – Renzino viene dai corpi speciali, ha un’ottima mira e credo che non gli dispiacerebbe darvene concreta dimostrazione… vi raggiungeremo fra qualche minuto nel salottino della Lamia.
Renzino scortò il Motaro, annuendo. Per un istante il suo sguardo sarcastico incrociò quello della Svedese. Lei non riuscí a sostenerlo. Il principe girò la carrozzina e le fece segno di sedere su una delle poltroncine davanti al camino.
– Sta male, principe? – domandò Sharo.
– Una recrudescenza di un problema che credevo di essermi lasciato alle spalle. Ma niente di irrimediabile, spero. Allora, Svedese…
– Non avevo scelta, principe. Per me è diventata una questione di vita o di morte.
– Una scelta c’è sempre, Sharo. Bastava chiedere. Ti avrei dato tutto ciò che ti serviva.
– Chiedere? E a chi? Avrò telefonato cento volte, non risponde mai!
– Esistono i messaggi, cara. Principe, mi servono… quanto ti serve, esattamente?
– Ventimila.
– Ecco. Mi servono ventimila, potrebbe aiutarmi? Ti avrei risposto subito.
Ora che lo osservava meglio, si rendeva conto di quanto fosse sciupato, sofferente. Quella magrezza, quelle grinze sul volto… No, non aveva pensato a lasciare un messaggio, però lui non l’aveva mai richiamata. Se c’era un legame fra loro, perché lo aveva interrotto? Era stato lui a interromperlo!
– Perché, stava sempre col telefono attaccato all’orecchio?
– Aspettavo un tuo segnale, Sharo.
Ah, ecco. Aspettava il segnale. Ah, ecco come stavano le cose. L’aveva osservata, studiata, e infine l’aveva presa in trappola. Se era vero quanto le stava dicendo – e non c’era motivo di dubitarne – per tutto quel lungo silenzio era sempre stato al corrente dei suoi tentativi di mettersi in contatto. L’aveva lasciata fare, senza mai manifestarsi. Aspettava un segnale, chiaro. E il segnale era arrivato. Era l’irruzione con Motaro. Quello era il segnale. Sharo capí che si era trattato di una specie di prova d’esame. Faceva tutto parte di un disegno programmato: Lamia, Pigmalione, le chiavi di casa, la combinazione...

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