Dagli imperi militari agli imperi tecnologici
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Dagli imperi militari agli imperi tecnologici

La politica internazionale dal XX secolo a oggi

Ennio Di Nolfo

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La politica internazionale dal XX secolo a oggi

Ennio Di Nolfo

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Nel XX secolo solo le superpotenze hanno la forza di definire le regole e la prassi del sistema internazionale. Due i protagonisti storici: gli Stati Uniti, con la forza di un capitale finanziario che influenza le relazioni globali, e l'Unione Sovietica, promotrice di un'ideologia altrettanto globalizzante. È nello scontro fra modelli di sviluppo, oltre che in quello della potenza militare, che si svolge la vita internazionale del secondo dopoguerra: fra un'idea occidentale diretta al raggiungimento di società compiutamente aperte e pluraliste e le forze che a questo progetto si oppongono. Il XXI secolo si apre tuttavia proponendo subito un quadro molto più complesso. La dominazione americana, frutto del successo nello scontro bipolare, viene messa in crisi dalla minaccia del terrorismo globale e dalla comparsa di nuovi attori sulla scena mondiale. Si delinea un avvenire policentrico, dominato ancora per qualche tempo dagli Stati Uniti, rispetto ai quali diviene però evidente l'affermarsi della Cina, dell'India, dell'Unione Europea, della Russia e, forse, del Brasile.

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V. Dalla Guerra fredda alla coesistenza competitiva1947-1964

