Contro-rivoluzione
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Contro-rivoluzione

La sfida all'Europa liberale

Jan Zielonka, Michele Sampaolo

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Contro-rivoluzione

La sfida all'Europa liberale

Jan Zielonka, Michele Sampaolo

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In tutta Europa è in atto una vera e propria contro-rivoluzione che attacca i fondamenti liberali del continente. Alcuni dei 'controrivoluzionari' sono neofascisti, altri sono neocomunisti; alcuni sono contro l'austerità, altri contro i musulmani; alcuni sono secessionisti, altri nazionalisti; alcuni sono moderati, altri estremisti. Ma tutti hanno una cosa in comune: sono contrari all'ordine liberale e ai suoi progetti chiave come l'integrazione europea, il liberalismo costituzionale e l'economia liberista.In tutta l'Europa il sistema liberale pare sgretolarsi. Non solo a Varsavia o Budapest, ma anche a Londra, Roma, Atene e Parigi. I cittadini europei si sentono arrabbiati e in pericolo. La violenza politica è in aumento. Come è possibile che un continente prospero e pacifico stia andando in pezzi? Jan Zielonka, liberale di lungo corso, riflette in modo critico e autocritico sulla caduta del liberalismo e sulla nascita di movimenti populisti in tutto il continente partendo da un dato: i populisti guadagnano voti perché i liberali hanno completamente screditato il loro nobile progetto. La lista delle colpe dei liberali dal 1989 è lunga: le diseguaglianze sono drammaticamente cresciute, l'evasione fiscale si è diffusa, i tagli alla spesa sociale sono ben noti. I liberali non hanno davanti una strada facile: quanto prima capiranno il senso di quel che sta accadendo, tanto maggiori saranno per loro le possibilità di rendere di nuovo credibile il loro progetto.

