L'Italia di Giolitti - 1900-1920
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L'Italia di Giolitti - 1900-1920

La storia d'Italia #10

Indro Montanelli

  1. 448 pages
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L'Italia di Giolitti - 1900-1920

La storia d'Italia #10

Indro Montanelli

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Dall'omicidio di Umberto I per mano dell'anarchico Bresci fino al "Natale di sangue" di Fiume, la scena politica italiana è dominata da un unico uomo, l'ultimo di quei notabili che avevano guidato il Paese dopo l'unificazione: Giovanni Giolitti. È lui a fermare l'involuzione autoritaria in cui rischiavamo di cadere dopo il regicidio, e a lui si devono il nostro primo miracolo economico, la nascita della grande industria e un'intelligente politica sociale. Giolitti guida l'Italia attraverso un ventennio ricco di sfide, in cui i nuovi schieramenti - socialisti, cattolici, anarchici, liberali - si sono ormai consolidati e danno vita ad accesi scontri, l'attività sindacale prende corpo grazie alla nascita della Confederazione generale del lavoro, e per la prima volta viene realizzato il suffragio universale maschile che permette alle masse di entrare attivamente nella vita dello Stato. Ma sono anni travagliati, rigati di sangue: la conquista della Libia, la Prima guerra mondiale, l'impresa fiumana di D'Annunzio e dei suoi legionari. Crisi profonde, che segnano la sconfitta non solo di una classe politica, ma di tutto il sistema liberal-democratico, mentre la società si riscopre mutata dall'esperienza della trincea. Indro Montanelli dipinge davanti ai nostri occhi non solo il ritratto di un uomo politico, ma anche quello di tutta una civiltà spinta dalla storia sull'orlo del baratro dittatoriale.

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Information

Publisher
BUR
Year
2013
ISBN
9788858642924

L’ITALIA DI GIOLITTI

AVVERTENZA

Mi sembra superfluo spiegare al lettore perché a questo volume, che abbraccia i due primi decenni del Novecento, dal regicidio di Monza al «Natale di sangue» di Fiume, ho dato per titolo L’Italia di Giolitti. Nessuno può contestare che sia stato lui, ultimo grande notabile, a dominare questo periodo, non soltanto sul piano politico, ma anche su quello del costume. E nessuno può nemmeno contestare che la sua caduta segnò quella del regime liberale e delle sue democratiche istituzioni.
L’avvenimento che fece precipitare la crisi – su questo mi pare che la storiografia sia pressoché unanime – fu l’intervento in guerra. Ed ecco perché a esso ho dedicato tanti capitoli, ma tenendo l’occhio fisso, più che ai fatti militari, alle loro conseguenze economiche e sociali. Al di là della vicenda dello Stato Maggiore, mi ha interessato quella del fante perché la trasformazione della società italiana avvenne in trincea. Fu attraverso la trincea che le masse irruppero sulla scena politica e ne diventarono protagoniste sovvertendone quel tradizionale assetto di cui Giolitti era l’incarnazione e il garante.
Il lettore si stupirà del poco rilievo che ho dato a Mussolini. Ma il fatto è ch’egli comincia quando il libro finisce, e quindi mi riservo di prendere daccapo il filo della sua avventura nel prossimo volume che si chiamerà appunto L’Italia di Mussolini. Non so se riuscirò a completarlo per l’anno venturo. Temo proprio di no, ora che la professione di giornalista mi richiama in servizio a tempo pieno. In tal caso, spero che i lettori mi perdoneranno l’infedeltà al solito appuntamento natalizio. Per una volta, una dilazione me la possono concedere.
Come al solito, debbo chiedere scusa delle molte cose che mancano al panorama di questo ventennio. Ma non ne conosco nessuno che possa dirsi completo. Ogni libro di storia è il frutto di una scelta, e anch’io ho dovuto fare le mie: se qualcuna ne ho sbagliata, il lettore mi usi indulgenza.
Infine, un ringraziamento alla signora Maria Stella Signorini Sernas per il valido e intelligente aiuto che anche stavolta mi ha dato nelle ricerche.
I.M.
Ottobre 1974