1. Una proposta di lettura

La nascita di due «campi» contrapposti provocò il cambiamento delle regole delle relazioni internazionali. Fino al 1945-47 la prassi delle relazioni internazionali era stata scandita, pur con qualche adattamento, dalle norme o dalle consuetudini del Concerto europeo, così come esso era stato codificato dal congresso di Vienna, senza sostanziali modifiche, fino all’ascesa al potere di Hitler. Dopo la fine della seconda guerra mondiale e fino al 1945-47, la trama diplomatica non si scostò molto, soprattutto nella forma, dal fatto che a comporre il tessuto erano i molti fili elaborati dalle diplomazie nazionali; dopo quella data si verificarono mutamenti di grande portata: nel senso della semplificazione e dell’estensione. La semplificazione era determinata dal fatto che da allora, e per molti lustri, nella vita internazionale, gli interlocutori effettivi si ridussero a due: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. I tessitori potevano mettere insieme una treccia composta da numerosi fili, ma a tenere i capi di questi fili vi erano solo le due superpotenze. Gli altri potevano fare solo da coro, sullo sfondo, o, nell’ipotesi più ottimistica, potevano respingere le tentate manipolazioni. Le loro voci avevano un volume diverso, ma tutte si ricomponevano nel coro. Per qualche anno la Francia credette di potere ancora operare in modo autonomo, ma nel 1954, dopo la sconfitta nel Vietnam e durante la conflagrazione anticoloniale nell’Africa del Nord, tale illusione perse di senso. Per qualche anno, anche la Gran Bretagna, forte dei suoi ancora vasti domini coloniali, credette di poter affiancare il suo primato a quello americano, ma l’umiliazione subita con il fiasco della spedizione di Suez, nel 1956, fece capire anche ai britannici l’impossibilità di azioni non concordate con la potenza egemone nel «campo» occidentale. Nel «campo» sovietico nessuno osò contrapporsi alle direttive della potenza guida. Solo i cinesi, dopo il consolidamento del regime comunista, cercarono di affermare una vocazione autonoma. Ma, a partire dal 1958-59, anche Mao Zedong dovette avvertire il peso dell’impotenza internazionale e per molti anni la Cina non fu in grado di contrastare il potere sovietico. Del resto, chi osava dissentire veniva escluso, come accadde nel 1948 alla Jugoslavia del maresciallo Tito. Insomma esisteva un sistema tendenzialmente bipolare, nell’ambito del quale le risorse e le decisioni fondamentali dovevano essere ricondotte alla volontà dei due poteri antagonisti. Questi soltanto avevano la forza necessaria per condurre sino in fondo uno scontro militare; avevano il potere politico per interferire praticamente nell’ambito dei rispettivi sistemi; guidavano blocchi economici sostanzialmente omogenei. Erano insomma le sole potenze in grado di esercitare quelle attività internazionali che prima erano state caratteristiche dei maggiori stati nazionali. Guidavano due imperi di genere nuovo, non più legati dal vincolo di subordinazione economica e militare, ma legati in primo luogo da una potente affinità ideologica e poi da modi diversi, ma paralleli, di strutturare la divisione del potere internazionale in termini tali da poter sempre egemonizzare le decisioni finali.
Le regole del gioco a due, così semplificate da prestarsi a forme di scontro brutali, che non avevano traccia nella tradizione diplomatica del Vecchio Continente, si applicavano a tutto il globo. Questo punto mette in evidenza l’estensione dell’ambito nel quale le relazioni internazionali si sviluppavano. Esse non erano più il risultato delle complicate elaborazioni dettate da interessi regionali; erano elaborazioni ispirate a una visione inevitabilmente complessiva del panorama mondiale. La svolta non poteva essere più netta o più comprensiva. Da quel momento, ciò che prima era stato vero solo in modo astratto, diventava pratica quotidiana: nessun fatto in nessuna parte del mondo avrebbe lasciato indifferenti le superpotenze. Così, i tentativi di sottrarsi al duopolio avevano l’apparenza dell’efficacia ma erano privi di senso sul piano strutturale. Paesi come la Svizzera, la Svezia, l’Austria (dopo il 1955) o paesi come la Finlandia, l’India, l’Egitto (fino al 1973) potevano proclamare la loro neutralità politica ma nei fatti essi erano strettamente vincolati: i primi al mercato occidentale, i secondi al potere o all’aiuto sovietico. Questi e altri esempi di neutralismo furono solo mezzi per schivare gli oneri della partecipazione diretta. Nel momento delle scelte di fondo affioravano i rapporti tra le forze profonde. Solo a partire dal 1957 alcuni paesi dell’Europa occidentale avviarono quel processo di integrazione che, negli anni Novanta, avrebbe visto la formazione di un soggetto economico e, potenzialmente, politico, adeguato a elaborare una visione autonoma delle relazioni globali. E solo a fatica, e saltuariamente, dal 1970-71, la Cina fu in grado, con la collaborazione degli Stati Uniti, di porre in essere iniziative non solo simbolicamente ostili all’Unione Sovietica, ma antagonistiche rispetto agli interessi di fondo del governo di Mosca.
