Volgare eloquenza
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Volgare eloquenza

Come le parole hanno paralizzato la politica

Giuseppe Antonelli

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Volgare eloquenza

Come le parole hanno paralizzato la politica

Giuseppe Antonelli

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Giuseppe Antonelli ci accompagna alla scoperta del 'politicoso', un linguaggio urlato, elementare e artificialmente popolare che ha fatto irruzione nelle nostre case, rimbalzando all'impazzata tra televisione e social network. I politici hanno adeguato il loro linguaggio a quello dei destinatari, accogliendo un lessico ad alta frequenza e con costruzioni sintattiche piane: è il passaggio dal paradigma della superiorità a quello del rispecchiamento.Irene Cagliero, "L'Indice"

Oggi a dominare il discorso politico sono gli 'emologismi' e cioè parole, frasi, formule che funzionano come emoticon e che sembra abbiano occupato tutto lo spazio, anche quello del pensiero. A ogni condivisione diventano più pesanti, ma intanto perdono il loro peso specifico. Un esempio per tutti: 'onestà'.Paolo Conti, "Corriere della Sera"

Oggi l'eloquenza di molti politici può essere definita volgare proprio a partire dall'uso distorto della parola e del concetto di popolo. L'italiano populista ostenta una popolarità artificiale e orgogliosamente becera. Puntando sul politicamente e sul grammaticalmente scorretto, usa turpiloquio e strafalcioni come nella retorica classica si usavano gli ornamenti stilistici.