PARTE PRIMA

CAPITOLO PRIMO

IL NUOVO RE

L’uccisione di Umberto avvenuta a Monza il 29 luglio del 1900 riempì l’Italia di esecrazione e di paura. Anche coloro che più avevano motivi di scontentezza nei confronti del cosiddetto «sistema» compresero che quel pover’uomo assassinato a freddo mentre se ne tornava da una gara sportiva aveva pagato colpe non sue. Anche se non era stato un gran Re, non aveva demeritato il titolo di «buono» che – forse in mancanza di meglio – gli era stato appioppato. «Gli volevamo più bene di quanto credessimo» scrisse un liberale, Papafava, che non gliene aveva mai mostrato molto. Il repubblicano Bovio dichiarò che accorciando di qualche anno la vita di Umberto si era allungata di parecchi decenni quella della monarchia. E gli stessi socialisti si guardarono dal solidarizzare col regicida. Turati si rifiutò di assumerne la difesa in tribunale, e l’«Avanti!» lo definì «un pazzo criminale». A esaltarne il gesto ci fu solo un frate, e francescano per giunta: don Giuseppe Volponi, e l’episodio non era affatto casuale: nell’odio contro l’Italia laica risorgimentale, di cui il Re era l’incarnazione, i preti battevano anche gli anarchici.
I funerali si svolsero il 9 agosto, secondo il solito cerimoniale. Apriva il corteo il generale Avogadro recando la spada del Re che gli era morto fra le braccia. Poi, su un affusto di cannone tirato da sei cavalli, veniva il feretro su cui posavano l’elmo piumato del defunto, una bandiera di combattimento, una sola corona con tre nomi: Margherita, Vittorio, Elena. Seguiva il cavallo preferito di Umberto. Poi, dopo la banda coi tamburi velati di nero, il nuovo Re, solo, alcuni passi avanti al folto stuolo dei Principi italiani e stranieri, e tutte le alte gerarchie dello Stato.
Nonostante fosse un giovedì e un caldo torrido, due fitte ali di folla si assiepavano lungo il percorso. Ma quale fosse il suo stato d’animo, lo dimostrò l’ondata di panico di cui fu improvvisamente preda e che si risolse in un generale fuggi-fuggi al grido di: «Gli anarchici!». Gli anarchici non c’entravano. Era stato solo un mulo degli alpini che, imbizzito, aveva strappato la cavezza di mano al conducente. Ma tale era il terrore delle «belve umane» seminato dai giornali, che ci scappò un morto e una quarantina di feriti. Ne fu contagiato anche il manipolo dei Principi, da cui si vide balzare un omaccione in brache e ciocie come un pastore per precipitarsi a far scudo del suo corpo al nuovo Re. Era suo suocero, Nicola del Montenegro.
Due giorni dopo, mentre la folla romana seguitava a sfilare dinanzi alla bara tuttora esposta nel Pantheon, Vittorio Emanuele si presentava alle due Camere riunite nella grande aula del Senato parata a lutto per prestare il giuramento e fare le prime dichiarazioni. Tutti si aspettavano qualche accenno al regicidio e l’annuncio di misure repressive. Ma non ci fu niente di tutto questo. Come non aveva versato una lacrima sul cadavere del padre, così non ci fu da parte sua se non qualche parola convenzionale di cordoglio, subito seguita da una energica affermazione di fiducia nei princìpi liberali. I progressisti ne complimentarono il capo del governo Saracco, ritenuto autore di quella allocuzione. Ma questi dovette ammettere che, dopo avergliene commissionato il testo, il Re lo aveva disfatto e rifatto a suo modo. Dopodiché aveva detto che non c’era bisogno di leggi speciali né di speciali magistrature, neanche per giudicare il regicida. Dopo che Bresci fu condannato all’ergastolo, fece assegnare un sussidio alla moglie e alla figlia rimaste in America.