I rapporti fra i due «campi» o, come si disse allora, fra i due «blocchi», o fra le due superpotenze, erano condizionati dal modo secondo il quale si era giunti alla nuova situazione. Dal momento che ciò era il frutto di contrapposte visioni del mondo, la natura delle relazioni fra i blocchi risentì così profondamente delle tensioni non più latenti, da giungere spesso vicino al punto di rottura. Non esistevano esperienze sulle quali costruire le regole di convivenza fra due modi antagonistici di pensare e vivere le relazioni internazionali. Le concezioni sociali, la natura dei rispettivi sistemi economici, la diversità delle ambizioni politiche e dei progetti di controllo internazionale erano altrettanti elementi che gettavano combustibile nell’antagonismo fra le due superpotenze. Walter Lippmann, autorevole giornalista e studioso di relazioni internazionali, in un suo libro pubblicato nel 1947, attribuì alla contesa la definizione di «guerra fredda». Aveva attinto da altri la definizione, ma da allora essa venne comunemente condivisa per definire lo stato delle relazioni fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che vivevano una lotta combattuta con mezzi pacifici, ma con una virulenza, anche propagandistica, tale da suscitare l’impressione che il conflitto potesse definirsi come una «guerra». Da allora il termine venne utilizzato in molte sedi e in diverse circostanze per definire la natura delle relazioni bipolari. Si tratta peraltro di un uso improprio e fuorviante, poiché il concetto di guerra fredda non coincide con quello di sistema bipolare. Il primo tende a comporre all’interno di un unico paradigma interpretativo eventi che richiedono spiegazioni molto più frammentate. Inoltre esso, spingendo sino al 1989 la durata dello scontro, tende a semplificare e a rendere omogeneo il sistema delle relazioni sovietico-americane, equiparandole a un conflitto con pochi intervalli e utilizzando il concetto per riversare sulla cosiddetta logica della guerra fredda scelte interne e internazionali che nulla o poco avevano a che fare con le relazioni fra le superpotenze. In altri termini, l’uso del concetto di guerra fredda come denominatore comune della storia internazionale del secondo dopoguerra, sino alla caduta del muro di Berlino, nel 1989, è semplicistico e ingannevole e non consente di percepire una serie di mutamenti avvenuti nell’ambito del sistema bipolare né di comprendere sino in fondo la stessa natura delle relazioni fra le superpotenze. Queste non furono un continuum conflittuale, interrotto da brevi periodi di distensione. Furono invece rapporti complessi, caratterizzati da fasi diverse del modo in cui le superpotenze si posero in reciproca relazione. Per capire questa diversità è dunque necessario individuare con maggior precisione il momento d’inizio dello scontro, la posta in gioco (dato che nessuno scontro viene combattuto per diletto ma esige il conseguimento di un obiettivo), le fasi, la natura o la qualità dei protagonisti, la qualità dei soggetti che, singolarmente e come blocchi pluralistici, parteciparono allo scontro, le ragioni o i metodi che diedero, sino a un certo punto, coesione (se la diedero) ai due blocchi.
Il governo degli Stati Uniti aveva rinunciato ai grandi progetti rooseveltiani. Nel momento in cui esso attuava scelte ispirate alla dottrina del containment – cioè alle concezioni esposte da George Kennan, uno dei più autorevoli diplomatici americani, in un suo documento di lavoro (il cosiddetto «lungo telegramma») inviato da Mosca a Washington all’inizio del 1946 ma reso pubblico, nella forma di articolo non firmato, sul numero del luglio 1947 della rivista «Foreign Affairs» – mostrava di avere accettato ciò che era accaduto nell’Europa orientale. Accettava il mancato adempimento degli impegni assunti da Stalin a Teheran, Yalta e Potsdam e subiva, come un dato di fatto che non poteva essere modificato senza l’uso della forza, la sovietizzazione della zona d’occupazione orientale in Germania, della Polonia e dell’Europa balcanica. Il problema era di impedire, mediante una politica di containment, cioè di efficace risposta politica a ogni iniziativa staliniana, che i sovietici ampliassero ulteriormente il loro dominio e di aspettare che le contraddizioni insite nella natura del sistema sovietico prevalessero: aspettare con la stessa pazienza che la Chiesa cattolica sa dispiegare nella sua opera. Contenere non significava però stare inerti, ma organizzare quella parte del mondo che era ancora legata agli Stati Uniti in modo tale da dare vita a un insieme di relazioni vitali e durevoli. In tal senso, più che dalla «dottrina Truman», il ruolo fondamentale sarebbe stato svolto dal piano Marshall, l’attuazione del quale avrebbe reso possibile un completo risanamento dell’Europa e la creazione di un rapporto «virtuoso» fra l’economia americana e quella europea. Questa riflessione strategica corrispondeva alla considerazione che la supremazia dell’economia di mercato fosse il presidio della libertà politica e del progresso economico dell’Occidente. Europa occidentale e Stati Uniti avrebbero costituito, sotto l’egida americana, il soggetto capace di catalizzare l’economia mondiale, sottraendola a tentazioni collettivistiche. Il punto politicamente più delicato di questa impresa consisteva nell’acquisizione del consenso maggioritario da parte dei governi interessati, senza esercitare