Appunti di un giovane medico
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Appunti di un giovane medico

Michail A. Bulgakov, Emanuela Guercetti

  1. 208 pages
  2. Italian
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Appunti di un giovane medico

Michail A. Bulgakov, Emanuela Guercetti

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Nel settembre 1916 Bulgakov fu inviato a dirigere un ospedale in un villaggio della provincia di Smolensk; da questa esperienza nacquero tra il 1925 e il 1926 i racconti Appunti di un giovane medico, pubblicati inizialmente sulle pagine di riviste di medicina. È l'"indimenticabile 1917", un anno di travagli e privazioni; i pazienti del dottor Bomgard sono poveri contadini, vittime di paure e superstizioni e per lo più restii a lasciarsi curare. Le condizioni di vita sono durissime e il dottor Bomgard, eroe solitario che usa bisturi e stetoscopio al posto della spada, affronta tra mille inquietudini i casi clinici, sperimentando il proprio sapere scientifico e maturando il proprio carattere. Il lettore segue col fiato sospeso le operazioni del giovane dottore, minuziosamente descritte, i suoi dubbi medici ed esistenziali, soffrendo con lui.

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Information

Publisher
BUR
Year
2014
ISBN
9788858670972
APPUNTI DI UN GIOVANE MEDICO

L’ASCIUGAMANO COL GALLETTO

Se uno non ha mai viaggiato in carrozza per sperdute strade di campagna, è inutile che glielo racconti: comunque non capirebbe. E a chi ci ha viaggiato, non voglio ricordarlo.
Dirò brevemente: per percorrere le quaranta verste che separano la città di Gračëvka, capoluogo di distretto, dall’ospedale di Mur’e, il mio vetturino e io impiegammo ventiquattr’ore esatte. Anzi, l’esattezza fu addirittura curiosa: alle due del pomeriggio del 16 settembre 1917 eravamo davanti all’ultimo magazzino, situato sul confine di quella mirabile città di Gračëvka, e alle due e cinque minuti del 17 settembre dello stesso indimenticabile 1917 stavo in piedi nell’erba calpestata, morente e macerata dalla pioggerella di settembre, nel cortile dell’ospedale di Mur’e. Ci stavo in questo modo: le gambe irrigidite, e a tal punto che, lì nel cortile e annebbiato com’ero, andavo sfogliando mentalmente le pagine dei manuali, cercando ottusamente di ricordare se esisteva davvero, o me l’ero solo sognata la notte prima al villaggio di Grabilovka, una malattia per cui si irrigidivano i muscoli. Come si chiama, la maledetta, in latino? Ognuno di quei muscoli doleva di un dolore insopportabile, che ricordava il mal di denti. Delle dita dei piedi non è neppure il caso di parlare, ormai non si muovevano più negli stivali, se ne stavano lì tranquille, simili a moncherini di legno. Confesso che in una crisi di pusillanimità maledissi sottovoce la medicina e la domanda d’iscrizione che avevo presentato cinque anni prima al rettore dell’università. Dall’alto in quel momento la pioggia cadeva come da un setaccio. Il mio cappotto era gonfio come una spugna. Con le dita della mano destra cercavo invano di afferrare la maniglia della valigia e alla fine sputai nell’erba bagnata. Le mie dita non potevano afferrare nulla, e di nuovo, infarcito com’ero di ogni sorta di nozioni prese da interessanti libri di medicina, mi tornò in mente la malattia: la paralisi. “Paralysis” mi dissi disperato mentalmente, e il diavolo sa perché.
«A... alle vostre strade,» presi a dire con le labbra legnose, livide «bisogna abituarsi.»
E così dicendo chissà perché fissai con cattiveria il vetturino, anche se lui, a dire il vero, di quella strada non aveva colpa.
«Eh... compagno dottore,» rispose il vetturino, anche lui muovendo appena le labbra sotto i baffetti chiari «sono quindici anni che viaggio, e ancora non riesco ad abituarmici.»
Rabbrividii, abbracciai con uno sguardo desolato l’edificio bianco e scalcinato a due piani, le pareti di travi non imbiancate della casetta dell’infermiere, la mia futura residenza — una casa a due piani, molto pulita, con misteriose finestre sepolcrali, e tirai un lungo sospiro. E subito invece delle parole latine mi balenò torbidamente in testa una dolce frase che aveva cantato nel mio cervello istupidito dagli sballottamenti e dal freddo un grasso tenore dai polpacci azzurri:
“Salve, dimora casta e pura”.
Addio, addio per molto, Teatro Bol’šoj rosso-dorato, Mosca, vetrine... ah, addio.
