Passatopresente
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Alle origini dell'oggi 1989-1994

Simona Colarizi

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Alle origini dell'oggi 1989-1994

Simona Colarizi

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Nel 1992, trent'anni fa, cominciava il crollo della prima Repubblica e il passaggio alla seconda. Convenzionalmente si ritiene che questo passaggio sia stato legato alle inchieste di Mani pulite e alla decimazione per corruzione di un'intera classe politica. In realtà, i fattori che portarono a questa caduta furono molteplici e questo libro, per la prima volta, li analizza nel loro insieme.

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Information

Year
2021
ISBN
9788858147962

Capitolo 1.
Gli anni Ottanta

1. Politica economica e finanziaria

La damnatio memoriae degli anni Ottanta è parte integrante della vulgata corrente che racconta la caduta della prima Repubblica come la logica conclusione di un decennio di malgoverno e di malaffare al quale finalmente il paese si era ribellato, trovando nei magistrati una sorta di “difensori civici”. Lo avevano così dipinto i media che facevano da sponda alle forze politiche – Pds, Rifondazione comunista, Rete, Lega, Msi – passate nella XI Legislatura all’attacco finale contro i partiti di governo, usciti dalle elezioni dell’aprile ’92 ancora maggioritari, anche se indeboliti nei suffragi, in particolare la Dc. Né si poteva sottovalutare la crescita dell’astensionismo che per la prima volta nella storia elettorale arrivava al 12,7%, una percentuale molto alta rispetto al passato28. Quanto bastava comunque per convincere il pool di Mani Pulite a scoprire le carte dell’inchiesta in corso da qualche mese nel collegio elettorale di Milano, città dove la Lega aveva strappato al Psi Palazzo Marino, da sempre amministrato dai socialisti e roccaforte di Craxi. Al suo coinvolgimento nelle indagini sulla corruzione puntavano i giudici milanesi, ben consapevoli di avere di fronte un avversario che non sarebbe stato facile trascinare in giudizio. La demonizzazione degli “anni di Craxi”, il segretario socialista che dal 1983 al 1987 aveva guidato l’esecutivo, appariva dunque funzionale a un disegno complessivo il cui finale sarebbe stato, appunto, la liquidazione di tutti i vecchi partiti.
Non paiono casuali il tono e i contenuti degli interventi alla Camera nel luglio ’92 quando i deputati dell’opposizione avevano votato a favore dell’autorizzazione a procedere contro Tognoli, l’ex sindaco socialista al governo della città dal 1976 al 1986. Alla sua gestione del comune, retto da una maggioranza comprensiva del Pci, il deputato di Rifondazione comunista Ramon Mantovani aveva imputato tutte le “aberranti” trasformazioni subite dalla città, passata dal capitalismo produttivo al capitalismo finanziario e speculativo, al dominio assoluto dell’edilizia, delle assicurazioni, delle catene commerciali, delle televisioni. Milano aveva smarrito la sua identità sociale e anche quella culturale ormai avulsa dal mondo del lavoro: si era trasformata nella “Milano da bere”29. Un anno più tardi l’attacco al governo Craxi si faceva ancora più esplicito nelle parole di Diego Novelli, deputato della Rete: gli Ottanta erano stati gli anni «del maggior degrado della vita politica italiana; anni rampanti di una falsa modernità e [...] di un falso riformismo socialista»; per non parlare della svolta repressiva antioperaia iniziata alla Fiat nel 1980, e poi proseguita per tutto il decennio. (All’ex sindaco di Torino, a quel tempo iscritto al Pci, bruciava ancora la ferita dello slogan risuonato durante la marcia dei quarantamila: «Novelli, Novelli, apri quei cancelli»30).