coercizioni visibili. Ma l’operazione risultò abbastanza semplice poiché, sebbene nei paesi interessati al piano Marshall esistessero governi moderati e governi socialisti, nessuno di questi metteva in discussione la struttura economico-giuridica dei poteri statali. Gli aiuti Marshall servivano o a rafforzare progressi in atto o ad avviare una ripresa che stentava a prendere le mosse, ma non richiedevano rivolgimenti politico-sociali. Solo in pochi casi importanti essi provocarono l’estromissione dei partiti comunisti dalle coalizioni di governo e solo in Italia tale estromissione ebbe una vasta eco, poiché le sinistre (comunista e socialista) erano in quel momento giudicate maggioritarie nel paese. D’altra parte in nessun caso tale estromissione portò alla delegittimazione dei partiti comunisti né a forme di persecuzione dell’opposizione anche remotamente paragonabili a quelle che i sovietici esercitavano nel loro «campo».
Nel complesso, fra il 1945 e il 1953, sommando gli aiuti Marshall agli aiuti straordinari e a quelli dei programmi difensivi attuati a partire dal 1951, l’Europa occidentale ricevette dagli Stati Uniti (secondo un calcolo di Gérard Bossuat) un aiuto complessivo pari a 25.365 milioni di dollari. E siccome essi furono accompagnati anche da un progetto di evoluzione della politica economica dei paesi europei meno avanzati, tesa a promuovere la produttività industriale, si può dire che contribuissero, nel loro insieme, a modificare abitudini radicate e ad accelerare l’integrazione dell’Europa occidentale in un sistema di scambi risanato e politicamente molto solido, come era negli auspici americani. Infatti, se si considera la storia politica interna dei paesi dell’Europa occidentale dopo il 1947 e, più ancora, dopo il 1948, da essa non affiorano se non momenti di tensione sociale o di polemica politica che non assunsero mai, per l’arco di tempo preso in considerazione in questo capitolo, un carattere eversivo. In Gran Bretagna, l’alternanza fra laburisti e conservatori al potere venne vissuta come un fatto naturale; in Francia, persino la crisi della decolonizzazione, quella legata al riarmo della Germania e quella correlata al ritorno al potere del generale de Gaulle nel 1958 furono vissute senza che il sistema occidentale nel suo complesso subisse forti scosse; in Italia, il successo elettorale del Partito democratico cristiano nel 1948 e poi il lento evolvere verso la formazione di coalizioni di centro-sinistra ebbero luogo senza scosse, pur con qualche increspatura legata alle attività dei servizi segreti che scorgevano nella penisola un anello debole del sistema occidentale; infine, dopo la costituzione, nel 1949, della Repubblica federale di Germania, anche il problema tedesco trovò un assetto durevole e molto più stabilmente ancorato all’alleanza occidentale o all’intesa franco-germanica di quanto ogni ottimistica previsione avrebbe lasciato prevedere.
Il «campo» sovietico era inizialmente composto da tutti i paesi occupati durante la guerra e nel 1947 esso era ormai giunto a un grado di coesione piuttosto elevato. Non vi fu da parte sovietica una politica di aiuti per la ricostruzione, poiché l’economia dell’Urss doveva in quella fase sopportare oneri ben più pesanti di quella americana. Vi fu piuttosto una politica di sfruttamento delle risorse dei paesi occupati e in particolare della zona orientale della Germania. Il punto centrale delle relazioni interne al blocco orientale era rappresentato tuttavia da una questione che, sotto l’aspetto ideologico, velava il problema della misura di controllo che il sistema staliniano avrebbe potuto esercitare. La nascita del Cominform aveva delineato i termini del problema. Essi riguardavano la distinzione fra «internazionalismo proletario» e «vie nazionali al socialismo». Dirigenti del comunismo polacco come Władisław Gomułka, di quello bulgaro, come Trajcho Kostov, di quello rumeno, come Lucretiu Pătrăs¸canu, di quello ungherese, come László Rajk, e di quello jugoslavo, come il maresciallo Tito, propendevano verso una concezione «nazionalistica» del comunismo, cioè verso una politica di riforme radicali del sistema sociale, attuate secondo le condizioni particolari di ogni paese. L’idea di un blocco comunista coeso e dominato con mano di ferro da Mosca doveva fare i conti con la realtà di queste propensioni a ricercare le «vie nazionali» al socialismo. Agli occhi di Stalin ciò rappresentava un pericolo per la solidità del sistema, poiché il nazionalismo era come un’idra dalle cento teste, capace di rispuntare nei luoghi più impensati.
Il chiarimento fra le due concezioni ebbe luogo a partire dalla conferenza istitutiva del Cominform. Dopo di allora divenne chiaro che le «vie nazionali» erano un’eresia. Chi le sosteneva venne eliminato dalla dirigenza del suo partito e dalla vita politica, sottoposto a processo e, in non pochi casi, condannato a morte. Nel febbraio 1948 anche la «diversità» cecoslovacca venne risolta con il rovesciamento di ciò che restava del dominio borghese e la creazione di un regime di «democrazia popolare», come si diceva allora, affidato alla risolutezza di Klement Gottwald. Nel mese di giugno dello stesso anno ebbero luogo l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, per deviazionismo ideologico, e il «blocco di Berlino». Da un punto di vista internazionale, entrambi gli eventi mettevano in luce i problemi interni al blocco sovietico. Tuttavia fu il «blocco di Berlino» a dar luogo alle conseguenze più durevoli.