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Information

Year
2018
ISBN
9788858134436

1.
Dalla rivoluzione alla contro-rivoluzione

Caro Ralf,
poche ore dopo l’annuncio dei risultati del referendum sulla Brexit, gli studenti e i tutor del tuo St Antony’s College si radunarono nello European Studies Centre. La maggior parte dei presenti – una piccola folla abbastanza internazionale – aveva l’aria depressa, alcuni avevano le lacrime agli occhi. Non potevano credere che la maggioranza degli elettori inglesi si fosse espressa per l’abbandono dell’Unione europea. Non riuscivano a capacitarsi che un mare di argomenti razionali addotti a sostegno del «remain», cioè del voto per la permanenza nell’Unione, fosse scivolato su orecchie completamente sorde. Perché mai un così ampio corpo di dati statistici che mostravano chiaramente i costi della scelta di uscire dall’Unione europea era stato ignorato? Come potevano i britannici, notoriamente pragmatici, rifiutare di fidarsi dei loro accademici, giornalisti, esperti? E perché politici ambigui come Nigel Farage, Andrea Leadsom e Michael Gove avevano potuto prevalere sui vincitori di recenti elezioni parlamentari come David Cameron e George Osborne? Molte di queste domande rimanevano senza risposta.
Poco prima del referendum sulla Brexit mi trovavo in Italia, dove il Movimento 5 Stelle guidato da Beppe Grillo aveva conquistato il controllo di Roma e Torino nelle elezioni comunali. A Roma, l’amministrazione di sinistra era stata accusata dal Movimento 5 Stelle di nepotismo, incompetenza e corruzione. I risultati elettorali erano stati un colpo inaspettato per il leader del Partito Democratico, il capo del governo Matteo Renzi. Davanti allo stupore dei commentatori italiani Grillo dichiarò apertamente: «Voi non riuscite a capire, non avete capito la nascita di questo movimento, perché lo inglobate nel vostro linguaggio; non riuscite a capire l’evoluzione di questo movimento perché lo inglobate nello stesso linguaggio. State fuori dalla realtà»1. Qualche mese più tardi Matteo Renzi rassegnava le dimissioni da Primo ministro per non essere riuscito a raccogliere una maggioranza a favore delle sue riforme costituzionali nel referendum del novembre 2016.
Dopo il referendum sulla Brexit volai in Polonia dove i partiti di opposizione accusavano il vincitore delle elezioni dell’anno precedente di architettare un colpo di mano costituzionale capace di provocare la paralisi del sistema giudiziario e di purgare i mezzi di comunicazione sociale dalle critiche sospette. «Non sono un dittatore», affermava Jarosław Kaczyński al quotidiano «Rzeczpospolita»: «La Polonia è un esempio di democrazia e un’isola di libertà in un mondo in cui la libertà scarseggia»2.
Che cosa sta succedendo? Come possiamo stabilire la verità in questa era di post-verità? Gli elettori europei sono diventati stupidi? Nigel Farage, Beppe Grillo, Jarosław Kaczyński sono profeti o impostori? Le tre esperienze politiche richiamate da questi nomi hanno qualcosa in comune? Rappresentano un nuovo sviluppo nella politica europea e, se sì, come dobbiamo chiamarlo?3 È del tutto evidente che stiamo attraversando tempi turbolenti dagli esiti altamente incerti. Punti fermi del passato non reggono più. La politica simbolica ha preso il posto della politica reale. Tutto oggi sembra possibile. E tuttavia abbiamo bisogno di dare un senso alla storia che percorre l’Europa con una forza e una velocità mai conosciute da quando tu scrivesti le Riflessioni sulla rivoluzione in Europa circa trent’anni fa.
Consentimi di ritornare a quelli che erano i tuoi temi e di inquadrare gli sviluppi attuali sullo sfondo della «rivoluzione» del 1989 da te esaminata. Lo faccio, perché ho l’impressione che stiamo assistendo a uno sforzo concertato di smantellare il sistema creato dopo la caduta del Muro di Berlino. Siamo di fronte a una «contro-rivoluzione».
Quel che accadde in Gran Bretagna il 23 giugno 2016 è solo uno dei tanti episodi che annunciano la nascita di un potente movimento teso a distruggere la narrazione e l’ordine che hanno dominato tutto il continente dopo il 1989. Sotto attacco non è solo l’Unione europea ma anche altri simboli dell’ordine attuale: la democrazia liberale e l’economia liberista, la migrazione e una società multiculturale, «verità» storiche e correttezza politica, partiti politici moderati e media tradizionali, tolleranza culturale e neutralità religiosa. Come i citati casi italiano, britannico e polacco mostrano, ci sono variazioni locali di questo movimento, ma il denominatore comune è il rifiuto nei confronti delle persone e delle istituzioni che hanno governato l’Europa negli ultimi tre decenni. Inoltre, è bene che non ci illudiamo puntando sui risultati delle elezioni del 2017 in Olanda, in Francia e nel Regno Unito. Per conquistare il voto popolare Mark Rutte, Emmanuel Macron e Theresa May hanno abbracciato un po’ della retorica contro-rivoluzionaria. Rutte ha castigato gli immigranti, Macron ha colpito duro sui partiti tradizionali, e May si è fatta carico di una difficile Brexit. Può sopravvivere il liberalismo con così tanti addobbi illiberali? Devono i liberali rallegrarsi perché dei populisti più morbidi hanno prevalso sui populisti duri? Anche nella prospera e stabile Germania la destra nazionalista di Alternative für Deutschland (AfD) è entrata nel Bundestag con quasi cento seggi nelle elezioni del 2017. Angela Merkel è rimasta in sella, ma il suo partito e gli alleati socialdemocratici hanno subìto una storica sconfitta.
E allargando lo sguardo al contesto geopolitico più generale, vediamo che politici illiberali sono al governo con la benedizione degli elettori nei due più grandi vicini dell’Europa, la Turchia e la Russia. Pure l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America ha gravi ripercussioni sul vecchio continente. Per quanto separati dall’Europa dall’Atlantico, gli Stati Uniti sono essenzialmente una potenza europea; nessuna decisione importante viene presa in Europa senza avere in mente l’America. Donald Trump parla come molti contro-rivoluzionari europei, e durante la sua corsa per la presidenza ricevette l’endorsement pubblico di eminenti ribelli europei come Marine Le Pen e Nigel Farage.

