Scritti di storia, politica e diritto
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Scritti di storia, politica e diritto

Filippo Gonnelli, Immanuel Kant

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Scritti di storia, politica e diritto

Filippo Gonnelli, Immanuel Kant

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Assieme alla prima parte della Metafisica dei costumi, questi scritti costituiscono l'intero «corpus» del pensiero giuridico-politico di Kant. Essi sono inoltre la fonte principale per la comprensione della sua dottrina etico-politica della storia nonché delle connessioni tra questa e la «storia naturale» del genere umano.La presente traduzione è stata condotta sulla edizione della Accademia delle Scienze di Berlino (1902 sgg.), comparata con quella di W. Weischedel (Frankfurt a.M. 1964). I testi di Per la pace perpetua e Sul detto comune sono stati ricontrollati sulla recente edizione critica di H.F. Klemme (Hamburg 1992).

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Information

Year
2015
ISBN
9788858118320

XII. Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanuel Kant [1795]

Alla pace perpetua1
Può essere lasciato in sospeso se questa iscrizione satirica sull’insegna di un certo oste olandese, sulla quale era dipinto un cimitero2, valga per gli uomini in generale o particolarmente per i capi di Stato, che non riescono ad esser mai sazi della guerra, o magari solo per i filosofi, che vagheggiano quel dolce sogno. L’autore del presente saggio pone però una condizione: dato che il politico pratico vuol guardare al politico teorico dall’alto in basso, con grande autocompiacimento, considerandolo un erudito di scuola che non può costituire, con le sue idee inconsistenti, alcun pericolo per lo Stato (che deve invece condursi secondo principî d’esperienza), e al quale si può lasciar credere di poter attuare l’impossibile3 senza che l’uomo di Stato pratico del mondo debba farvi attenzione, ebbene, anche nel caso di un contrasto fra i due, quest’ultimo deve comportarsi con il politico teorico in modo coerente, senza sospettare che nelle sue opinioni, affidate alla buona sorte e pubblicamente espresse, vi sia pericolo per lo Stato; – con la quale clausula salvatoria4 l’autore vuole espressamente assicurarsi nella miglior forma da ogni malevola interpretazione.

Prima sezione, che contiene gli articoli preliminari per la pace perpetua tra Stati