Posta al centro della zona sovietica, Berlino era amministrata da un’assemblea cittadina nella quale i partiti filoccidentali avevano l’80 per cento dei voti e i socialisti prosovietici il 20 per cento. Questa distribuzione risentiva del contesto politico e di quello ambientale. Negli accordi tecnici raggiunti dopo Potsdam, erano stati definiti corridoi ferroviari, autostradali e aerei lungo i quali americani, francesi e britannici potessero comunicare con le rispettive zone di occupazione. Queste intese richiedevano la volontà sovietica di collaborare e la rinuncia a ogni tentativo di annullare l’internazionalizzazione di Berlino. Invece tale proposito emerse con vigore durante la primavera del 1948, quando nelle tre zone occidentali si incominciò a parlare di riforma monetaria, preludio all’unificazione delle stesse zone d’occupazione. L’attuazione della riforma annullava il valore dei marchi emessi dalle forze d’occupazione sovietiche ma l’introduzione del marco occidentale a Berlino avrebbe avuto conseguenze importanti nel confronto tra il potere d’acquisto reale delle singole monete allora circolanti nella città. I sovietici accusarono gli occidentali di avere violato gli accordi di Potsdam sull’unità economica della Germania e, alla fine del giugno 1948, bloccarono le comunicazioni via terra fra Berlino e le zone occidentali della Germania. Era una sfida alla capacità anglo-americana di tenere aperta una «vetrina» occidentale nella capitale tedesca e, al tempo stesso, una netta sfida alla capacità degli occidentali di rispondere alla provocazione. La sfida venne raccolta e un ponte aereo venne istituito fra le zone occidentali e l’ex capitale tedesca. Nel febbraio 1949 si calcolava che ogni due minuti un aereo atterrasse negli aeroporti occidentali di Berlino, con carichi complessivi di 7-8.000 tonnellate di merci al giorno: più del doppio del minimo vitale. Così il blocco si trasformò in una misura controproducente: espressione tangibile dell’incertezza che dominava Mosca quando la questione tedesca veniva posta sul tappeto. Il blocco venne tolto il 12 maggio 1949, circa un mese dopo la firma del Patto atlantico, quando la nascita di due stati separati in Germania era sul punto di essere completata. Da allora Berlino divenne una città simbolo della fase acuta della guerra fredda, della divisione dell’Europa e del modo diverso nel quale i regimi occidentali e quelli dell’Europa orientale organizzavano la loro vita pubblica e privata.
I continui cambiamenti alla guida dei partiti comunisti o dei governi dei paesi satelliti dell’Europa orientale e le persistenti polemiche sulle riforme sociali da introdurre in tali paesi erano la spia dell’impossibilità (o dell’incapacità) del governo di Mosca di mantenere la coesione in un mondo così profondamente solcato dalle diversità e dalle rivalità; erano anche l’espressione del fallimento del progetto di trasformare tutti i paesi del blocco secondo modelli omogenei e coordinati. Il tentativo di costringere, con mezzi repressivi, l’economia dell’Europa orientale a collegarsi con quella sovietica e a trasformarsi secondo le esigenze indicate da Mosca si scontrava contro l’obiettiva difficoltà di modificare modi di vita che avevano radici secolari. Durante tutta la sua storia, il blocco sovietico conobbe un solo momento di convergenza, nel maggio 1955, quando venne firmato il trattato istitutivo del Patto di Varsavia, in risposta alla creazione della Nato e al riarmo della Germania (v. p. 235). Attraversò invece periodiche fasi di crisi, non fisiologiche, ma tali da manifestare la realtà di una convergenza imposta dalla forza. Dopo lo scisma jugoslavo del 1948, nel giugno 1953 lo sciopero generale proclamato nella Germania Est e le sollevazioni operaie furono repressi con l’uso dei carri armati, causando centinaia di vittime; nel 1956 la crisi della destalinizzazione attraversò tutta l’Europa centro-orientale, suscitando la ribellione dei polacchi, placata con mezzi pacifici, e la rivolta ungherese, risolta con una repressione sanguinosa e in un clima di anticomunismo mondiale paragonabile a quello vissuto nel 1939, ai tempi del patto nazi-sovietico; nel 1961, il governo della Germania orientale, per porre un argine alla fuga verso ovest di centinaia di migliaia di persone, fu spinto verso la decisione di costruire il famigerato «muro di Berlino», simbolo della frattura europea; pochi anni dopo, nel 1968, le truppe sovietiche e quelle del Patto di Varsavia dovevano ricondurre all’ordine voluto da Mosca la Cecoslovacchia, dopo il vano tentativo di instaurare nel paese un «socialismo dal volto umano», come dissero allora i protagonisti della vicenda.
Le superpotenze erano dunque presenti in Europa secondo modelli molto diseguali. In tale diseguaglianza erano già presenti in nuce le ragioni della successiva trasformazione. Nella prima fase della guerra fredda, press’a poco sino al 1955, esse operarono, con diverso risultato, per il consolidamento dei blocchi rispettivi. Era, questo, il modo di evolv...

