Subalternità siciliana nella scrittura di Luigi
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Subalternità siciliana nella scrittura di Luigi

Virga, Anita

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Subalternità siciliana nella scrittura di Luigi

Virga, Anita

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Il volume esplora l'opera di due autori classici come Capuana e Verga sotto la lente della prospettiva postcoloniale, accogliendo la tesi del processo di unificazione italiana come processo di colonizzazione interna. L'autrice indaga gli effetti della colonizzazione sulla rappresentazione della realtà rurale siciliana, mettendo in luce zone di ambiguità e ibridismo nella scrittura di Capuana e Verga. I due scrittori, stretti in una posizione in-between tra mondo colonizzato e mondo colonizzatore, a volte prendono parte alla costruzione del discorso nazionale egemone, a volte creano dei contro-discorsi, in un'alternanza mai definitiva che rende sempre ricchi e affascinanti i testi dei due veristi. Anita Virga è Lecturer nel Dipartimento di italianistica presso la University of the Witwatersrand di Johannesburg, Sudafrica. Ha pubblicato vari articoli su cinema e letteratura italiana. Suoi interessi di ricerca sono la Sicilia, il postcolonialismo, questioni di gender e race.

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Information

Year
2017
ISBN
9788864534787
Capitolo terzo
TENSIONI COLONIALI NELLE NOVELLE DI VERGA
1. Da “Nedda” ai Malavoglia: l’emergere tematico e stilistico dei subalterni
L’opera di Giovanni Verga (1840-1922)1, rispetto a quella del Capuana, si costituisce come un corpus più omogeneo, sia nella forma (limitata a romanzi, novelle e opere teatrali) sia nei contenuti, per i quali la critica ha tradizionalmente riconosciuto due filoni principali: quello giovanile, caratterizzato da una produzione di tipo borghese e mondano2, e quello dell’età matura, contrassegnato dalla ‘svolta’ o addirittura ‘conversione’3 veristica di cui la novella “Nedda” (1874) per molti critici costituirebbe il punto di cambiamento4. Secondo questa interpretazione, nel passaggio dalle opere borghesi a quelle veriste si registra un mutamento tanto dell’oggetto della rappresentazione, che ora si appunta verso gli strati popolari della Sicilia rurale, quanto nello stile della scrittura5, che dalle novelle di Vita nei campi (1880) al romanzo I Malavoglia (1881) matura nel senso dell’acquisizione di tutti quegli artifici retorici atti a portare la narrazione verso l’impersonalità e l’aderenza all’oggetto rappresentato.
Anche per il presente discorso “Nedda” è punto di snodo fondamentale, non tanto per dimostrare o smentire la tesi che la novella costituisca il momento di svolta all’interno dell’opera verghiana, quanto per tracciare dall’inizio il percorso compiuto dall’autore nella rappresentazione dei personaggi subalterni, essendo la novella il primo scritto verghiano in cui l’universo popolare è protagonista del testo. Il mondo rurale siciliano era, per la verità, già comparso in alcuni dei precedenti romanzi dello scrittore catanese ed è per questo che l’analisi prende l’avvio da uno dei romanzi giovanili più rilevanti dell’autore, Eva. Esso ci consentirà di verificare il passaggio di Verga da una rappresentazione tradizionale e convenzionale della Sicilia, basata sul concetto chiave del pittoresco, a una più critica e problematica in Vita dei campi e I Malavoglia.
Un’analisi di questo genere, pur condotta sotto la prospettiva postcoloniale, non può esimersi dall’affondare le proprie radici nella critica già esistente. Addentrarsi in essa equivale ad avventurarsi in un ginepraio cangiante in dipendenza dal momento storico in cui i vari interpreti si sono cimentati a commentare l’opera dello scrittore siciliano; cosicché accanto al pullulare di articoli e testi critici sono sorte anche diverse antologie – specie negli anni ’70 con il fiorire del filone marxista6 – mosse dall’esigenza di riprodurre un panorama della critica verghiana e di offrire una critica a tale critica, mettendone di volta in volta in luce pregi e difetti, limiti e aperture. I due nodi, in particolare, su cui si è esercitata tale critica sono la questione dello stile e della lingua e quello dell’ideologia verghiana, individuando spesse volte nel primo un riscontro del secondo o nel secondo i motivi delle soluzioni adottate da Verga per il primo7 oppure rilevando l’esistenza di uno scarto tra la sperimentazione linguistica da un lato e l’ideologia conservatrice dall’altro8. Indubbiamente, il fascino dell’opera dello scrittore catanese che si definisce ‘maggiore’ o ‘matura’ o ‘verista’ – salvo poi spesso contestare o problematizzare quest’ultima etichetta –, la produzione, cioè, che