Sezione prima
LA SPIRITUALITÀ HINDU
Sanātana-dharma*
satyaṃ vada
dharmaṃ cara
svādhyāyān mā pramadaḥ
TU I,11,1
Di’ la Verità.
Pratica il dharma.
Non tralasciare di meditare.
* Ed. or. Espiritualidad hindú. Sanātana dharma, Kairós, Barcelona 2005; in italiano: Il dharma dell’induismo, Rizzoli, Milano 2006. Traduzione dallo spagnolo di Milena Carrara Pavan.
Qualunque cosa tu faccia, mangi, offra in sacrificio, elargisca in elemosina o pratichi come austerità, oh figlio di Kuntī, fallo come offerta a me…
Chi mi ama non si perde.
BG IX,27 e 31
Lo Spirito soffia dove [quando e come] vuole.
Gv 3,8
Molta acqua è scorsa nel Gange dalla mia prima immersione iniziatica nella cultura e religione dell’India. Dopo la praxis, indotta dalla mia biologia e dal mio karman, venne la theōria, indotta dalla mia vita intellettuale per assimilare criticamente la mia esperienza. Sentivo però anche la necessità di uno studio sistematico e meno carico del mio precedente linguaggio cristiano. Questo libro ne è il risultato.
Una circostanza del tutto casuale nel mio cammino ha fatto sì che mi rendessi conto che, malgrado i molti scritti sull’induismo, un’esposizione didattica e sintetica poteva ancora essere utile1.
Ho pensato che avrei potuto dedicarmi ad aggiornare un vecchio scritto sulla spiritualità hindū che allora mi era servito per raggiungere una visione unitaria della religione dei miei antenati come guida intellettuale alla mia personale immersione in quella religiosità. Rispolverare questo scritto dopo quarant’anni mi era parso un compito relativamente facile, nella convinzione di rendere un buon servizio a quei lettori che, assetati di spiritualità, sono alquanto delusi dalle religiosità routinarie. Debbo confessare che il tempo e lo sforzo sono stati molto maggiori di quanto mi aspettassi. Il compito stesso di rileggere il mio stesso scritto non è stato facile come quello del correttore di bozze che corregge la forma grammaticale o migliora lo stile. Ho dovuto rimeditare ogni riga e riattualizzare l’esperienza che mi aveva portato a scriverla – modificando, di conseguenza, il testo.
Alcuni amici mi hanno detto che forse era una perdita di tempo in questo stadio della mia vita. Anche se il tempo non si perde, dedico questo tempo «perso» ai miei possibili lettori. Sono inoltre convinto che l’anno dedicato a rinforzare questo trampolino mi ha permesso di consolidare anche altri punti, consentendomi di realizzare con maggior competenza e agilità il salto spirituale che la nostra epoca esige: l’avventura, infatti, non è individuale ma di tutta l’umanità.
Benché sia convinto di aver superato la tentazione di fare del bene, penso che questo libro potrebbe venire incontro al legittimo interesse dell’Occidente verso altre forme di spiritualità. Ho perciò tentato, nella forma più descrittiva possibile, senza elogi o detrazioni, di illustrare i tratti fondamentali della spiritualità hindū. Per questo stesso motivo ho ampliato il libro e aggiunto delle note che possono orientare su temi solo accennati nel testo. Con ciò credo di aver collaborato a contrastare l’epidemia di superficialità che ha permeato la cultura contemporanea.
Questo libro, dunque, è stato pensato come un’introduzione al dharma hindū alla portata di ogni tipo di lettore e, al contempo, come un’opera di consultazione per chi desideri approfondire questa problematica tanto vasta. Per troppo tempo una certa moda ci ha fatto credere che possiamo «avvicinare» questa spiritualità con uno sforzo minimo.
Dicendo hindū intendiamo riferirci a un fascio di religioni del subcontinente indiano che fioriscono anche in gran parte dell’Asia del Sud. Non dimentichiamoci che l’induismo non ha un fondatore.
Dicendo «dharma hindū» ci riferiamo a qualcosa che ha la pretesa di non avere altre frontiere che quelle umane2, a qualcosa che non ha limiti fissati a priori e quindi senza frontiere dottrinali rigidamente delimitate. Il dharma hindū è in relazione trascendentale, direbbe la filosofia, con un modo concreto di incarnare la spiritualità umana.
