Sembrava improbabile che un posto come la piccola città di Taba avesse contribuito alla storia giuridica internazionale. A circa un’ora da Kigali, in direzione sud, dopo aver attraversato risaie di un verde scintillante e costeggiato il nastro marrone del fiume Nyabugogo, che inondava la strada, l’asfalto si interrompeva bruscamente ai piedi di una collinetta. In cima c’era una strada rossa, fangosa, la via principale di Taba, affollata di donne con kiytenges, stole di cotone coloratissime, che vendevano pomodori, cetrioli e carte telefoniche prepagate; di capre che gironzolavano liberamente; e di uomini in sella a biciclette dipinte con colori sgargianti, la variante locale dei taxi. Fiori di ibisco bianchi e rosa sbocciavano ai lati del marciapiede, e un bucero dal becco giallo lanciava le sue strida dai rami di un banano.
Ad aspettarmi c’era una donna alta, sulla cinquantina, con gli zigomi incavati e una fessura tra gli incisivi, Victoire Mukambanda. È salita sul mio taxi, e sobbalzando su un sentiero sterrato abbiamo proseguito fino a casa sua, lungo uno dei verdi pendii terrazzati. Il Ruanda è noto per essere «la terra delle mille colline», e lo scenario circostante era molto gradevole, costituito da valli profonde e alture ondulate con banchi di nebbia. Poi Victoire ha cominciato a indicarmi case simili a scatolette: «Qui sono morti i maestri, là hanno sparato a tutta la famiglia... C’erano solo tutsi, dalla prima all’ultima casa, e li hanno uccisi tutti».
Su, sulla sommità delle colline, c’erano i boschetti di banani in cui lei si era nascosta sotto la pioggia torrenziale. «Sono morta tante volte, tra quei banani. Ho pregato Dio che mi facesse morire. Sapevo che i miei genitori erano stati uccisi perché gridavano i nomi dall’alto delle colline. Ho sentito i nomi dei miei quattro fratelli e di mia sorella. A tratti li ho uditi gridare anche il mio tra quelli delle persone ancora da scovare.
«Era gente che conoscevo, vicini di casa in realtà, che si comportavano come animali. Hanno ucciso migliaia di tutsi. I machete che usavano con le persone erano gli stessi che impiegavano per il grano e per le mucche: non gliene importava niente.»
Alla fine il nostro autista si è arreso di fronte al sentiero fangoso, e l’ultimo pezzo l’abbiamo fatto a piedi. Nuvole tonanti si stavano ammassando sopra di noi. Dappertutto si udivano uccelli cinguettanti e il cra-cra di un corvo dal petto bianco che annunciava il nostro arrivo.
Abbiamo raggiunto una casa tozza con le pareti di argilla, un tetto in lamiera ondulata e nessuna finestra. Dietro c’era un piccolo annesso dove un ragazzino si prendeva cura di una mucca jersey bianca e nera, che muggiva legata: l’assegnazione di una mucca a ogni sopravvissuto al genocidio era parte di un piano governativo.
La casa aveva due stanze, una camera da letto con un materasso sporco sul pavimento e un soggiorno in cui gli unici mobili erano un divano marrone e un tavolino, e gli unici ornamenti una foto del presidente Kagame e un calendario di due anni prima.
Fuori ha cominciato a piovere, gocce giganti colpivano la lamiera ondulata come manciate di pietre.
Pioveva così anche nell’aprile 1994, quando è cominciata la stagione di massacri che ha visto trucidare in un centinaio di giorni un decimo dei compaesani di Victoire, inclusa gran parte della sua famiglia, perché tutti quanti erano diventati o prede o cacciatori.
Siamo sprofondate nel divano marrone, e Victoire ha iniziato a raccontarmi ciò che ricordava. «Sono cresciuta qui a Taba e la vita era facile, prima» ha detto. Come tutti quelli che ho incontrato in Ruanda, si riferiva all’epoca precedente al genocidio semplicemente come a «prima».
