Cittadinanza
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Cittadinanza

Pietro Costa

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Cittadinanza

Pietro Costa

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I diritti e i doveri, le aspettative e le pretese, le modalità di appartenenza e i criteri di differenziazione, le strategie di inclusione ed esclusione che definiscono il rapporto tra l'individuo e lo Stato: il 'discorso della cittadinanza' nella storia dell'Occidente.

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Information

Year
2014
ISBN
9788858117903

1. Introduzione. Il concetto di ‘cittadinanza’

L’espressione ‘cittadinanza’, nel linguaggio comune e nel lessico giuridico tradizionale, designa l’appartenenza di un individuo a uno Stato ed evoca principalmente i problemi relativi alla perdita e all’acquisto dello status di cittadino. In tempi recenti, tuttavia, il termine ‘cittadinanza’ ha acquisito un significato più ampio, tanto da divenire un termine corrente del ‘discorso pubblico’ odierno. In questa prospettiva conviene intendere per ‘cittadinanza’ il rapporto politico fondamentale, il rapporto fra un individuo e l’ordine politico-giuridico nel quale egli si inserisce.
Il termine ‘cittadinanza’, al di là degli impieghi retorici cui esso si è prestato e si presta, serve a colmare una sorta di vuoto lessicale e concettuale, permettendo di tematizzare un profilo decisivo dell’esperienza (il nesso individuo-ordine) per indicare il quale non disponiamo di denominazioni alternative. ‘Cittadinanza’ è un’espressione utilizzabile per mettere a fuoco il rapporto politico fondamentale e le sue principali articolazioni: le aspettative e le pretese, i diritti e i doveri, le modalità di appartenenza e i criteri di differenziazione, le strategie di inclusione e di esclusione. Studiare questi temi dal punto di vista della ‘cittadinanza’ significa assumerli come profili di un oggetto di analisi di cui si intende sottolineare l’unitarietà.
Il tema della cittadinanza può essere affrontato da discipline diverse (dal sapere giuridico alla sociologia, alla storia). Per quanto riguarda la storiografia, sono possibili ricerche di carattere lessicologico, volte a ricostruire il ‘campo semantico’ di ‘cittadinanza’ in un determinato contesto storico-linguistico, ma sono anche ipotizzabili approcci diversi, interessati a cogliere non già i significati dell’espressione ‘cittadinanza’, ma il problema complessivo da essa adombrato. In questo caso, ‘cittadinanza’ è l’oggetto della ricerca solo perché ne è, al contempo, lo strumento: lo storico muove da una definizione previa di ‘cittadinanza’ (in ipotesi, la ridefinizione prima proposta) e se ne serve per delimitare il campo di indagine. La ‘cittadinanza’ (una determinata nozione di cittadinanza) diviene il congegno (il telescopio o il microscopio) impiegato per mettere a fuoco un determinato aspetto della realtà: la ‘cittadinanza’ appartiene allora allo strumentario linguistico-concettuale dello storico, al suo metalinguaggio, e solo per questa via diviene anche l’oggetto della sua indagine.