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Information

Year
2019
ISBN
9788858136300

1.
In nome
del popolo seguace

Non è un fenomeno nuovo, ma è in preoccupante ascesa:
quello dell’odio come strumento di lotta politica.
L’odio e la violenza verbale, quando vi penetrano,
si propagano nella società, intossicandola.
(Sergio Mattarella, Messaggio di fine anno
del presidente della Repubblica
, 2016)
Una mattina di giugno, poco meno di un anno fa, mi sono trovato a passare con mia moglie e mia figlia per piazza del Popolo. Noi abitiamo a Roma, per piazza del Popolo ci passiamo spesso, soprattutto nel fine settimana. Anche perché mia figlia, che ha sei anni, ama molto le bolle di sapone giganti che un signore fa lì in piazza proprio per attirare l’attenzione dei bambini.
Quel giorno, però, la sua attenzione è stata attirata dal grande palco che stavano finendo di montare su lato opposto. «Che cos’è papà, ci fanno un concerto?». «No, amore: stanno preparando la festa di un partito politico». La sera Virginia Raggi avrebbe chiuso la campagna elettorale che l’avrebbe portata a essere la prima sindaca di Roma.
Neanche il tempo di finire la frase, che sentiamo una voce dal tono aggressivo alle nostre spalle: «Non è un partito, è un movimento!». Mi giro e vedo un ragazzo per mano a una ragazza: mi sta guardando con aria di sfida. Capisco che è meglio lasciar perdere.
«Ti è mai venuto in mente che a forza di gridare / la rabbia della gente non fa che aumentare? / La forza certamente deriva dall’unione / ma il rischio è che la forza soverchi la ragione». Così cantava Daniele Silvestri nel 1994. Un anno decisivo per la politica italiana: l’anno della cosiddetta discesa in campo di Silvio Berlusconi. Oggi il tasso di aggressività è molto aumentato. Basta vedere cosa succede in rete quando il capo del nuovo Movimento lancia la sua fatwa contro qualche personaggio pubblico. Il linguaggio rozzamente rissoso a cui i politici ricorrono sempre più spesso, d’altronde, non può che autorizzare – anzi: incoraggiare – un uso altrettanto scurrile e violento da parte dei seguaci. «La gente che grida parole violente / non vede, non sente, non pensa per niente».
Non un partito, un movimento. Proprio come il «Movimento politico Forza Italia» fondato da Berlusconi. A dispetto di tutto l’odio riversato su di lui in questi anni, il linguaggio non-politico (anti-politico) dei Cinque stelle è figlio proprio di Berlusconi e della rivoluzione linguistica che ha segnato la cosiddetta seconda Repubblica. È l’esito, tutto sommato prevedibile, di una evoluzione (involuzione) che nel giro di pochi anni ha portato l’italiano della politica da una lingua artificialmente alta a una lingua altrettanto artificialmente bassa. Una lingua basica, elementare, grossolana. Apparentemente chiara, in realtà vuota, dal momento che si limita a ignorare o banalizzare le complesse questioni a cui dovrebbe far fronte.
Questo passaggio è stato accelerato dallo spostamento del dibattito politico prima nell’ambito della chiacchiera televisiva (i talk show), poi di quella telematica (i blog, i social network, le chat). E ha fatto tutt’uno con il passaggio dall’argomentazione alla narrazione e il conseguente abbandono di una vera dialettica. «Proliferazione di parole che cerca di colmare il difetto di presa sul reale» la definisce Christian Salmon nel suo La politica nell’era dello storytelling.
Lo spazio delle parole si è ampliato a dismisura, ma nella stessa misura si è ridotto il tempo per il ragionamento e la discussione. Le uniche parole sono rimaste, così, parole d’ordine (o di disordine) ripetute all’infinito, riprese a voce sempre più alta per coprire la voce di chi in quelle parole non si riconosce. Alla partecipazione si è sostituita la condivisione. Un meccanismo che sfrutta la reticolare orizzontalità della rete, ma è in realtà verticale e verticistico. Perché trasforma ogni attivista in un passivo ripetitore impegnato a diffondere, rilanciandolo, un messaggio preconfezionato.
La politica si è sempre nutrita di parole, certo. Ma adesso le parole sembrano aver occupato tutto lo spazio: anche quello che dovrebbe essere del pensiero. A ogni condivisione diventano più pesanti, ma intanto perdono il loro peso specifico. La loro stessa genericità le allontana progressivamente dalla concretezza dei fatti, fino a renderle – sempre più spesso – parole senza le cose. Dietro all’apparenza di un falso movimento, le parole stanno paralizzando la politica.
Come sappiamo bene, si tratta di un processo che non riguarda solo l’Italia. Un libro recente, scritto da Mark Thompson (già direttore della BBC, ora presidente e chief executive del «New York Times»), s’intitola La fine del dibattito pubblico. Vale a dire di un confronto dialettico basato sulle idee e sulle proposte, cosa ben diversa dall’aggressiva faziosità politica sempre più simile al tifo calcistico. Proprio al tifo calcistico, d’altra parte, rimandava nel 1994 il nome scelto da Berlusconi per il suo movimento: Forza Italia. Per sottolineare l’analogia sportiva, gli iscritti ai «club» di Forza Italia furono chiamati «gli azzurri», e la sua entrata in politica fu appunto definita «discesa in campo». Berlusconi – all’epoca presidente di un Milan che era tra le squadre più forti del mondo – aveva fatto scrivere anche un inno, da cantare in coro per sentirsi parte di un’unica squadra. «E Forza Italia / è tempo di credere / dai Forza Italia / che siamo tantissimi».
Per non essere da meno, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo di inni ne ha cambiati già tre. Prima c’è stato Ognuno vale uno, poi Non sono partito del rapper Fedez. Infine, annunciato con grande enfasi dal blog dello stesso Grillo, ecco – nel settembre 2015 – il nuovo inno «da imparare a memoria»: Lo facciamo solo noi! di Max Bugani.
La struttura della canzone ricalca quella della leggendaria Siamo solo noi di Vasco Rossi. «Lo facciamo solo noi / di salire sopra il tetto / di pretendere rispetto / da chi proprio non ce n’ha. / Lo facciamo solo noi / di non fare compromessi / di restar sempre noi stessi / per amore di onestà». Per suonare ancora più rock, però, quest’inno trova il modo di usare anche una parolaccia: «noi finanziamo le piccole imprese / loro le fottono con la politica» (forse due: anche politica, usata così, sembra quasi una parolaccia). E ostenta un bell’indicativo al posto del congiuntivo, che fa sempre molto ribelle: «noi lavoriamo anche quando è Natale / a loro sembra che è sempre domenica».