Il nuovo Re era nato l’11 novembre del ’69 a Napoli dove suo padre, tuttora Principe ereditario, era stato mandato per conquistare alla casa Savoia gli ex sudditi dei Borbone. Privo di calore e di colore, Umberto non era molto adatto al compito. Ma Margherita lo svolse a meraviglia, e fra le tante sue trovate per toccare il cuore di quella città ci fu anche l’attribuzione al neonato del nome Gennaro dopo quelli di Vittorio Emanuele e Ferdinando per ragioni di famiglia, e di Maria per addolcire la Chiesa con cui i rapporti restavano pessimi.
Il parto era stato laborioso e qualcosa doveva essere andato storto perché i medici pronosticarono che la puerpera non avrebbe potuto avere altri figli, come infatti avvenne. Ma il neonato appariva, come dimensioni e peso, assolutamente normale: e di questo fu subito informato l’ansioso nonno che giaceva a Firenze ammalato. Per l’allattamento, il piccino fu dato in appalto a una balia locale, e per la prima educazione a una nurse irlandese, Elizabeth Lee, vedova di un ufficiale britannico, e naturalmente cattolica perché la devota Margherita non avrebbe mai accettato una protestante. Elizabeth, detta Bessie, rimase quattordici anni col suo pupillo, e fu una delle poche creature che questi abbia amato.
Il piccolo Principe aveva dieci mesi quando i cannoni di Cadorna sfondarono Porta Pia, e aveva da poco compiuto un anno quando fu trasferito a Roma al seguito dei suoi genitori. Naturalmente la sua memoria non registrò quegli avvenimenti. Ma registrò una frase di suo padre che un giorno, additandolo all’ambasciatore Tornielli, esclamò in tono di scherno: «Guardi che bei frutti danno i matrimoni fra parenti!».
Effettivamente, come frutto, Vittorio Emanuele non era da vetrina. Era cresciuto, ma solo di testa e di tronco. Di arti era rimasto sottosviluppato, e sulle gambe rachitiche si reggeva a stento: «Me le sento di vetro» diceva a Bessie. Che questo dipendesse dalle consanguineità ancestrali, è molto probabile. Anche suo padre, figlio di due cugini, aveva sposato una cugina. Comunque, il ragazzo si rendeva conto della propria anomalìa, ne soffriva, e i genitori non facevano nulla per alleviargli la pena. Un po’ perché priva di senso materno, un po’ perché assorta dai suoi compiti di grande hostess del Quirinale, un po’ perché forse si vergognava di aver messo al mondo un prodotto così avariato, Margherita si occupava ben poco di lui. E quanto a suo padre, lo trattava come lui stesso era stato trattato dal padre suo, e come del resto era regola in casa Savoia: con una freddezza che poteva arrivare alla brutalità.
Tutto questo non poteva non avere riflessi sul carattere del piccolo Principe. Anche se nell’infanzia egli covò entusiasmi e abbandoni, questo trattamento glieli spense. Un giorno che sua madre, in vena di tenerezza, gli propose una passeggiata per le vie di Roma, le rispose: «E dove vuoi andare a mostrarti con un nano?». Ad aprirsi, non trovava aiuto nemmeno negli amici. Gliene concedevano alcuni solo la domenica, ma scelti unicamente secondo il rango e dietro impegno di non dimenticarsi che avevano a che fare col futuro Re. E da futuro Re il Principino li trattava. «Oggi non si giuoca perché è l’anniversario della battaglia di Novara» disse loro una volta congedandoli, e non aveva che sette anni. La sola che riuscì a stabilire con lui un rapporto abbastanza confidenziale fu una ragazza dell’aristocrazia piemontese, Daisy Francesetti de Hautecour, che con la sua schiettezza seppe vincerne la ritrosia. Da vecchia essa lo ricordava come un bambino timido, cosciente della propria inferiorità fisica, ma smanioso di nasconderla e di rivalersene in qualche modo. Malgrado i lancinanti dolori ai piedi ingabbiati nelle scarpe ortopediche, si sforzava di ballare e di stare correttamente in sella. Ma soprattutto si accaniva sui libri. Fin d’allora sfoggiava una memoria quasi prodigiosa, di cui si serviva per confondere e prendersi qualche rivincita sul suo aitante ma ignorantello cugino, il Duca d’Aosta, di cui era e sarebbe sempre rimasto geloso.