Persino un raffinato intellettuale della sinistra, Stefano Rodotà, aveva definito disastrosi «gli esiti del progetto politico al quale [i socialisti] si erano votati. Un progetto ambizioso e devastante, incarnato da quello spirito degli anni Ottanta che ha spezzato solidarietà e moralità, che ha santificato una governabilità senza controlli, che ha affidato il potere politico ed economico ad oligarchie sempre più ristrette»31. Craxi, stupefatto da queste affermazioni così distorcenti della realtà, si era chiesto: «Davvero gli anni Ottanta, [...] sono stati gli anni bui della regressione, della depressione, della malavita politica?». Nessuno sembrava voler riconoscere quanto in concreto il governo aveva realizzato, dalla vittoria sull’inflazione e sulla stagnazione alla ripresa e all’espansione economica, tutti fattori che avevano permesso all’Italia di entrare in Europa a testa alta32. Alfredo Reichlin, intervenuto a sua volta, non aveva smentito questo elenco di successi che però erano insufficienti a cambiare il racconto tutto in nero del decennio, se si guardava al disastroso esito finale. Il debito pubblico ormai fuori controllo era, a suo giudizio, il frutto di quel “perverso” patto sociale su cui Psi e Dc avevano costruito il loro consenso, dall’evasione fiscale generalizzata alle attività in nero, allo sviluppo parassitario del lavoro autonomo, a un Welfare distribuito senza equità fino alla «inefficienza patologica della pubblica amministrazione». Quando inflazione e debito, i due grandi ammortizzatori sociali, avevano cominciato a venir meno, tutto l’equilibrio politico e distributivo della ricchezza era entrato in crisi33.
È naturalmente incontestabile che nel ’92-’93 incombesse sul paese una situazione finanziaria fuori controllo, per di più in una congiuntura internazionale depressiva, i cui effetti avrebbero di sicuro concorso alla caduta del sistema. Vanno però chiariti due diversi ordini di problemi: il primo riguarda l’analisi degli anni Ottanta; il secondo invece attiene alla governance dei partiti che si erano alternati alla guida dell’esecutivo nell’intero decennio. Per quanto riguarda la prima delle due questioni, le riflessioni espresse in Parlamento dai deputati dell’opposizione mostrano l’evidente incomprensione delle straordinarie trasformazioni in atto ormai da tempo nell’economia mondiale; quelle trasformazioni che persino dopo il 1994 una parte della sinistra erede del Pci e delle correnti sociali della Dc avrebbero continuato a ignorare, ma soprattutto a respingere ideologicamente. La “Milano da bere”, fotografia caricaturale di una metropoli cresciuta nei consumi e nei costumi in armonia con le capitali del ricco mondo occidentale, era diventata l’esempio della “falsa modernità”. Colpisce in queste affermazioni il vuoto di analisi su che cosa avesse significato l’ingresso nell’era postindustriale in termini di crescita del terziario, delle nuove professioni, della comunicazione, della finanziarizzazione e soprattutto della mondializzazione dell’economia. Ci si era limitati a giudizi morali sullo «spirito degli anni Ottanta che aveva spezzato solidarietà e moralità»34, sul rampantismo e sullo yuppismo, tipici fenomeni di queste “aberranti” trasformazioni; insomma il parametro della moralità era servito a coprire il vuoto di analisi sull’economia, così come nella “questione morale” si era riassunta la politica comunista per tutto il decennio35.
Il ritardo nel capire e affrontare i processi in atto ormai dalla seconda metà dei Settanta è stato riconosciuto a posteriori dagli intellettuali ex comunisti, anche se alcuni di loro già negli Ottanta avevano iniziato a rendersi conto del mutamento che investiva il mondo del lavoro, abbattendo il mito della centralità operaia la cui obsolescenza persino Berlinguer era stato costretto a riconoscere nel 1983. Le trasformazioni della società non si erano limitate solo ai cambiamenti ormai visibili nell’intero mondo del lavoro, già individuati da Sylos Labini alla fine dei Settanta36, quando nelle regioni adriatiche si era sviluppata l’economia delle piccole imprese, anche a gestione familiare, e ovunque nel paese era stato rilevato il sorpasso dei “colletti bianchi” per numero prevalenti sulle “tute blu”. Nel lontano 1960 i dati sulla riduzione degli addetti all’agricoltura