“La prossima volta mi metterò un pellicciotto di pecora...” pensavo pieno di rabbiosa disperazione e strappavo le cinghie della valigia con le dita anchilosate “Io... anche se la prossima volta sarà già ottobre... piuttosto mi metto due pellicciotti. E prima di un mese non ci vado, non ci vado a Gračëvka... Pensate un po’ voi... mi è toccato anche pernottare! Abbiam fatto venti verste e ci siamo ritrovati in un’oscurità di tomba... notte... ci è toccato pernottare a Grabilovka... il maestro ci ha fatti entrare... E stamattina siamo partiti alle sette... e si viaggiava... santi del paradiso... più lentamente che a passo d’uomo. Una ruota sprofonda in una buca, l’altra si solleva per aria, la valigia sui piedi — bum... poi su un fianco, poi sull’altro, poi batti col naso in avanti, poi con la nuca. E da lassù piove, piove, e ti si gelano le ossa. Avrei mai potuto credere che a metà di un settembre grigio e acido un uomo potesse assiderarsi nei campi, come nel più rigido inverno?! E invece a quanto pare può. E mentre stai morendo di morte lenta, vedi sempre lo stesso, identico spettacolo. A destra la campagna gobba e rosicchiata, a sinistra un boschetto tisico, e lì vicino izbe bigie e sgangherate, cinque o sei in tutto. E pare che dentro non ci sia anima viva. Silenzio, silenzio intorno...”
La valigia finalmente cedette. Il vetturino vi si sdraiò sopra con la pancia e me la scaraventò proprio addosso. Io volevo trattenerla per la cinghia, ma la mano si rifiutò di funzionare, e la mia compagna di viaggio, rigonfia ed esasperata, con i libri e ogni genere di carabattole, piombò dritta nell’erba, assestandomi un colpo sulle gambe.
«Ossigno...» cominciò il vetturino spaventato, ma non feci nessuna rimostranza: le mie gambe erano comunque da buttar via.
«Ehi, di casa? Ehi?» si mise a gridare il vetturino, agitando le braccia, come un gallo le ali. «Ehi, vi ho portato il dottore!»
Allora ai vetri scuri della casetta dell’infermiere apparvero delle facce, vi si incollarono, una porta sbatté, ed ecco vidi un uomo in paltoncino lacero e stivalucci arrancare sull’erba verso di me. Si tolse ossequiosamente e frettolosamente il berretto, poi, avvicinatosi di due passi, chissà perché sorrise vergognoso e con una vocetta roca mi salutò:
«Buongiorno, compagno dottore».
«Lei chi è?» domandai.
«Sono Egoryč,» si presentò «il custode di qua. È da un pezzo che l’aspettiamo...»
Quindi afferrò la valigia, se la gettò sulla spalla e partì. Io presi a zoppicare dietro di lui, cercando senza successo di infilare la mano nella tasca dei pantaloni per estrarne il portamonete.
Un uomo, in sostanza, ha bisogno di ben poco. E prima di tutto ha bisogno del fuoco. Ricordo che ancora a Mosca, prima di partire per la desolazione di Mur’e, mi ero ripromesso di tenere un contegno posato. La mia aria giovane mi aveva avvelenato l’esistenza nei primi passi della mia carriera. A tutti dovevo presentarmi come:
«Il dottor tal dei tali».
E nessuno mancava di inarcare le sopracciglia e domandare:
«Davvero? E io che pensavo fosse ancora studente».
«No, ho finito,» rispondevo tetro e pensavo: “Bisogna che mi metta a portare gli occhiali, eh, sì”. Ma non avevo motivo di portare gli occhiali, i miei occhi erano sani, e la loro limpidezza non era stata ancora offuscata dall’esperienza della vita. Non potendo contare sugli occhiali per difendermi dai continui sorrisi condiscendenti e affettuosi, cercavo di elaborare un modo di fare speciale, che incutesse rispetto. Cercavo di parlare con misura e autorità, di trattenere per quanto possibile i movimenti bruschi, di camminare, e non correre come corrono i neolaureati di ventitré anni. Il tutto, come capisco ora che sono passati tanti anni, mi riusciva malissimo.
In quel frangente violai questo mio codice di comportamento non scritto. Sedevo tutto raggomitolato, sedevo in calzini, e non nello studio o in qualche posto del genere, ma in cucina, e come un adoratore del fuoco mi protendevo ispirato e appassionato verso i ceppi di betulla che bruciavano nella stufa. Alla mia sinistra c’era una tinozza capovolta: su di essa erano posate le mie scarpe, lì accanto un gallo spennato e nudo, dal collo insanguinato, e accanto al gallo il mucchio delle sue penne multicolori. Il fatto è che ancora in stato di assideramento ero riuscito a compiere tutta una serie di azioni che la vita stessa aveva richiesto. Aksin’ja dal naso a punta, la moglie di Egoryč, era stata da me confermata nel suo incarico di cuoca. Proprio in conseguenza di ciò il gallo era perito per mano sua. Dovevo mangiarmelo io. Inoltre avevo fatto conoscenza con tutti. L’infermiere diplomato si chiamava Dem’jan Lukič; le ostetriche — Pelageja Ivanovna e Anna Nikolaevna. Avevo avuto il tempo di fare il giro dell’ospedale e con assolutissima evidenza mi ero persuaso che disponeva di un ricchissimo strumentario. Anzi, con altrettanta chiarezza ero stato costretto a riconoscere (fra me e me, naturalmente), che l’uso di moltissimi di quegli strumenti che scintillavano verginalmente mi era del tutto ignoto. Non solo non li avevo mai tenuti in mano, ma, lo confesso francamente, non li avevo addirittura mai visti.