va da Vita dei campi a Mastro Don Gesualdo (1889), saltando però quel romanzo di nuovo ‘mondano’ e simile ai testi giovanili che è Il marito di Elena (1882), è l’accostarsi a una tematica – quella dei subalterni siciliani – ‘quasi’ nuova e in modo senza dubbio nuovo. In particolare, cosa che costituisce il vero cruccio critico, il fatto che a compiere una tale operazione fosse un appartenente all’alta borghesia terriera di dichiarate scelte ideologiche e politiche conservatrici, antidemocratiche ed elitarie. Quello che è stato definito come il ‘caso’ Verga nasce, dunque, da questa reale o apparente contraddizione, che ha portato la critica nei decenni a scorgere nello scrittore siciliano posizioni che vanno dal prefascismo9 al socialismo10. L’impasse creata dalla «sproporzione o addirittura l’incongruenza fra il pensiero e la parola, la limitatezza dell’uomo e la grandezza dell’artista, l’umanità del narratore e il codismo reazionario del politico», come l’ha sintetizzata Asor Rosa (1987, 165), è stata superata di volta in volta in vari modi, ponendo ora di più l’accento sugli aspetti stilistici (filone in particolare alimentato dagli studi di Devoto e Spitzer11), ora sul realismo che, di là delle convinzioni politiche dello scrittore, documentando la realtà non poteva, per il parere dei commentatori, che documentare la reale situazione in cui si dibattevano le vite delle plebi siciliane. In questa sede sarebbe troppo lungo e poco funzionale riassumere tutte le posizioni che si sono succedute nel tempo nel tentativo di risolvere il ‘caso’, giungendo a risultati completamente opposti anche rispetto alla definizione dell’ideologia verghiana: Cirese, ad esempio, nel ’55, a conclusione di uno studio sui proverbi presenti ne I Malavoglia affermava che le intenzioni dello scrittore sono storiche (31), mentre Asor Rosa, nella sua ricognizione sulla rappresentazione del popolo nella letteratura contemporanea sosteneva che nello scrittore catanese «c’è una visione di carattere più metafisico che storico» (1979, 59).
In realtà, non è stato sufficientemente notato come il ‘caso’ Verga sia ulteriormente complicato dalle condizioni storiche e dalle dinamiche coloniali presenti nell’Italia post-unitaria: in gioco nella scrittura verghiana non c’è solamente il confronto tra classi diverse e la rappresentazione dei subalterni da parte degli appartenenti ai ceti privilegiati, ma anche l’intrecciarsi dei discorsi di tipo coloniale che si svilupparono all’interno del paese intorno e dopo il 1861. Tenere conto di questi aspetti, arricchisce il quadro e pone lo scrittore catanese e le sue opere nell’intersezione di più elementi che possono aiutare la comprensione del ‘caso’ senza dover ricorrere a forzature ed etichettature legate alla definizione ideologica dello scrittore, alle sue prese di posizione in campo politico e alle interpretazioni finora svolte in questo ambito dalla critica, liberando in questo modo dall’impasse della contraddizione in cui pare cadere la sua opera.
Impostare l’analisi tenendo conto della prospettiva postcoloniale porta a due importanti conseguenze. La prima è di tenere in maggiore considerazione il quadro storico – coloniale – nel quale Verga si trova a scrivere e operare. In molte occasioni, infatti, le figure che lo scrittore rappresenta nelle sue opere migliori assurgono ad archetipi, hanno valore mitico, diventano universali; ciò, però, non elimina il loro radicamento in un ambiente geografico e storico ben preciso e il conseguenziale fatto che, se osservate da vicino, esse siano portatrici anche di tutte le tensioni che investono l’isola nei decenni post-unificazione. In seconda istanza, avvicinarsi di più al contesto storico aiuta ad affondare l’analisi su elementi concreti e a basarsi sul testo, deviando quindi il fulcro dell’attenzione dall’ideologia verghiana che avrebbe informato l’opera. Molte volte, infatti, la critica, soprattutto nell’ambito di quella che si definisce marxista, ha avuto al centro della propria preoccupazione la definizione dell’ideologia verghiana, spesso con l’intento principale di stabilire se essa fosse – e in quale grado – reazionaria o meno, perdendo quasi completamente di vista il testo e astraendosi da un più preciso contesto storico. Propongo, invece, di spostare la critica al di fuori della questione ideologica e situarla, invece, all’interno del contesto storico coloniale.
2. “Nedda”: dalla «novelluccia da niente» alla Sicilia rurale