Ma la vera differenza con la canzone di Vasco Rossi sta nel fatto che qui tutta la struttura sintattica si basa su quella che i linguisti chiamano «dislocazione a destra». Quel costrutto per cui, ad esempio, diciamo «lo bevo amaro, il caffè», invece di «bevo il caffè amaro». In questo caso: lo facciamo solo noi di X. «Lo facciamo solo noi / di difendere l’ambiente / di arrestare il delinquente / che avvelena la città. / Lo facciamo solo noi / di non prendere i rimborsi / di far fatti e non discorsi / per la nostra Italia».
Un caso? Forse sì. Però, a proposito di destra, colpisce che la nostra Italià suoni – accento a parte – un po’ come Forza Italia. Senza contare che il «per fortuna che qui prima o poi / governiamo noi» su cui si chiude l’inno dei Cinque stelle riporta dritti dritti a un altro inno di Forza Italia: Meno male che Silvio c’è. (E quel «governiamo noi» ricalca l’hashtag #Vinciamonoi lanciato dal movimento di Grillo durante la campagna per le europee 2014: quello che – dopo la clamorosa vittoria del PD – qualcuno trasformò in un ironico #Vinciamopoi).
Nel testo scelto da Grillo c’è tutto il lessico classico del qualunquismo populista. Se i buoni siamo noi, i cattivi sono loro. Ma loro chi? Le tre marionette, ad esempio («accidenti a ’ste tre marionette / fan più danni delle sigarette»): un’espressione che rimanda al berlusconiano teatrino della politica. O, meglio ancora, la casta: «le autoblu le lasciamo alla casta». Con quel riferimento alle auto blu che non può non farci venire in mente il compianto Rino Gaetano: «auto blu, sangue blu, cieli blu, amore blu... nuntereggae più... PCI PSI nuntereggae più / DC DC nuntereggae più / PCI PSI PLI PRI DC DC DC DC nuntereggae più».
Un movimento, non un partito. Anzi: un anti-partito. Proprio come il Movimento Sociale fondato da Giorgio Almirante. Già Mussolini, d’altronde, metteva tra i tanti -ismi da combattere anche il partitismo. «Il partitismo nella storia è il più grande nemico della verità e della giustizia», si legge nel Manuale di metodologia storica di Domenico Battaini, pubblicato la prima volta nel 1904, ma ripubblicato e adottato nelle scuole superiori nel 1934, anno XII dell’era fascista. «Non mi devi giudicare male / anch’io ho tanta voglia di gridare / ma è del tuo coro che ho paura / perché lo slogan è fascista di natura».
Che dire di un movimento il cui leader, durante la prima campagna per le elezioni politiche, esclamò a muso duro: «apriremo il Parlamento come una scatola di tonno»? Tanto valeva, allora, farne un «bivacco di manipoli». Affermare che in democrazia non c’è bisogno di istituzioni rappresentative – perché i politici devono rispondere solo al popolo – implica automaticamente (ed etimologicamente) il passaggio dalla democrazia alla demagogia, ovvero al populismo.
Donald Trump, il magnate milionario eletto al di fuori e contro la volontà del suo stesso partito repubblicano, ha chiuso il discorso d’investitura a presidente degli Stati Uniti con un solenne: «Oggi non è in atto solo il trasferimento di potere da un’amministrazione all’altra, o da un partito all’altro: noi trasferiamo il potere da Washington D.C. e lo restituiamo a voi, il popolo». Solenne quanto ridicolo. E non solo perché – come subito è stato notato – sembrava ripetere le parole di uno dei nemici di Batman in uno dei film dedicati al supereroe di Gotham City: «Noi togliamo Gotham ai corrotti! Ai ricchi! Ai persecutori di generazioni che vi hanno sottomesso con la chimera di un’opportunità, e la restituiamo a voi, il popolo». Ma soprattutto perché, come ha notato Michele Serra, si tratta di un appello puramente demagogico. «Non esiste “il popolo”, esistono le moltitudini di individui che si raggruppano e si dividono, si alleano e si combattono, cambiano vita e cambiano idea. Nessuno – tranne i dittatori e gli imbroglioni – ha il diritto di parlare “in nome del popolo”».
«In nome del popolo», proprio lo slogan scelto in Francia da Marine Le Pen per la sua campagna alle elezioni presidenziali. «Dove cazzo sta il popolo sovrano?», si domandava Beppe Grillo in uno dei suoi comizi. E viene davvero da chiederselo, visto che quello dei Cinque stelle sembra più che altro un popolo seguace, senza diritto individuale di parola per quanto riguarda le dichiarazioni pubbliche e stretto da vincoli di mandato suggellati con contratti di diritto privato. Un popolo unito soprattutto dalla condivisione – più o meno passiva e virtuale – delle parole che partono dall’alto. Perché uno vale uno, ma c’è sempre qualcuno più uno degli altri.
Demos in greco significava popolo. La democrazia è – etimologicamente – il potere del popolo. La demagogia il potere dei capipopolo. Nella storia della politica italiana, anche per ragioni che vanno al di là dell’Italia, democratico è stato un aggettivo più usato dalla sinistra mentre il suo sinonimo popolare è sempre stato più caro all’area cattolica. Ora, scomparsa la prospettiva legata ai due grandi partiti di massa, l’area più affollata risulta di gran lunga quella tenuta insieme dall’aggettivo populista. Ci si ritrovano non solo i movimenti di Grillo, Salvini e Meloni, ma anche – almeno in parte – ciò che resta del centrodestra e del centrosinistra.
In latino il popolo si chiamava vulgus. Dunque volgare aveva in origine l’accezione di «popolare», anche nel senso di «comune a tutti». Il senso che oggi diamo alla parola – quello di «rozzo, triviale» – comincia a diffondersi solo dal Cinquecento. Ecco perché Dante chiamava volgare la lingua parlata dal popolo: quella che nel De vulgari eloquentia considerava ormai abbastanza nobile da potersi sostituire al latino.
Oggi, l’eloquenza di molti politici può essere definita volgare proprio a partire dall’uso distorto che fa della parola e del concetto di popolo. Un uso dal quale discende quasi sempre una retorica dell’abbassamento. Nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue. Qualcuno a cui rivolgersi con frasi ed espressioni terra terra, cercando di risvegliarne bisogni e istinti primari. O tutt’al più come un popolo bambino: un capricciosissimo moccioso da viziare in ogni modo pur di portarlo dalla propria parte. Questa eloquenza è volgare perché da questa idea di popolo discende una lingua che è al tempo stesso paternalista e antipedagogica.
Vent’anni fa la parola popolo era cara soprattutto a Berlusconi e a Bossi. Era stato lo stesso Bossi – prima ancora di Berlusconi – a parlare spesso della gente («la mia gente»), usando un vocabolo che, presto bruciato dall’abuso giornalistico (la gggente di Maurizio Costanzo e di Sandro Curzi), contrastava col più neutro (i...

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