Capitalismo digitale
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Capitalismo digitale

Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web

Nick Srnicek

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Nick Srnicek

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L'economia come la conoscevamo è finita per sempre. Nel nuovo mercato digitale, dove la merce più preziosa sono i dati degli utenti, vince chi cattura la nostra attenzione. La lotta è senza quartiere, e i volumi di ricchezza generati sono immensi. Ma se nel 1960 General Motors dava lavoro a oltre mezzo milione di persone, oggi i grandi colossi del web impiegano a volte poche centinaia, se non unità, di lavoratori. In questo libro Nick Srnicek analizza la nuova forma di business delle piattaforme web, infrastrutture digitali che mettono in contatto utenti diversi e tendono sempre più ad avere un ruolo monopolistico sul mercato. Srnicek descrive il funzionamento del nuovo capitalismo digitale, delineandone il ruolo centrale nell'odierna economia globale e tracciandone i possibili, e spesso inquietanti, sviluppi futuri.

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Informations

Année
2017
ISBN
9788861052956

Capitolo 1

La lunga recessione
Per comprendere la nostra situazione attuale, è necessario individuare come questa si leghi a ciò che l’ha preceduta. Alla luce della storia, fenomeni che sembrano novità radicali, potrebbero rivelarsi delle semplici continuità. In questo capitolo sosterrò la tesi che tre momenti nella storia relativamente recente del capitalismo siano particolarmente rilevanti per la presente congiuntura: la risposta alla recessione degli anni Settanta; il boom e la recessione degli anni Novanta; la risposta alla crisi del 2008. Ognuno di questi momenti ha creato le condizioni per la nuova economia digitale e ha determinato i modi in cui essa si è sviluppata. Tutto ciò deve essere come prima cosa collocato nel contesto del nostro vasto sistema economico capitalistico e degli imperativi e delle restrizioni che questo impone a imprese e lavoratori. È vero che il capitalismo rappresenta un sistema incredibilmente flessibile, ma è anche dotato di caratteristiche rigide, che funzionano come parametri di massima per qualsiasi periodo storico dato. Se vogliamo comprendere le cause, le dinamiche e le conseguenze della situazione odierna, dobbiamo come prima cosa capire come opera il capitalismo.
Il capitalismo, caso unico tra tutti i modi di produzione conosciuti finora, è incredibilmente efficace nell’innalzare i livelli di produttività1. Questa è la dinamica chiave che esprime la capacità senza precedenti delle economie capitalistiche di crescere a grande velocità e di aumentare gli standard di vita. Cosa rende il capitalismo diverso2? Ciò non può essere spiegato attraverso meccanismi psicologici, come se da un certo punto in poi avessimo deciso tutti insieme di diventare più avidi o più efficienti nella produzione rispetto ai nostri antenati. Piuttosto, quello che spiega la crescita di produttività del capitalismo è un cambiamento nelle relazioni sociali, e particolarmente nei rapporti di proprietà. Nelle società precapitalistiche, i produttori avevano accesso diretto ai propri mezzi di sussistenza: la terra da coltivare e da abitare. In quelle condizioni, la sopravvivenza non dipendeva in maniera sistematica dall’efficienza del processo di produzione di ciascuno. I capricci dei cicli naturali potevano significare che il raccolto non sarebbe stato adeguato in un certo anno, ma queste erano ristrettezze contingenti e non di sistema. Lavorare abbastanza duramente per accedere alle risorse indispensabili alla sopravvivenza era l’unica cosa necessaria. Con il capitalismo, questo cambia. Gli agenti economici si separano dai mezzi di sussistenza e, per assicurarsi quanto necessario a sopravvivere, devono ora rivolgersi al mercato. Anche se esistevano già da migliaia di anni, sotto il capitalismo gli agenti economici si trovarono ad affrontare in maniera mai sperimentata prima la dipendenza generalizzata da questi. La produzione si orientò, di