«Hmm,» borbottai molto significativamente «però da voi c’è un magnifico strumentario. Hmm...»
«Eccome,» osservò dolcemente Dem’jan Lukič «tutto grazie agli sforzi del suo predecessore Leopol’d Leopol’dovič. Lui infatti operava dal mattino alla sera.»
Qui mi coprii di sudore freddo e guardai con angoscia i rilucenti armadietti di cristallo.
Poi facemmo il giro delle corsie vuote, e mi convinsi che potevano tranquillamente ospitare quaranta persone.
«Leopol’d Leopol’dovič talvolta aveva anche cinquanta degenti,» mi consolava Dem’jan Lukič, mentre Anna Nikolaevna, una donna con una gran chioma di capelli brizzolati, non so a che proposito disse:
«Lei, dottore, ha un’aria così giovane, così giovane... È semplicemente incredibile. Sembra uno studente».
“Oh, diavolo,” pensai “sembra che si siano messi d’accordo, parola d’onore!”
E farfugliai a denti stretti, seccamente:
«Hmm... no, io... cioè io... sì, ho un’aria giovane...».
Poi scendemmo in farmacia, e vidi subito che ci mancava solo il latte di gallina. Nelle due stanze un po’ buie si sentiva un intenso odore di erbe, e sugli scaffali c’era tutto quello che si poteva desiderare. Perfino dei medicinali stranieri brevettati: è forse il caso di aggiungere che non li avevo mai sentiti nominare?
«Li ha fatti arrivare Leopol’d Leopol’dovič» riferì con orgoglio Pelageja Ivanovna.
“Era proprio un tipo geniale, questo Leopol’d” pensai e fui pervaso dal rispetto per quel misterioso Leopol’d che aveva abbandonato la tranquilla Mur’e.
Un uomo, oltre che del fuoco, ha bisogno anche di ambientarsi. Da un pezzo il gallo era stato mangiato, Egoryč mi aveva imbottito un pagliericcio, lo aveva ricoperto con un lenzuolo, la lampada era accesa nello studio nella mia residenza. Io sedevo e, come incantato, guardavo la terza conquista del leggendario Leopol’d: lo scaffale era pieno zeppo di libri. Di soli manuali di chirurgia in russo e in tedesco contai di sfuggita circa trenta volumi. E la terapia! I meravigliosi atlanti di dermatologia!
Avanzava la sera, e io mi stavo ambientando.
“Io non ho nessuna colpa,” pensavo ostinatamente e tormentosamente “ho la laurea, ho quindici cinque1 sul libretto. Avevo ben precisato, quand’ero ancora nella grande città, che volevo un posto di aiuto. Macché. Loro sorridevano e dicevano: ‘Si ambienterà’. Prendi e porta a casa. E se mi arriva un’ernia? Me lo spiegate voi come mi ci ambienterò? E in particolare come si sentirà il malato d’ernia sotto le mie mani? Si ambienterà all’altro mondo, lui (e qui sentivo freddo lungo la colonna vertebrale)... o un’appendicite purulenta? Ah! O un crup difterico fra i ragazzini del villaggio? Quando è prevista la tracheotomia? E anche senza tracheotomia avrò poco da stare allegro... E... e... i parti! Mi ero dimenticato i parti! Le presentazioni anomale. Che farò mai? Eh? Come sono sconsiderato! Bisognava rifiutare questa condotta. Bisognava. Si trovassero pure un qualche Leopol’d.”
Angosciato e avvolto dal crepuscolo presi a ca...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Cronologia della vita e delle opere
  4. Introduzione di Milli Martinelli
  5. Giudizi critici
  6. Nota bibliografica
  7. Nota alla traduzione
  8. Appunti di un giovane medico
  9. Sommario
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APA 6 Citation

Bulgakov, M., & Guercetti, E. (2014). Appunti di un giovane medico ([edition unavailable]). BUR. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3380596 (Original work published 2014)

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Bulgakov, Michail, and Emanuela Guercetti. (2014) 2014. Appunti Di Un Giovane Medico. [Edition unavailable]. BUR. https://www.perlego.com/book/3380596.

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Bulgakov, M. and Guercetti, E. (2014) Appunti di un giovane medico. [edition unavailable]. BUR. Available at: https://www.perlego.com/book/3380596 (Accessed: 25 June 2024).

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Bulgakov, Michail, and Emanuela Guercetti. Appunti Di Un Giovane Medico. [edition unavailable]. BUR, 2014. Web. 25 June 2024.