rispetto all’aumento dei lavoratori nei settori industriali avevano annunciato il boom economico con tutti i suoi effetti dirompenti sul piano sociale e culturale. Negli Ottanta, conseguenze altrettanto rivoluzionarie avrebbe avuto l’avvento della nuova era postindustriale che segnava il tramonto delle ideologie e dei valori sui quali avevano poggiato le basi dei partiti di massa. Dal collettivismo all’individualismo, dalla società organizzata per grandi aggregati collettivi alla società dell’individuo, dallo statalismo al neoliberismo, o per meglio dire dal capitalismo laburista al mercato autoregolamentato, erano tutte tendenze che si consolidavano negli Stati Uniti e in Europa.
Sull’esempio di Reagan, la Thatcher aveva iniziato una politica neoliberista, scontando la mobilitazione dei sindacati, usciti alla fine sconfitti, anche se la vittoria della “lady di ferro”, più apparente che reale, non avrebbe risparmiato alla Gran Bretagna tutti i contraccolpi di una pesante riconversione che investiva l’intero sistema economico del paese, arrivato anch’esso col fiato corto alla scadenza di Maastricht. Stessi problemi si erano presentati a tutti i leader europei che, per quanto si fossero adoperati per conservare l’impianto del Welfare State, avevano dovuto comunque affrontare le trasformazioni economiche mondiali. L’intera struttura dell’economia e della finanza andava riformata attraverso interventi di tale portata da snaturare progressivamente l’intero edificio economico-sociale costruito nei quarant’anni passati. Del resto, l’accelerazione impressa al percorso dell’integrazione europea a metà degli anni Ottanta con l’Atto Unico, era nata proprio dalla consapevolezza dei governanti, consapevoli di quanto inadeguato fosse ormai ogni singolo sistema economico e finanziario nazionale di fronte alle sfide globali. Naturalmente, spingevano in questa stessa direzione le imprese e le banche che avevano già iniziato ad acquistare una dimensione internazionale, oltre a procedere nelle innovazioni tecnologiche e organizzative indispensabili per sopravvivere nel nuovo mercato mondiale.
Craxi, De Mita e Andreotti si erano dunque trovati di fronte questi stessi problemi ai quali i ministri dei dicasteri economici e finanziari, non a caso scelti tra i “tecnici”, avevano cercato soluzioni, in stretto accordo con il governatore della Banca d’Italia. Le ricette non erano state dissimili rispetto a quelle applicate dai leader europei socialisti e cattolici, Mitterrand in Francia, González in Spagna, Kohl in Germania, tutti cresciuti nell’età del “capitalismo laburista” teorizzato da Keynes dal quale non era certo facile staccarsi. La classe politica al potere in Italia doveva però scontare alcune peculiarità nazionali che avrebbero reso più difficile affrontare gli anni Ottanta e, soprattutto, il periodo più critico dal 1989 al 1994, quando il rallentamento nello sviluppo economico a partire dagli Stati Uniti aveva avuto pesanti effetti in Europa e in Italia.
Si arriva così al secondo punto che si è segnalato, cioè all’interrogativo di quali errori o di quali omissioni si possano accusare i governanti, in primis Craxi, che a metà degli Ottanta non avevano approfittato della congiuntura economica favorevole per avviare profonde riforme strutturali dell’intero sistema, ormai obsoleto. Riforme del bilancio innanzi tutto, dal momento che proprio il problema dei conti pubblici era e sarebbe stato il vero nodo scorsoio per i partiti. Riforme che non sarebbe stato facile far passare in Parlamento, se si considera la resistenza dei deputati di ogni parte politica ad affondare il coltello sui costi e gli sprechi del Welfare, dai quali ricavavano le risorse per accontentare le aspettative e le richieste di un vasto pubblico, non certo limitabile alle sole clientele. Riforme che, una volta strappato il via libera dei parlamentari, andavano poi rese operative, scontando però la deresponsabilizzazione dell’amministrazione pubbli...

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