Come muoiono le democrazie
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Come muoiono le democrazie

Steven Levitsky, Daniel Ziblatt

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Come muoiono le democrazie

Steven Levitsky, Daniel Ziblatt

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Da Erdo?an a Putin, da Orbán a Trump, i passaggi cruciali attraverso i quali una democrazia, oggi, può essere svuotata dall'interno. Le democrazie liberali sono in pericolo. Le democrazie liberali possono morire. Alcune, senza chece ne accorgiamo, stanno già morendo.

Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, studiosi di scienza politica di Harvard, ne sono convinti. E hanno convinto anche noi.Massimo Giannini, "la Repubblica"

Come muoiono le democrazieè una guida lucida ed essenziale a ciò che potrebbe accadere."New York Times"

Levitsky e Ziblatt rigettano l'idea di eccezionalismo occidentale. Non ci sono vaccini che ci proteggono dalla morte delle democrazie. Un libro chiaro e allarmante."The Guardian"

Un potente campanello d'allarme."Foreign Affairs"

Illuminante e spaventosamente attuale."New York Times Book Review"

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Information

Year
2020
ISBN
9788858143346

1.
Alleanze fatali

«Un cinghiale e un cavallo andavano a pascolare nello stesso posto. Ma il cinghiale tutti i momenti calpestava l’erba e intorbidava l’acqua al cavallo, il quale, per vendicarsi, ricorse all’aiuto di un cacciatore. Questo gli rispose che non poteva far nulla per lui, se non si rassegnava a lasciarsi mettere il freno e a prenderlo in groppa; e il cavallo acconsentì a tutte le sue richieste. Allora il cacciatore gli salì in groppa, mise fuori combattimento il cinghiale e poi, condotto seco il cavallo, lo legò alla greppia».
Esopo, «Il cinghiale, il cavallo e il cacciatore»,
in Favole
Il 30 ottobre 1922 Benito Mussolini arrivò a Roma alle 10,55, nel vagone letto di un treno notturno proveniente da Milano1. Era stato invitato nella capitale dal re per ricevere l’incarico di formare un nuovo esecutivo. Accompagnato da un ristretto gruppo di guardie del corpo, Mussolini dapprima si fermò all’Hotel Savoia, poi, vestito con giacca nera, camicia nera e fez nero, marciò trionfante fino al palazzo del Quirinale, la residenza del re. Roma brulicava di voci di agitazioni. Bande di fascisti, molti con divise raccogliticce, scorrazzavano per le strade della città. Mussolini, consapevole del potere dello spettacolo, entrò a passo deciso nel palazzo del re, con i suoi pavimenti di marmo, e lo salutò così: «Maestà, perdoni la mia tenuta [...] ma vengo dai campi di battaglia»2.
Questo fu l’inizio della leggendaria «Marcia su Roma» di Mussolini. Le immagini delle masse di camicie nere che varcavano il Rubicone per strappare il potere allo Stato liberale italiano divennero il canone fascista, ripetuto nelle festività nazionali e nei libri di testo per bambini per tutti gli anni Venti e Trenta. Mussolini fece la sua parte per custodire gelosamente il mito. All’ultima fermata di treno prima di entrare a Roma, quel giorno, aveva preso in considerazione l’idea di entrare in città a cavallo, circondato dalle sue guardie3. Anche se alla fine quell’idea venne abbandonata, fece tutto il possibile per ingigantire la leggenda della sua ascesa al potere, conferendole l’aura, per usare le sue stesse parole, di una «rivoluzione» e di un «atto insurrezionale» destinato a dare il via a una nuova epoca fascista4.
La verità era più prosaica. Il grosso delle camicie nere, spesso con scarse vettovaglie e senza armi, arrivò solo dopo che Mussolini era stato invitato a diventare presidente del Consiglio. Le squadracce fasciste in tutto il paese rappresentavano una minaccia, ma le macchinazioni di Mussolini per impadronirsi del potere furono tutto fuorché una rivoluzione. Il futuro duce sfruttò i suoi 35 seggi in Parlamento (su 535), le divisioni tra i partiti tradizionali, la paura del socialismo e la minaccia di violenza delle sue 30.000 camicie nere per catturare l’attenzione dell’imbelle re Vittorio Emanuele III, che vedeva in Mussolini un astro politico nascente e un mezzo per neutralizzare l’agitazione sociale.
Con l’ordine politico ripristinato grazie alla nomina di Mussolini e il socialismo costretto sulla difensiva, il mercato azionario italiano schizzò alle stelle. Anziani statisti dell’establishment liberale, come Giovanni Giolitti e Antonio Salandra, si ritrovarono ad applaudire la piega presa dagli eventi. Consideravano Mussolini un utile alleato. Ma non diversamente dal cavallo della favola di Esopo, l’Italia si ritrovò presto «legata alla greppia».
Versioni più o meno simili di questa storia si sono ripetute in tutto il mondo nel corso dell’ultimo secolo. Un intero cast di outsider politici, come Adolf Hitler in Germania, Getúlio Vargas in Brasile, Alberto Fujimori in Perù e Hugo Chávez in Venezuela, è arrivato al potere seguendo la stessa strada: dall’interno e passando per successi elettorali o alleanze con personaggi politici potenti. In ognuno di questi casi, le élites erano convinte che invitando l’outsider a prendere in mano le redini del governo sarebbero riuscite a contenerlo, finché non fosse stato possibile ripristinare il controllo dei politici tradizionali. Ma questi piani si ritorsero contro di loro. Un mix letale di ambizione, paura ed errori di calcolo li ha condotti allo stesso, fatale errore: consegnare di propria volontà le chiavi del potere a un autocrate in fieri.