Aveva nove anni quando tornò in visita a Napoli con suo padre, da pochi mesi salito al trono, sua madre, e il capo del governo Cairoli. In carrozza, questi si accorse di dare la sinistra al Principe, e fece per cambiar di posto, ma Umberto lo trattenne. Fu per questa svista di cerimoniale ch’egli poté interporre il proprio corpo fra quello del Re e il pugnale del cuoco Passanante. Il piccolo Principe ebbe la sua divisa di marinaretto imbrattata dal sangue di Cairoli. Rimase, dicono, impassibile, e ci crediamo: di coraggio fisico non fu mai a corto. Ma l’episodio dovette fargli una certa impressione e insegnargli qualcosa sugl’incerti del mestiere di Re. Agli omaggi dei sudditi e alle loro proteste di fedeltà non credette mai.
Su consiglio del Principe ereditario di Germania, grande amico di Umberto e Margherita, a fargli da precettore fu chiamato il colonnello Osio, addetto militare della nostra ambasciata a Berlino, al quale sono state attribuite molte colpe pedagogiche. Si è detto che plagiò il suo pupillo e ne lesionò definitivamente il carattere terrorizzandolo e mortificandone gli slanci. Si è detto che anche sul suo fisico ebbe pessima influenza costringendolo a penosi e logoranti sforzi. Si è detto che furono i suoi metodi repressivi a creare nel Principe quei complessi d’inferiorità da cui fu sempre afflitto, a traumatizzarlo, a inaridirlo, a riempirne l’animo di sordi rancori.
Ma se non proprio di falsità, si tratta di verità contraffatte. Militare dalla testa ai piedi, Osio era un uomo duro, imperioso, abituato al comando. «Il Principe è libero di fare tutto quello che voglio io» diceva. Ma era anche un gran signore, perfetto uomo di mondo, e nutrito di buone letture. Sebbene la sua carriera potesse esserne notevolmente avvantaggiata, esitò molto ad accettare l’incarico, vi si risolse solo dietro garanzia che nemmeno i genitori avrebbero più interferito nell’educazione del ragazzo, di cui egli diventava unico e assoluto responsabile, e al termine della sua missione non beneficiò di nessuno «scatto di grado». Quanto ai sentimenti di ribellione e di animosità ch’egli avrebbe suscitato nel pupillo, è un fatto che le uniche lettere di Vittorio Emanuele in cui si avverte un palpito di affettuosa e rispettosa gratitudine sono quelle ch’egli seguitò a scrivere al suo ex precettore, il quale gli rispondeva seguitando a sua volta a trattarlo da ex pupillo. Quando Morandi, scelto da Osio come insegnante di lettere, pubblicò un libro pieno di piaggerìe per il Principe e di velenose insinuazioni contro Osio che gli aveva affidato quell’incarico, Vittorio Emanuele scrisse al colonnello: «Ha visto il libro di Morandi? Non avrei mai pensato che si potessero stampare tante ridicolaggini».
La verità è che i metodi di Osio, per quanto duri, e forse proprio per questo, erano i più congeniali all’allievo. Certi suoi caratteri erano ereditari, e quindi irrevocabili: la diffidenza e l’orgoglio dinastico. A dieci anni, sapeva già a memoria l’albero genealogico e l’ordine di successione dei Savoia da Umberto Biancamano in giù. Di suo, aveva in più un certo interesse per la cultura, ma concepita soltanto come cumulo di nozioni, di date e di dati. Fu il primo Savoia a saper scrivere l’italiano senza sfondoni. Ma era assolutamente privo di fantasia e refrattario alle idee generali. Quando andava a visitare