conseguenza, al mercato: bisognava vendere beni per mettere assieme i soldi necessari ad acquistare i beni di sussistenza. Tuttavia, visto che un’enorme quantità di persone ora faceva affidamento sulla vendita, i produttori dovettero affrontare pressioni competitive. Con prezzi troppo alti, i loro beni non sarebbero stati venduti, e in breve tempo avrebbero assistito al collasso delle loro attività. La dipendenza generalizzata dal mercato portò come risultato all’imperativo sistemico di ridurre i costi di produzione in relazione ai prezzi. A questo si può arrivare in diversi modi; tuttavia i metodi più significativi furono l’adozione di tecnologie e tecniche efficienti nel processo di lavorazione, la specializzazione e il sabotaggio dei concorrenti. Alla fine il risultato di queste azioni competitive fu espresso nelle tendenze a medio termine del capitalismo: i prezzi declinarono tangenzialmente fino al livello dei costi, i profitti tra settori industriali differenti tesero a diventare uguali e la crescita senza sosta si impose come logica ultima del capitalismo. Quello dell’accumulazione divenne un elemento implicito e scontato all’interno della trama di qualsiasi decisione d’affari: chi assumere, dove investire, cosa costruire, cosa produrre, a chi venderlo, e così via.
Una tra le conseguenze più importanti di questo modello schematico di capitalismo è che esso chiede un costante rinnovamento tecnologico. Nello sforzo di tagliare i costi, battere i concorrenti, controllare i lavoratori, ridurre il tempo di rotazione e guadagnare quote di mercato, i capitalisti sono incentivati a trasformare continuamente il processo lavorativo. Ciò è stato all’origine dell’immenso dinamismo del capitalismo, poiché i capitalisti tendono ad aumentare costantemente la produttività del lavoro e cercano di superarsi l’un l’altro nel generare utili in maniera efficiente. La tecnologia però è centrale nel capitalismo anche per altre ragioni, che esamineremo in maggior dettaglio più avanti, ed è stata spesso utilizzata per ridurre la manodopera e indebolire il potere dei lavoratori specializzati (anche se esistono controtendenze che puntano a riqualificare la manodopera)3. Le tecnologie “despecializzanti” consentono a lavoratori meno costosi e più flessibili di soppiantare quelli specializzati, e anche a trasferire i processi mentali lavorativi al management piuttosto che lasciarli nelle mani di chi lavora in officina. Dietro questi cambiamenti tecnici, tuttavia, ci sono la competizione e la lotta – sia tra classi, prese dal tentativo di guadagnare forza l’una a scapito dell’altra, che tra capitalisti, che cercano di abbassare i costi di produzione al di sotto della media sociale. È questa seconda dinamica, in particolare, che gioca un ruolo chiave nei cambiamenti che sono al centro di questo libro. Ma prima di poter capire l’economia digitale dobbiamo prima guardare a un periodo precedente.
La fine dell’eccezione postbellica
Sarà via via sempre più ovvio a molti di stare vivendo in un’epoca che deve ancora venire a patti con il crollo degli assetti del dopoguerra. Thomas Piketty sostiene che la riduzione della disuguaglianza dopo la Seconda guerra mondiale è stata un’eccezione alla regola generale del capitalismo; Robert Gordon ritiene che la grande crescita di produttività della metà del Diciannovesimo secolo sia stata un’eccezione alla regola storica; numerosi pensatori appartenenti alla sinistra, inoltre, hanno sostenuto a lungo che il dopoguerra fu per il capitalismo un periodo positivo in maniera non sostenibile4. Quel momento eccezionale, definito a grandi linee dal liberalismo incorporato a livello internazionale, dal consenso socialdemocratico a livello nazionale e dal Fordismo a livello economico – è in caduta libera fin dagli anni Settanta.