Table of contents

  1. Introduzione
  2. I. Nascita e morte precoce della «nuova diplomazia»
  3. II. Il fallimento della politica di sicurezza
  4. III. La fortezza Europa
  5. IV. La guerra globale e la genesi del sistema occidentale 1941-1947
  6. V. Dalla Guerra fredda alla coesistenza competitiva1947-1964
  7. VI. L’egemonia di due imperi e i suoi limiti1964-1979
  8. VII. L’impero tecnologico e i suoi nemici: nuovi attori
  9. Bibliografia
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di Nolfo, E. (2014). Dagli imperi militari agli imperi tecnologici ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3459925/dagli-imperi-militari-agli-imperi-tecnologici-la-politica-internazionale-dal-xx-secolo-a-oggi-pdf (Original work published 2014)

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Nolfo, Ennio di. (2014) 2014. Dagli Imperi Militari Agli Imperi Tecnologici. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3459925/dagli-imperi-militari-agli-imperi-tecnologici-la-politica-internazionale-dal-xx-secolo-a-oggi-pdf.

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di Nolfo, E. (2014) Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3459925/dagli-imperi-militari-agli-imperi-tecnologici-la-politica-internazionale-dal-xx-secolo-a-oggi-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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di Nolfo, Ennio. Dagli Imperi Militari Agli Imperi Tecnologici. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2014. Web. 15 Oct. 2022.