La ridefinizione (odierna) del termine ‘cittadinanza’ serve in sostanza allo storico per impostare una domanda: per chiedersi cioè in che modo una determinata società abbia impostato e risolto il problema del rapporto fra l’individuo e l’ordine politico-giuridico. Le risposte alla domanda proverranno dall’indagine ‘sul campo’ e saranno diverse a seconda delle società considerate.
Occorre poi tener presente che il rapporto fra l’individuo e l’ordine può essere studiato da diversi punti di vista, a seconda che lo si esamini nella sua globalità oppure si ponga l’accento su alcune caratteristiche specifiche (economiche o giuridiche o sociologiche); oppure ancora a seconda che si guardi alla prassi (alla concreta strumentazione del rapporto individuo-ordine) oppure al ‘discorso pubblico’, alle rappresentazioni linguistico-concettuali caratteristiche di una determinata società.
In quest’ultimo caso potremmo parlare di discorso della cittadinanza: intendendo riferirci con questa espressione al discorso sviluppato da una determinata società per rappresentare l’individuo e il suo rapporto con l’ordine.
Il discorso della cittadinanza, in quanto rappresentazione del soggetto e del suo rapporto con l’ordine, include come proprio tema obbligato la tematizzazione degli oneri e dei vantaggi che contraddistinguono la condizione dell’individuo. In questa prospettiva i diritti emergono come strumenti di cui una cultura si serve per attribuire ai soggetti l’una o l’altra prerogativa.
Nella sua complessa fenomenologia storica, il discorso della cittadinanza provvede ad attribuire diritti ai soggetti secondo strategie retoriche tanto variabili quanto sono diverse le società e le culture prese in considerazione. Mutano, a seconda dei contesti, tanto i soggetti cui il discorso della cittadinanza attribuisce diritti quanto il fondamento che esso invoca a sostegno della sua attribuzione.
Potrà essere volta a volta indicato come fondamento del diritto la natura o la storia, le leggi dello Stato o le consuetudini sociali; un determinato diritto sarà volta a volta presentato come un diritto naturale e genericamente umano oppure come un diritto discendente dall’appartenenza alla comunità politica oppure ancora come un diritto statuito dalla decisione sovrana.
Occorre quindi guardarsi dall’identificare il discorso della cittadinanza con i diritti di cittadinanza: i diritti di cittadinanza infatti (se con questa espressione ci riferiamo a una classe di diritti il cui fondamento rinvii direttamente o indirettamente alla civitas) sono semplicemente una delle molteplici categorie di diritti messe a fuoco dal discorso della cittadinanza nel suo sviluppo storico. Valga a riprova il seguente esempio: il discorso giusnaturalistico della cittadinanza (la rappresentazione giusnaturalistica del soggetto e del suo rapporto con l’ordine) svincola i diritti da qualsiasi appartenenza politica per collegarli direttamente al soggetto come tale.
È il discorso della cittadinanza nel suo sviluppo storico che mi accingo a presentare concisamente. È appena il caso di avvertire che soltanto un’analisi più ravvicinata dei diversi testi e contesti permetterebbe una ricognizione più articolata di questo complesso itinerario storico-culturale1. Credo però che anche un approccio sintetico, pur con le sue inevitabili semplificazioni, permetta comunque di cogliere il senso e lo spessore di un dibattito di capitale importanza per la cultura politico-giuridica di ieri e di oggi.