Cosa caratterizzava la situazione postbellica delle economie ad alto reddito? Per quanto riguarda gli scopi di questo libro, due elementi (anche se non esaustivi) sono stati di cruciale importanza: il modello di business e la natura degli impieghi. Dopo la devastazione della seconda guerra mondiale, l’industria manifatturiera americana era in una posizione dominante a livello globale. Era caratterizzata da grandi impianti di produzione costruiti secondo le linee fordiste, dal nome dell’industria automobilistica che fungeva da paradigma. Queste fabbriche erano orientate alla produzione di massa, controllo manageriale top down e approccio just in case, che richiedeva lavoratori e forniture extra in caso di picchi nella domanda. Il processo di lavoro era organizzato secondo i principi tayloristici, che miravano a suddividere ogni mansione in compiti dequalificati più piccoli, riorganizzandoli nel modo più efficiente possibile; i lavoratori erano raccolti in gruppi numerosi in singole fabbriche. Da questa situazione prese corpo il lavoratore di massa, capace di sviluppare un’identità collettiva sulla base del fatto che c’erano altri lavoratori come lui che condividevano le sue stesse condizioni. I lavoratori di questo periodo erano rappresentati da sindacati che cercavano un equilibrio con il capitale e reprimevano iniziative più radicali5. La contrattazione collettiva garantì una crescita dei salari piuttosto rapida, e i lavoratori furono sempre più impacchettati nelle industrie manifatturiere con lavori più o meno a tempo indeterminato, salari alti e pensioni garantite. Nel frattempo, lo stato sociale redistribuiva il denaro a chi rimaneva fuori dal mercato del lavoro.
Poiché i concorrenti più prossimi erano stati devastati dalla guerra, l’industria manifatturiera americana ne approfittò diventando la superpotenza dell’era post-bellica6. Eppure Giappone e Germania avevano un loro vantaggio comparativo – in particolare, i costi relativamente bassi del lavoro, una forza lavoro qualificata, tassi di cambio vantaggiosi e, nel caso del Giappone, una struttura istituzionale di grande supporto – tra governo, banche e aziende cruciali. In più, il Piano Marshall aveva gettato le basi per l’espansione dei mercati di esportazione e per la crescita dei livelli di investimento in tutti questi paesi. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Ventesimo secolo, il settore manifatturiero giapponese e tedesco crebbe rapidamente sia in termini di rendimento che di produttività. Fatto ancora più importante, mentre il mercato si sviluppava e la domanda cresceva a livello globale, le imprese giapponesi e tedesche iniziarono a rosicchiare le quote delle imprese americane. All’improvviso, numerose industrie manifatturiere di grandi dimensioni si ritrovarono a produrre a livello mondiale. La conseguenza fu che il settore manifatturiero globale raggiunse un eccesso di capacità produttiva tale da far subire ai prezzi dei beni prodotti una pressione al ribasso. A metà degli anni Sessanta, l’industria manifatturiera americana si ritrovò colpita dal basso a livello di prezzi praticati dai suoi concorrenti giapponesi e tedeschi, il che portò a una crisi di redditività per le aziende nazionali. Gli alti costi fissi degli Stati Uniti semplicemente non erano più in grado di competere con dei concorrenti. Con una serie di adattamenti dei tassi di cambio, questa crisi di produttività fu alla fine trasmessa al Giappone e alla Germania, facendo scoppiare la crisi globale degli anni Settanta.
A fronte della redditività in calo, le aziende manifatturiere si sforzarono di ravvivare le proprie attività. Come prima cosa, le imprese iniziarono a osservare i competitor di successo e a modellare loro stesse su quegli esempi. Il modello fordista statunitense sarebbe stato rimpiazzato da quello toyotista, giapponese7. In termini di processo del lavoro, la produzione andava sveltita. Una sorta di iper-taylorismo puntava a spezzare il processo nelle sue parti più piccole, assicurandosi che ci fossero il numero minimo di impedimenti e di tempi morti all’interno della sequenza. L’intero processo andava riorganizzato al fine di essere il più possibile lean. Azionisti e consulenti aziendali non facevano che dire alle società di limitarsi alle proprie competenze di base, di licenziare qualunque lavoratore in sovrappiù e di tenere le rimanenze...

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