«I miei genitori erano contadini e avevano molta terra in cui allevavano mucche e coltivavano fagioli, patate, manioca, arachidi, aranci e alberi di mango, papaya e maracuja. Andavo a scuola e mi piaceva moltissimo, ma ho potuto continuare solo fino al termine delle elementari, perché il governo ci discriminava in quanto tutsi, ed era scritto sui nostri documenti di identità. Eravamo una piccola minoranza e subivamo continue prevaricazioni. Anche se superavi gli esami per entrare alle superiori, ti sostituivano con uno studente hutu che aveva ottenuto risultati peggiori.
«Ci insegnavano che hutu e tutsi erano razze diverse. Dicevano che gli hutu erano il vero popolo del Ruanda, mentre noi tutsi eravamo invasori venuti dall’Etiopia. Era molto umiliante essere tutsi. Se un tutsi se la passava bene, gli saccheggiavano la casa e gliela bruciavano, e uccidevano i suoi animali, così era costretto a ricominciare da capo. Mio padre aveva dovuto spacciarsi per hutu e falsificare la carta d’identità, sentendosi disumanizzato. Ma il governo era al corrente di questa pratica: hanno fatto dei controlli incrociati, e poi hanno arrestato mio padre e lo hanno picchiato.
«Tutta la faccenda è cominciata molto prima del 1994. Ci sono state uccisioni di tutsi a Taba fin dall’indipendenza, nel 1959, quando io non ero ancora nata. E nel 1973, quando avevo quattro anni, hanno espulso i tutsi dalle scuole, razziato e bruciato molte case: ho visto gente che scappava per rifugiarsi nella chiesa cattolica. Quando c’era un problema, andavamo sempre nelle chiese.»
Gli hutu costituivano circa l’84 per cento della popolazione, i tutsi circa il 15 per cento, e i twa, un gruppo di pigmei autoctoni, il restante 1 per cento. Le persone spesso parlano di differenze fisiche: agli hutu in genere si attribuiscono una pelle più scura e visi più rotondi con il naso piatto, mentre i tutsi sono più alti e snelli, con volti allungati e tratti più delicati, ma a me è capitato di incontrare hutu alti e magri, e tutsi bassi e in carne. In genere la suddivisione si fa risalire alla fine del XIX secolo, quando tra i colonialisti europei, che classificarono gli africani in base al colore della pelle e alle dimensioni del cranio, era diffuso il «razzismo scientifico». I tedeschi che colonizzarono il Ruanda nel 1897 vedevano i tutsi, più pallidi, come re guerrieri che governavano un popolo di contadini, e i belgi, che subentrarono dopo la prima guerra mondiale, consolidarono tali distinzioni inserendo le etnie sui documenti di identità ufficiali.
Oggi non si dà più credito a queste teorie, e i due gruppi non sono considerati tribù separate ma classi sociali o caste diverse, dal momento che, per tradizione, i tutsi sono sempre stati allevatori di bestiame e gli hutu agricoltori. Il bestiame è più prezioso, quindi nel corso del tempo i tutsi si erano conquistati una posizione più elevata e avevano assunto il potere, generando risentimento tra gli hutu. Alla fine, nel 1959, la rivoluzione hutu aveva deposto il re tutsi e costretto decine di migliaia di persone ad andare in esilio. Da allora si erano verificate purghe periodiche.
«L’atteggiamento persecutorio che avvertivamo in quanto tutsi si era sempre manifestato solo da parte delle autorità, a livello ufficiale, non tra le singole persone» ha detto Victoire. «Ma nel 1994 le cose sono cambiate e hanno lanciato la “Soluzione finale”, decisi a eliminare la nostra ethnie. Il primo passo sono stati i cosiddetti “raduni per la sicurezza”, da cui i tutsi erano sempre esclusi, ed è lì che addestravano gruppi denominati Interahamwe, cioè “quelli che lavorano insieme”: lavoro, è così che lo chiamavano. Dicevano che i tutsi erano il nemico. Hanno cominciato a trasmettere alla radio tutti quei discorsi che incitavano all’odio, chiamandoci inyenzi, “scarafaggi”.