Ulteriori letture

R. Dahrendorf, Il conflitto sociale nella modernità. Saggio sulla politica della libertà (1988), Laterza, Roma-Bari 1989.
L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, Laterza, Roma-Bari 2001.
G. Zincone, Da sudditi a cittadini, il Mulino, Bologna 1992.
D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994.
 
1 Ho tentato questa strada in Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1999-2001.

2. Il momento della città

I testi con i quali avremo a che fare, in quanto espressione di diversissime società e culture, ci mettono in contatto con molteplici rappresentazioni dell’individuo e della comunità politica. Conviene interrogarli formulando la nostra domanda (costruendo il nostro metalinguaggio) senza ricorrere a definizioni troppo rigide e vincolanti, in modo da essere aperti e ricettivi nei confronti di stili di pensiero difficilmente riconducibili agli schemi che ci sono oggi famigliari.
In questa prospettiva, occorre evitare un’acritica identificazione della comunità politica con lo Stato. Lo Stato non è una realtà immutabile e perenne, ma appartiene a una precisa congiuntura storica: lo Stato è la forma politica caratteristica della modernità e presuppone la sinergia di elementi ideali e strutturali ignoti all’antica Grecia non meno che all’Europa medievale.
Quando ci riferiamo al mondo antico o al mondo medievale conviene parlare non già di Stato, ma più semplicemente di città. Si consideri d’altronde la stessa etimologia del termine ‘cittadinanza’ (in italiano e in molte lingue europee): ‘cittadinanza’ non evoca lo Stato, ma la città; ed è la città che, dalla Grecia antica fino alle soglie della modernità, si propone come l’organizzazione politica per eccellenza.
La città è una forma di convivenza che si pone all’origine del discorso politico occidentale e continua a proporsi come il suo principale punto di riferimento per un periodo lunghissimo: Cattaneo vedeva nella città un «principio ideale delle istorie italiane», capace di svilupparsi come forza vivificante in un arco di trenta secoli2. Certo, non ogni città è eguale a ogni altra: e tuttavia Weber, in un suo celebre contributo accolto in Economia e società3, se pure esclude la possibilità di una definizione unitaria e distingue fra un tipo ‘orientale’ e un tipo ‘occidentale’ di città, non esita comunque a ricondurre la città antica e la città medievale a un unico ‘tipo ideale’, capace (per via di astrazione) di includerle entrambe.
Siamo di fronte, come è facile intendere, a uno schema che regge solo a patto di mettere in parentesi le macroscopiche differenze che separano mondi così diversi, mentre, a un’analisi ravvicinata, non solo l’analogia fra la città medievale e la città antica, ma anche la credibilità di un paradigma applicabile unitariamente alla Grecia e a Roma (pur a tacere delle trasformazioni interne a ciascuna di queste realtà) appaiono problematiche.
Qualche residua suggestione cattaneana o weberiana può tuttavia essere accolta quando si guardi alla città (come avviene nel nostro caso) attraverso un doppio filtro: per un verso, mettendo a fuoco la rappresentazione discorsiva della città e del cittadino (piuttosto che la loro fenomenologia sociale e istituzionale), per un altro verso ponendosi in una prospettiva che non si sofferma sul mondo antico come tale, ma privilegia il rapporto fra antichità, età di mezzo e modernità per sorprendere in esso continuità e rotture.
In questa prospettiva, svolge un ruolo seminale Aristotele.
Per Aristotele la città è un microcosmo economicamente autosufficiente e omogeneo. È nella città che i cittadini esercitano la virtù ed è in essa e per mezzo di essa che gli individui raggiungono la pienezza umana: solo un essere subumano o sovrumano, un animale o un dio, può far a meno di una dimensione ‘politica’.
La città è una comunità unitaria di cui i cittadini sono le componenti attive e partecipi. Certo, Aristotele si sofferma sulla varietà degli ordinamenti e delle forme di governo e fa discendere dalla politeía, dall’assetto costituzionale proprio di una determinata città, le modalità della partecipazione politica dei soggetti. In termini più generali, comunque, l’espressione emblematica dell’esser cittadino è la «partecipazione alle funzioni di giudice e alle cariche»4.
La partecipazione dei cittadini alla vita della città è strettamente egualitaria: la città è una comunità di eguali che ha come scopo la virtù5 e l’esercizio di una ‘vita buona’ e la misura dell’eguaglianza è data dall’alternanza nei ruoli, dalla disponibilità di ciascuno a comandare e a obbedire volta a volta.
L’eguaglianza caratteristica della comunità dei cittadini si intreccia però, nel testo aristotelico, con una fitta rete di disuguaglianze. In primo luogo, è estranea ad Aristotele l’idea di una naturale, essenziale eguaglianza di tutti gli esseri umani. Naturali sono piuttosto le disuguaglianze (anche se non necessariamente così rigide come è stato spesso sostenuto); naturale è la collocazione del soggetto entro una rete di poteri che lo definiscono e lo consegnano a un ruolo specifico. Alla dicotomia (fondamentale, per tutto il mondo antico) che oppone il libero allo schiavo si aggiunge la struttura gerarchica della famiglia, che assegna a ciascuna delle sue componenti (il marito, la moglie, il figlio, il servo) una posizione specifica nell’organigramma del potere.
È cittadino dunque, per un verso, solo l’individuo maschio e adulto, collocato al vertice del microcosmo famigliare, e, per un altro verso, solo l’individuo che possa esercitare la virtù e occuparsi, in condizioni di eguaglianza con gli altri cittadini, della cosa pubblica, proprio perché libero da preoccupazioni economiche e da attività servili, affidate ad altri, schiavi o meteci che siano.
Emerge allora in Aristotele una netta distinzione (direi un’opposizione qualitativa) fra classi diverse di soggetti pur fisicamente coesistenti nello spazio della città: solo una di queste classi – libera di esercitare la virtù in condizioni di eguaglianza – è composta di cittadini, mentre le altre categorie, pur indispensabili per l’autosufficienza economica della pólis, non appartengono in senso proprio alla comunità.
Sullo sfondo di una complicata geografia di disuguaglianze, emerge dunque una precisa contrapposizione fra cittad...

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