una mostra di pittura, l’unica cosa di cui s’informava erano i dati anagrafici di opere e di autori. Quanto alla musica, una volta disse che per lui n’esistevano due sole: la Marcia Reale e la nonMarcia Reale. Della letteratura, detestava tutto ciò che puzzava di retorica: il che, di una letteratura come quella italiana, gli consentiva di apprezzare ben poco. Per i giornalisti aveva un’antipatia istintiva e irriducibile: li chiamava «parolai», s’indignava delle loro inesattezze, e non capiva perché i giornali non si limitassero alla pubblicazione delle notizie e degli atti ufficiali.
Alla dura disciplina che per otto anni Osio gl’impose non si ribellò mai, sebbene gli esercizi fisici, e soprattutto il cavallo, gli costassero atroci dolori di gambe e di piedi. La pedagogia di casa Savoia era sempre stata spartana, e che nelle sue particolari condizioni fosse controindicata è smentito dal fatto che il suo corpo stortignaccolo e meschinello si rivelò resistentissimo alle fatiche, godette sempre ottima salute, e fece di lui il più longevo di tutti i Re Savoia. In una giornata che cominciava all’alba e che fra lezioni ed esercizi non gli dava tregua fino alle nove di sera, non c’era posto per svaghi e divaghi. Tuttavia quando gli fecero dono di una macchina fotografica col soffiettone, ne fece uno dei suoi due hobby, cui resterà fedele per tutta la vita. L’altro era la numismatica, cui si appassionò fin dai dieci anni, quando gli regalarono un soldo di Pio IX. Ciò che gli piaceva delle monete non erano i pregi estetici, ma il destro che gli offrivano di ricostruirne a vista l’anagrafe: epoca, paese eccetera. Forse non era soltanto pignoleria, ma anche un’istintiva reazione polemica a quelli ch’egli sempre considerò i peggiori difetti nazionali: il pressappochismo, la faciloneria, il dilettantesimo.
«Si ricordi che il figlio di un Re, come il figlio di un calzolaio, quando è asino, è asino» gli aveva detto Osio insediandosi nella sua carica di precettore. Ma non ebbe bisogno di ripeterglielo spesso perché il pupillo dimostrò una vocazione financo eccessiva al lavoro di tavolino. Un po’ perché si vergognava della sua miseria fisica, un po’ per le pene che gli procurava il camminare e più ancora il cavalcare, preferiva la vita del topo di biblioteca. Anzi, ci si sentiva così vocato che, da quanto egli stesso raccontò tanti anni dopo al suo aiutante di campo Puntoni, chiese a suo padre di esentarlo dalla successione e di lasciarlo alla sua prediletta attività di sommozzatore di archivi. L’unico esercizio all’aria aperta che gli piaceva era la caccia. Fu subito un buon fucile. Ma per via di quelle maledette «gambe di vetro», lo usava solo da fermo, alla «posta». Come aveva, stringendo i denti, imparato a cavalcare, così imparò anche a ballare, e pare che lo facesse anche con una certa grazia. Ma appena salito al trono, abolì i balli di Corte.
A completamento della sua educazione, Osio lo condusse a fare i soliti giri in Europa. Per conservare l’incognito, il Principe aveva un passaporto intestato al Conte di Pollenzo, lo stesso nome che adottò partendo per l’esilio. Visitò un po’ tutti i Paesi guardando ciò che Osio gli diceva di guardare e stendendone ogni sera per iscritto il bilancio in resoconti minuziosi, corredati di tutti i particolari – di clima, di orario, di prezzi –, ma assolutamente privi d’impressioni e opinioni. Vedeva il mondo come lo vedeva la sua Kodak, e senza mai uscire dal binario che il precettore gli tracciava. È lecito supporre che, fin quando rimase sotto la sua giurisdizione, cioè fino ai vent’anni, non conobbe altre donne che quelle che frequentavano la Corte, né ebbe con loro altro rapporto che il baciamano.