Perché statisti anziani e navigati commettono questo errore? Pochi esempi sono più significativi, a tale proposito, dell’ascesa al potere di Adolf Hitler, nel gennaio del 1933. La sua capacità di organizzare un’insurrezione violenta era già stata dimostrata con il «Putsch della Birreria» a Monaco di Baviera nel 1923, quando con un attacco a sorpresa nelle ore serali un gruppo armato di suoi fiancheggiatori prese il controllo di diversi edifici governativi e di una birreria di Monaco dove si riunivano funzionari bavaresi. L’attacco, mal congegnato, fu sgominato dalle autorità e Hitler trascorse nove mesi in cella, dove scrisse il suo famigerato testamento personale, Mein Kampf. Da quel momento, il futuro Führer si impegnò pubblicamente a conquistare il potere tramite elezioni. All’inizio il suo movimento nazionalsocialista conquistò scarsi consensi. Il sistema politico weimariano era stato fondato nel 1919 da una coalizione filodemocratica di cattolici, liberali e socialdemocratici. Ma dal 1930 in poi, con l’economia tedesca che annaspava, il centrodestra divenne preda di guerre intestine e comunisti e nazisti videro aumentare la loro popolarità.
Il governo eletto crollò nel marzo del 1930, nel pieno delle traversie causate dalla Grande Depressione. Con lo stallo politico che bloccava l’azione dell’esecutivo, una figura di rappresentanza come quella del presidente, l’eroe della Prima guerra mondiale Paul von Hindenburg, approfittò di un articolo della Costituzione che conferiva al capo dello Stato l’autorità di nominare il cancelliere nella circostanza eccezionale in cui il Parlamento non fosse stato in grado di produrre una maggioranza. Lo scopo di questi cancellieri non eletti – e del presidente – non era solo governare, ma tagliare fuori i radicali di destra e di sinistra. Da principio, l’economista del Partito di centro Heinrich Brüning (che in seguito sarebbe fuggito dalla Germania diventando professore a Harvard) tentò, senza successo, di rilanciare la crescita economica; il suo mandato ebbe vita breve. Von Hindenburg si rivolse quindi all’aristocratico Franz von Papen, e poi, sempre più scoraggiato, al caro amico e rivale di von Papen, il generale Kurt von Schleicher, ex ministro della Difesa. Ma senza maggioranze nel Reichstag, lo stallo persisteva. I leader politici vedevano con timore, e a ragione, l’eventualità di nuove elezioni.
Convinta che «qualcosa alla fine deve cedere», una cricca di conservatori litigiosi alla fine del gennaio 1933 si riunì e si accordò su una soluzione: bisognava mettere a capo del governo un outsider che godesse di un forte consenso tra la popolazione. Lo disprezzavano, ma sapevano che almeno aveva un seguito di massa. E soprattutto pensavano di poterlo controllare.
Il 30 gennaio 1933 von Papen, uno dei principali architetti del piano, liquidava i timori di chi considerava un azzardo consegnare il cancellierato di una Germania lacerata dalla crisi nelle mani di Adolf Hitler con le seguenti, rassicuranti parole: «Siamo noi che l’abbiamo preso a servizio. Nel giro di due mesi [...] terremo Hitler in pugno, in un pugno così stretto che strillerà»5. Difficile immaginare un errore di calcolo più clamoroso.
Le esperienze di Italia e Germania evidenziano quell’«alleanza fatale» che spesso spiana la via del potere agli autocrati6. In qualsiasi democrazia può capitare che i politici debbano misurarsi con problemi gravi: crisi economiche, malcontento crescente dei cittadini e declino elettorale dei partiti più importanti possono mettere alla prova il giudizio dei politici più navigati. Se un outsider carismatico emerge sulla scena, conquistandosi consensi con la sua sfida al vecchio ordine, i politici dell’establishment possono sentire di non avere più il controllo della situazione e cercare di cooptarlo. Se uno di loro rompe la conventio ad excludendum e tende la mano all’«insorto» prima che lo facciano i suoi rivali, può usare l’energia e la base di consenso dell’outsider per mettere fuori gioco i suoi colleghi, per poi, è la speranza, riuscire a condizionarlo e a indirizzarlo verso il suo programma.
Questa sorta di patto con il diavolo spesso finisce per avvantaggiare l’outsider, perché i nuovi alleati gli porgono su un piatto d’argento la rispettabilità sufficiente a diventare un contendente legittimo per il potere. Nell’Italia dei primi anni Venti, il vecchio ordine liberale si stava sgretolando di fronte al dilagare di scioperi e agitazioni. L’incapacità dei partiti tradizionali di dare vita a maggioranze parlamentari solide lasciava sconfortato l’anziano Giovanni Giolitti, per la quinta volta presidente del Consiglio, e questi, contro il parere dei suoi consiglieri, nel maggio del 1921 convocò elezioni anticipate. Puntando ad attingere al consenso di massa dei fascisti, Giolitti decise di offrire all’emergente movimento di Mussolini un posto nel suo «blocco borghese», un cartello ele...

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