«Io ero sposata, mio marito possedeva un bar e avevamo sette bambini. La sera del 6 aprile abbiamo sentito che l’aereo del presidente Habyarimana era precipitato, a Kigali, e lui era rimasto ucciso. L’indomani per le strade di Kigali sono comparsi i blocchi dello Hutu Power, ed è allora che sono cominciate le uccisioni. Undici giorni dopo, il nostro bourgmestre [sindaco], Jean-Paul Akayesu, è stato invitato a un incontro a Muchakaberi, nel sud del Ruanda, dove ha ricevuto l’ordine di eliminare ogni singolo tutsi.
«La mattina seguente, il 19 aprile, siamo stati svegliati da qualcuno che gridava per chiedere aiuto. Alcune persone sono salite sulla collina per osservare e hanno scoperto che la scuola era stata bruciata, e Akayesu aveva convocato una riunione. Diceva che l’eccidio era imminente e che neanche un singolo tutsi doveva essere lasciato in vita.
«È stato allora che sono calati nella valle dove abitavamo. Noi eravamo molto spaventati. Per prima cosa hanno ucciso i tutsi istruiti. Hanno preso l’insegnante Alex Gatrinzi e il suo fratello maggiore, Gosarasi, che erano nostri vicini, e li hanno ammazzati, mentre un altro insegnante è stato picchiato e sepolto vivo con l’accusa di privilegiare i bambini tutsi. Nella scuola sono stati uccisi settantasei bambini.
«Dopo, qualcuno è salito in cima alla collina e ha annunciato: “Oggi, per i tutsi, è l’ultimo giorno”. Quella notte sono state uccise tutte le mucche di proprietà dei tutsi. La gente razziava i nostri raccolti nei campi.
«Era come se le persone avessero perso la loro umanità. Era gente che conoscevamo, con cui scambiavamo prodotti. Gente con cui passavamo del tempo e bevevamo birra. Venivano sempre al bar, e ci invitavamo reciprocamente alle cerimonie.
«Hanno distrutto la nostra casa e ci hanno preso tutto, i mobili, perfino le lastre di lamiera del tetto, non è rimasto niente. Cosa potevamo fare? Siamo scappati via, disperdendoci.
«Io non avevo idea di dove fossero mio marito e i miei figli, a parte la piccola, che portavo sulla schiena. Mentre correvo, qualcuno mi ha colpita alle spalle con una mazza. Stavano cercando di centrarmi in testa, ma hanno preso la mia bimba e le hanno fracassato il cranio. Ho avvertito il colpo, non ho sentito piangere, e ho capito. Mi sono tolta dalla schiena il suo corpo senza vita, l’ho appoggiata a terra e ho ripreso a correre. Non ho nemmeno potuto seppellirla.
«Alcuni sono rimasti nascosti tra gli alberi per giorni. Era aprile, il periodo delle piogge, quindi era molto umido e fangoso. Stavamo nascosti, ma avevamo già accettato che la nostra ultima destinazione sarebbe stata la morte.
«Un giorno mi sono imbattuta nel corpo di una delle mie sorelle, fatto a pezzi con un machete. Non so come ho fatto a sopravvivere. Sono stata violentata tantissime volte. Se riuscivano ad agguantarmi mi violentavano. “Vogliamo sentire di che cosa sapete, voi tutsi” dicevano. Uno per uno, uno dopo l’altro. Sono stata violentata talmente tante volte che ho perso il conto.
«Non puoi immaginare cosa vuol dire essere stuprata e non poter fare la doccia, non poterti cambiare, poi la mattina ti cadono addosso secchiate di pioggia e piove fino allo sfinimento, e durante la notte piove di nuovo.