Il significato del cambiamento

Perché questa è una contro-rivoluzione? Nelle strade europee non ci sono barricate né scioperi e sit-in nelle fabbriche. Non c’è una particolare ideologia che ispiri e unisca i movimenti di protesta. Si parla molto di antipolitica, ma quelli che guidano la protesta creano partiti e cercano di vincere le elezioni. Sarebbe però un errore immaginare che rivoluzione e contro-rivoluzione debbano sempre comportare mobilitazioni di massa ed esplosioni di violenza in una data precisa. Il comunismo è crollato senza nessuna violenza o quasi. Meno di dieci anni prima, nel 1980, il movimento di Solidarność in Polonia era stato in grado di organizzare scioperi di massa. Il cambiamento fu realizzato principalmente attraverso patti fra le vecchie e le nuove élites e tramite elezioni. È tuttavia difficile negare che questo processo relativamente pacifico cambiò l’Europa fino a renderla irriconoscibile. La storia non finì, e anzi il vecchio ordine è stato a poco a poco sostituito da uno nuovo. Se alcuni degli ex comunisti riuscirono a rimanere al potere, fu solo dopo aver accettato di appoggiare il nuovo ordine liberale. Per questo tu giustamente applicasti a questa trasformazione il termine rivoluzione, pur con molte riserve. E da quando tu scrivesti il tuo libro nel 1990, la rivoluzione ha fatto molta strada.
L’Unione Sovietica e la Iugoslavia si sono disintegrate, la Germania è stata riunificata e l’Unione europea come pure la Nato si sono allargate notevolmente. Gli eserciti, le leggi, le imprese e le consuetudini occidentali hanno camminato verso est. Molti salutarono con entusiasmo i nuovi regimi nel loro territorio, ma alcuni si sentirono svantaggiati, o a causa della loro appartenenza etnica (per esempio i russi in Lettonia, i serbi in Bosnia-Erzegovina) o perché privi di capacità professionali adeguate per tenersi a galla nel nuovo ambiente competitivo. Si stabilì comunque efficacemente in Europa un duraturo equilibrio di potere. Ben presto la Russia cominciò a vedersi come un paese sfavorito, ma anche la Francia si trovò in una posizione più debole di prima nei confronti della Germania.
La rivoluzione geopolitica fu seguita dalla rivoluzione economica. Con la caduta del comunismo, furono messi sotto tiro alcuni dei suoi ideali: il collettivismo, la redistribuzione, la protezione sociale e l’intervento statale in economia. Questo ha spianato la strada a un’economia neoliberista in tutto il continente, non solo in Gran Bretagna. La deregolazione, la mercatizzazione e la privatizzazione divennero le parole d’ordine anche in Stati guidati da partiti socialisti. E così il settore privato è andato via via espandendosi a spese del settore pubblico. I mercati e i valori di mercato si sono un po’ alla volta insinuati in Europa in sfere che di solito nel passato erano state tenute in mano dal settore pubblico, come la salute, l’istruzione, la sicurezza pubblica, la tutela ambientale e persino la sicurezza nazionale. La spesa sociale è andata contraendosi, quando non è stata tagliata del tutto, per certi gruppi svantaggiati. Anche in paesi come la Francia o la Spagna, un tempo patrie di sindacati potenti, meno del 10 per cento della forza lavoro era ora unito in sindacato. Dal 1989, l’adesione al sindacato di Solidarność è calata di cinque volte; oggi meno del 5 per cento della forza lavoro della Polonia è sindacalizzata.
In Europa, la politica si è configurata sempre più come un’arte di ingegneria istituzionale anziché come arte di negoziazione fra le élites e l’elettorato. Poteri in numero sempre maggiore sono stati delegati a istituzioni non elettive (cioè non elette direttamente dal popolo e definite a volte dagli studiosi non maggioritarie) – banche centrali, corti costituzionali, agenzie regolatorie – per assicurare che a guidare le decisioni politiche fosse la ragione e non la passione. La politica incline a cedere alla pressione pubblica era considerata irresponsabile, se non pericolosa. Alle maggioranze veniva imputato di essere inclini a spendere denaro che non avevano, a discriminare le minoranze d’ogni tipo, a sostenere cause eticamente intricate come la pena di morte e la tortura. I cittadini dovevano essere educati, piuttosto che ascoltati. L’idea che gli interessi pubblici debbano rispecchiare i desideri pubblici è stata messa in discussione. Si affermava che gli interessi siano individuati meglio dagli esperti: generali, banchieri, mercanti, giuristi e, naturalmente, leader dei partiti di governo.
Con l’allargamento dei suoi poteri a seguito del Trattato di Maastricht del 1992, l’Unione europea è diventata un prototipo di istituzione non elettiva, guidata da esperti «illuminati» largamente indipendenti dalle pressioni elettorali. Il Consiglio europeo, è vero, è costituito da politici democraticamente eletti, ma l’introduzione del voto a maggioranza ha reso difficile per gli Stati membri mettere il veto per alcune decisioni. Di fatto, gli esecutivi nazionali si sono dimostrati desiderosi di aggirare i rispettivi parlamenti assumendo decisioni nel Consiglio europeo.
Gli storici potranno mettere in dubbio la mia periodizzazione. Gli ideali liberali hanno influenzato diverse generazioni di politici a partire dall’età dell’Illuminismo. Partiti che si chiamavano formalmente liberali hanno avuto più potere prima del 1989 che dopo4. L’economia neoliberista si era andata affermando nell’Europa occidentale per un certo numero di anni prima della caduta del Muro di Berlino. La democrazia di tipo liberale nacque nell’Europa orientale nel 1989, ma nell’Europa occidentale era nata molto prima. Ciò detto, il 1989 rappresentò un trionfo simbolico degli ideali liberali. Con la caduta del Muro di Berlino il liberalismo divenne «l’unico giocatore in campo» nel continente. Gli Stati post-comunisti diventarono i difensori più entusiasti delle economie neoliberiste. Si lanciarono anche con grandissimo fervore nel processo di integrazione europea. Varie correnti di liberalismo confluirono in un unico progetto ideologico paneuropeo; raggruppamenti politici precedentemente distinti del centro-sinistra e del centro-destra si unirono sotto la bandiera liberale; l’ordine liberale fu abbracciato in luoghi geografici lontani come Lisbona, Helsinki e Bucarest. In questo senso, la rivoluzione liberale fu in effetti costruita sulle rovine del Muro di Berlino, anche se la storia non finisce mai e non inizi...

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