Alla fine del 1872 Verga si trasferì a Milano, dove risiedette fino al 1893, anche se questa, come si sa, non fu soluzione né definitiva né permanente, ma alternata a frequenti ritorni in Sicilia. Quegli anni furono fondamentali a livello nazionale per l’emergere della questione meridionale: Roma era stata da poco annessa al nuovo stato italiano, divenendone capitale, e la guerra civile legata al brigantaggio (1861-1870) nelle zone meridionali si era appena conclusa con la soppressione delle bande dei contadini e, in reazione, l’aumento dell’emigrazione oltreoceano. Nondimeno, la sconfitta delle rivolte contadine non portò né a una pacificazione in quelle aree né a un miglioramento delle condizioni di vita delle masse rurali, lasciando irrisolti i problemi ereditati dal regno borbonico da una parte e acuiti o creati ex novo dall’annessione italiana dall’altra. Contemporaneamente a questi eventi politici e sociali, nella coscienza nazionale di quegli anni si consolidarono i discorsi meridionalisti intorno alle aree del Sud Italia e la ‘scoperta’ a livello nazionale dell’esistenza del Sud come area diversa e problematica12.
I primi anni di Verga a Milano corrispondono, perciò, al periodo di questa ‘scoperta’, le cui basi erano già state poste durante il processo di annessione (Petrusewicz 1998) ma diventarono discorso comune a livello nazionale negli anni successivi e ricevettero la consacrazione con la fioritura della letteratura meridionalistica inaugurata da Villari, il cui volume Lettere meridionali è del 1875, e dall’inchiesta di Franchetti e Sonnino uscita nel 1876. All’altezza dell’approdo nella capitale lombarda, lo scrittore catanese aveva già pubblicato Una peccatrice (1866) e Storia di una capinera (1871) e stava attendendo alla scrittura di Eva, uscito l’anno successivo (1873) presso Treves. Si tratta di romanzi di argomento e ambientazione derivati dall’esperienza del suo primo soggiorno fuori dall’isola natia, a Firenze, dunque con personaggi di estrazione borghese e aristocratica che per lo più, così come sarà anche per il successivo Eros scritto nel 1874 e pubblicato nel 1875, si muovono tra case di lusso e sfarzose feste private, tra intrighi amorosi e gelosie, pallori e rossori. Molti critici hanno considerato l’importanza di Eva, soprattutto per la prefazione polemica in chiave anti-borghese che accusa l’edonismo e il materialismo della società borghese in cui l’arte è diventata «un lusso da scioperati»13 e conclude che «viviamo in un’atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è l’esuberanza di tal vita» (225). È, per molti, un segno dell’insofferenza di Verga verso la società mondana di Firenze e Milano e il seme dell’imminente ‘conversione’ letteraria che avverrà con il bozzetto “Nedda” del 1874. Per Moe «Eva costituisce un punto di partenza non ortodosso per considerare la rappresentazione della Sicilia da parte di Verga» (in Lumley e Morris 1999, 150) e in questo romanzo, sempre secondo il critico, lo scrittore catanese propone una visione pittoresca dell’isola, denunciata dalla scena in cui Eva chiede a Enrico Lanati, giovane pittore siciliano trasferitosi a Firenze, un suo quadro nel quale sono raffigurati i faraglioni della spiaggia di Aci Trezza14. A questo momento del romanzo si dovrebbe anche aggiungere l’emblematico finale: Enrico, malato terminale, decide di tornare al proprio paese e morire nella campagna siciliana tra gli affetti familiari e toni piuttosto patetici e insistiti sul sentimentalismo15. È evidente il contrasto tra la mondana Firenze, luogo di feste, sfarzi, amori irregolari, passioni sfrenate, ispirazioni artistiche e vita frenetica, e la tranquilla campagna siciliana, dove regnano la quiete, l’affetto familiare, profondo, sano e misurato, posto ideale in cui trovare la pace – e se stessi – prima della morte.
La Sicilia, in effetti, agli occhi dell’esule Verga si configura spesso come luogo di «sereno raccoglimento» (in Perroni 1940a, 120), così come indicato nella lettera a Capuana del 1879 a proposito dei Malavoglia; ma proprio la capacità di superare questa visione idealistica renderà pregio agli scritti migliori del catanese. Se è pur vero, infatti, che inizialmente Verga sfrutta l’immagine pittoresca della Sicilia nel modo in cui si era andata costruendo per secoli nei discorsi dei viaggiatori del Grand Tour poi fatti propri anche all’interno della penisola dopo l’unificazione (Bertellini 2010), lo scrittore catanese dai romanzi giovanili ai Malavoglia lavora su questo aspetto cambiando significativamente l’utilizzo del pittoresco all’interno delle proprie opere: in Eva, come abbiamo visto, lo sfrutta e reitera, mentre nelle novelle di Vita dei campi lo adotterà attraverso quello che Bertellini definisce una «appropriazione ironica e spesso sovversiva» (50 trad. mia)16 da parte di scrittori e arti...

Table of contents

  1. Introduzione
  2. Capitolo primo
  3. Capitolo secondo
  4. Capitolo terzo
  5. Capitolo quarto
  6. Conclusioni
  7. Bibliografia
  8. Ringraziamenti