«Un giorno sono stata stuprata da quattro uomini in modo così violento che non riuscivo a camminare. Dopo, una donna che mi ha trovata nei campi mi ha dato una manioca e mi ha detto di mangiarla tutta, un pezzetto alla volta. A quel punto, dopo aver digiunato per svariati giorni, la mia mandibola funzionava a stento.
«Per un certo periodo abbiamo cercato rifugio davanti al bureau communal [ufficio del sindaco]. Lì c’erano decine di donne e bambini. Sapevamo che il sindaco aveva ordinato di ucciderci, ma non avevamo nessun altro posto dove andare. Nelle settimane successive i miliziani e la gente del posto ci hanno stuprate e picchiate ripetutamente. Quando qualcuno moriva i cani mangiavano i corpi, ma se cercavamo di seppellirlo ci picchiavano. Abbiamo implorato Akayesu di ucciderci perché così non potevamo più andare avanti. Ci ha detto che non “avrebbe sprecato pallottole per noi”.
«Sono tornata sulle colline ma mi hanno presa e colpita all’occhio, che è rimasto arrossato e gonfio per mesi, e mi hanno buttata in una fossa che serviva da latrina. Ogni giorno pregavo Dio che mi facesse morire perché ero sfinita.»
Fuori, la pioggia che cadeva sul metallo stava diventando assordante. L’oscurità equatoriale era calata in fretta, quasi fosse una cortina, come sempre in Africa. Il ragazzo che badava alla mucca ha portato dentro una lampada a olio. Sulle colline, a un secco scoppio di tuono è seguito il chiarore intermittente dei lampi che illuminavano le pieghe del viso di Victoire, immerso nella penombra.
«A un certo punto qualcuno mi ha detto di andare verso sud, a Musambira, perché lì non uccidevano più le donne. Ho finto di essere una hutu, e una signora anziana mi ha accolta a casa sua. Ci sono rimasta una settimana, poi ho visto un gran numero di hutu spostarsi verso il Congo. La donna mi ha detto che stava arrivando l’FPR e lei sarebbe fuggita. Le ho risposto che io sarei rimasta.»
L’FPR era il Fronte patriottico ruandese, un gruppo di guerriglieri tutsi esiliato nei vicini Uganda e Burundi, e guidato da Paul Kagame.
«Quando è arrivato l’FPR siamo corsi loro incontro, erano felicissimi di vederci. Ci hanno detto che eravamo in buone mani, e ci hanno offerto cibo e acqua.
«Per ritrovare i miei figli ci ho messo un mese. Avevano trovato rifugio dalla mia sorella minore, Serafina, anche lei stuprata e costretta a sposare un membro dell’Interahamwe. Eravamo le uniche rimaste della nostra famiglia.»
Si è interrotta per un momento e mi ha guardata. «Vorrei che anche le persone che ci hanno fatto questo venissero uccise» ha detto.
«Dopo non riuscivo a parlare o a mangiare: mi dimenticavo di cucinare. Per mesi non ho quasi parlato. Com’era possibile tradurre in parole ciò che era successo?»
Victoire, però, ha fatto un’altra cosa. Non solo ha riavuto indietro la sua voce, ma è diventata la Testimone JJ dietro una tenda sottile, in un’aula di tribunale della città di Arusha, in Tanzania, per un processo che ha portato alla prima condanna per stupro di guerra della storia.
«Dio trascorre la giornata altrove, ma dorme in Ruanda», così dicono gli autoctoni. Ma dov’era questo Dio quando, in tutta la nazione, i vicini di casa si sono avventati sui loro dirimpettai con mazze e machete nel tentativo di sterminare i tutsi, mentre il resto del mondo si voltava dall’altra parte?
Tutti sembravano così cordiali e ogni cosa così bella, eppure chiunque, ovunque, aveva storie di una crudeltà inaudita da raccontare, proprio come quella di Victoire. «Mi sono nascosto in una fossa biologica per due mesi e mezzo» ha affermato il mio autista, Jean-Paul. «Quando sono uscito, ho scoperto che nella mia famiglia erano morti tutti: mio padre, un medico; mia madre, una maestra...