Osio prese congedo da lui nel 1889, quando ormai erano pari grado. Iscritto pro forma al collegio militare della Nunziatella, il Principe aveva avuto la carriera rapida di tutti i figli di Re: sottotenente di fanteria a diciassett’anni, a venti era colonnello come il suo precettore, dalla cui tutela veniva ora emancipato. A quanto pare, non la considerò una liberazione. Per quanto severo sino alla crudeltà, Osio era stato in quegli otto anni l’unica persona con cui aveva avuto un rapporto umano. Coi genitori si era ritrovato solo due volte la settimana, il giovedì e la domenica, a pranzo. Non aveva mai fatto loro confidenze, né mai ne aveva ricevute. In quell’immenso Quirinale, di cui detestava la solennità, il lusso e le cerimonie, aveva vissuto da estraneo. Ma anche questo era in perfetto stile Savoia. Dopo che Osio se ne fu andato, seguitò a scrivergli quasi tutti i giorni. Quando i giornali riportarono la notizia del suo matrimonio e ironizzarono sul fatto che la sposa aveva venticinqu’anni meno di lui, il Principe ne fu furioso come di un insulto alla propria persona.
È difficile dire se per la vita militare avesse un vero trasporto. Ma da quando Crispi, avendolo visto una sera a cena in un ristorante romano, aveva raccomandato al Re di proibirgli gli abiti civili, non aveva quasi mai più smesso la divisa. Per risparmiargli l’umiliazione di venire scartato, si era dovuto abbassare di alcuni centimetri il già basso minimo di altezza richiesto. E ora, per fargli far pratica di comando, gli venne affidato quello del 1º reggimento di fanteria a Napoli.
Furono i suoi anni più belli. Strano a dirsi, Vittorio Emanuele amava Napoli, ne parlava benissimo il dialetto, e napoletano fu l’unico amico al quale concesse il tu: il principe Nicola Brancaccio. Fu lui a istradarlo nella vita segreta di Napoli, che non era quella dell’alta società, ma dei camerini di teatro e di certi salotti e salottini che di rispettabile avevano solo la facciata. Il povero prefetto Basile ebbe il suo daffare a seguire le piste dei due giovanotti e stabilirvi misure di sicurezza. Ma i suoi rapporti, invece di allarmarli, rallegravano il Re e la Regina, i quali avevano sempre temuto che il loro erede non fosse in grado di procurarne altri alla dinastia. Il sole di Napoli e la contagiosa allegria di Brancaccio avevano sciolto la ritrosia del Principe, che mostrava anzi notevole intraprendenza. Per fare fronte agl’impegni d...

Table of contents

  1. L’Italia di Giolitti
  2. Copyright
  3. Premessa di Sergio Romano
  4. L’italia di Giolitti
  5. Appendice
  6. Indici
  7. Sommario
  8. Tavole
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Montanelli, I. (2013). L’Italia di Giolitti - 1900-1920 ([edition unavailable]). RIZZOLI LIBRI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3304514/litalia-di-giolitti-19001920-la-storia-ditalia-10-pdf (Original work published 2013)

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Montanelli, Indro. (2013) 2013. L’Italia Di Giolitti - 1900-1920. [Edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. https://www.perlego.com/book/3304514/litalia-di-giolitti-19001920-la-storia-ditalia-10-pdf.

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Montanelli, I. (2013) L’Italia di Giolitti - 1900-1920. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. Available at: https://www.perlego.com/book/3304514/litalia-di-giolitti-19001920-la-storia-ditalia-10-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Montanelli, Indro. L’Italia Di Giolitti - 1900-1920. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI, 2013. Web. 15 Oct. 2022.