Il genio occidentale tende a vedere l’albero e a non vedere il bosco altro che come concetto astratto. Gran parte del genio orientale tende a gioire del bosco, dimenticando i singoli alberi. Il «dharma hindū» rappresenta piuttosto il bosco umano della spiritualità in vari modi concreti di cercare di essere pienamente uomo. Possiamo interpretare una «spiritualità calvinista», per esempio, mediante le sue differenze e questo sarebbe legittimo, soprattutto perché è così che i rappresentanti di questa spiritualità interpretano se stessi. Ciò che capita con l’autocomprensione hindū è tutto il contrario: l’hindū non si autointerpreta per ciò che lo distingue, ma per lo sfondo umano comune, anche se con un carattere preciso che si considera secondario. Se lo si fosse compreso, si sarebbero evitati nel corso della storia tragici malintesi. Parleremo quindi anche del sanātana-dharma.
L’immagine del cosiddetto «albero di Porfirio» che sta alla base dell’autocomprensione occidentale e il cui esempio più evidente è l’ingente edificio della scienza moderna, non serve per capire la spiritualità hindū. Essa non è una spiritualità accanto ad altre in una classificazione porfiriana: quacchere, calviniste, sciite, baha’i, secolari, in giustapposizione le une alle altre. Gli elementi chimici si possono classificare così come i concetti, perché un elemento non è un altro, né un concetto dev’essere confuso con un altro. A rigore, però, le spiritualità non si lasciano classificare con questo metodo di esclusione. I tratti distintivi di una spiritualità sono peculiari di quella, ma la spiritualità hindū non è a suo agio se la si classifica con questo metodo. Si sente umana più che «hindū», anche se, vista dal di fuori, se ne possono scoprire i tratti caratteristici. E ciò che è caratteristico – checché ne dica Porfirio – non è detto che sia l’essenziale. È significativo che l’Occidente abbia identificato l’essenza con la differenza specifica.
Questa caratteristica della spiritualità hindū non la rende universale, come pretenderebbero alcuni, ma consente, più chiaramente che in altri casi, di scoprire aspetti della propria identità che erano rimasti in penombra. Questo libro, dunque, può aiutare anche ad approfondire la propria identità. Toccherà al lettore scoprire se quel modo di vivere la vita gli dice anche qualcosa che possa essere messo in atto, senza per questo «convertirsi» all’induismo come ci si trasferisce da un club a un altro. Anche se le note e alcuni passi potranno sembrare un po’ «accademici», a causa della scrupolosità dell’autore, questo libro potrebbe anche essere presentato come un «Trattato di spiritualità» da un punto di vista concreto, vale a dire proprio del subcontinente indiano.
Sia in India come in altre latitudini, una determinata concezione della spiritualità è stata a volte interpretata come scusa, o almeno come palliativo, per prendere le distanze dai problemi politici della società, lasciando il mondo alle dispute dei «mondani». Questo pericolo è reale, ma un estremo non giustifica l’altro. Sta al kairos di questo millennio, tanto in Oriente quanto in Occidente, recuperare la dimensione sacra della secolarità che altrove ho definito «secolarità sacra» da non confondersi con «secolarismo».
Ciò di cui il nostro tempo ha bisogno con urgenza dopo secoli, e a volte millenni, di separazione tra questo e l’altro mondo, tra religione e politica, è proprio l’armonia di queste due dimensioni dell’essere umano. I monismi, religiosi o politici, non risolvono i problemi odierni (come non l’hanno fatto mai). Proprio l’a-dualità o advaita è la chiave che la spiritualità hindū ha elaborato in forma tematica. Ciò che il mondo attuale reclama, con le grida di più della metà dell’umanità, che spesso non vogliamo udire, non è una semplice riforma delle istituzioni, ma una trasformazione radicale del significato stesso della vita. Questa trasformazione non può essere violenta, non solo per motivi etici ma anche pragmatici: sarebbe controproducente.
È questo il ruolo dell’autentica spiritualità. Le rivoluzioni non durano a lungo, e i vincitori che si sono autoproclamati tali non hanno mai vinto alla lunga in questo mondo. I deboli, con pazienza e sofferenza, l’hanno sempre avuta vinta. È un fatto empirico. Talvolta però capiamo meglio la lezione con la testa altrui e indirettamente che non mediante gli indottrinamenti dei pedagoghi o sedicenti tali.
Non mi sembra dunque di aver sprecato il mio tempo rivedendo questo scritto che spero aiuti il lettore ad attuare questa trasforma...