1. «Nessun trattato di pace che sia stato fatto con la segreta riserva di materia per guerre future può valere come tale».
Infatti tale trattato sarebbe non più che una semplice tregua (interruzione delle ostilità), non pace, che comporta la fine di ogni ostilità, e a cui aggiungere l’aggettivo perpetua costituisce già un pleonasmo sospetto. Le cause attuali di una guerra futura, anche se magari ancora sconosciute per coloro che stanno per fare la pace, sono tutte annullate dal trattato di pace, fossero anche scovate in documenti d’archivio con la più sottile abilità d’indagine. – La riserva (reservatio mentalis) di antiche pretese da escogitarsi non appena possibile in futuro, pretese che nessuna delle parti può menzionare al momento giacché entrambe sono troppo esaurite per proseguire la guerra, con la malvagia volontà di utilizzare a questo fine la prima occasione favorevole, appartiene al casuismo gesuitico ed è al di sotto della dignità dei reggenti, così com’è al di sotto della dignità di un loro ministro la condiscendenza verso simili deduzioni, se si giudica la cosa per come è.
Se però, secondo gli illuminati concetti della prudenza politica, il vero onore dello Stato viene posto nel costante aumento della potenza (quali che ne siano i mezzi), allora tale giudizio apparirà di certo accademico e pedante.
2. «Nessuno Stato indipendente (piccolo o grande, qui è lo stesso) deve poter essere acquistato da un altro Stato per eredità, scambio, compera o donazione».
Uno Stato infatti non è (come ad esempio il suolo sul quale esso ha sede) un bene (patrimonium). È una società di uomini, sulla quale nessun altro ha facoltà di comandare e disporre se non lo Stato stesso. Annetterlo, come fosse un innesto, ad un altro Stato, mentre esso, come ceppo, aveva la sua propria radice, significa sopprimere la sua esistenza come persona morale e farne una cosa; e dunque contraddice all’idea del contratto originario, senza il quale non si può pensare alcun diritto su un popolo*. È noto a chiunque in quale pericolo il falso concetto di questa modalità d’acquisto, secondo cui anche gli Stati si possono sposare tra loro, abbia condotto nei nostri tempi, sino ai più recenti, l’Europa (infatti gli altri continenti non ne hanno mai saputo nulla): sia come una nuova sorta di industria per rendersi strapotenti senza dispendio di forze, attraverso legami familiari, sia anche per ampliare in tal modo il possesso territoriale5. – Anche la concessione di truppe di uno Stato ad un altro contro un nemico che non è comune è da classificarsi allo stesso modo; perché con ciò i sudditi, come cose di cui si dispone a piacimento, vengono usati e consumati.
3. «Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire del tutto».
Infatti essi minacciano incessantemente di guerra altri Stati con l’addestramento, onde mostrarsi sempre armati per essa; li incitano a superarsi a vicenda nel numero degli armati, che non conosce limiti, e dato che con le spese che vi sono dedicate la pace diventa infine ancora più opprimente di una breve guerra, per liberarsi da questo peso sono essi stessi causa di guerre d’aggressione; si aggiunga che venir assoldati per uccidere o venire uccisi sembra implicare un uso di uomini come semplici macchine e strumenti nelle mani di un altro (lo Stato), ciò che non si accorda affatto con il diritto dell’umanità nella nostra persona6. Del tutto diverso è l’esercizio volontario, intrapreso periodicamente, del cittadino in armi, per garantire così sé e la sua patria da aggressioni esterne. – Con l’accumulazione di un tesoro andrebbe allo stesso modo, in quanto esso, considerato dagli altri Stati come una minaccia di guerra, costringerebbe ad aggressioni preventive (perché dei tre poteri, il potere militare, il potere delle alleanze e il potere finanziario, l’ultimo potrebbe ben essere lo strumento di guerra più affidabile), quando non vi si opponesse la difficoltà di scoprirne la grandezza.
4. «Non devono essere contratti debiti pubblici per le relazioni esterne dello Stato».
Per cercare sostegno fuori o dentro lo Stato ai fini dell’economia del paese (ai fini del miglioramento delle vie di comunicazione, di nuovi insediamenti, della creazione di magazzini per le annate di carestia, ecc.), questa risorsa non desta sospetti. Ma come strumento delle potenze per opporsi l’una all’altra, un sistema di credito costruito su debiti che aumentino indefinitamente e che però siano sempre al sicuro dalla riscossione immediata (perché essa non verrà certo richiesta da tutti i creditori in una sola volta) – ingegnosa invenzione, in questo secolo, di un popolo dedito al commercio7 – costituisce un pericoloso potere finanziario, e cioè un tesoro per la conduzione della guerra che supera i tesori di tutti gli altri Stati messi assieme, e può essere esaurito solo con l’inevitabile futura caduta dei tributi (che però, anche con il ravvivamento del commercio grazie al riflesso che su di esso hanno l’industria e il profitto, può essere rinviata ancora a lungo). Questa facilitazione ad intraprendere la guerra, congiunta all’inclinazione che ad essa hanno i potenti e che sembra inerente alla natura umana, è dunque un grande ostacolo alla pace perpetua, e non ammetterlo dev’essere un articolo preliminare tanto più in quanto la bancarotta, infine comunque inevitabile, deve coinvolgere nella rovina alcuni altri Stati incolpevoli, ciò che costituirebbe una pubblica lesione di questi ultimi. Di conseguenza altri Stati sono perlomeno giustificati nell’allearsi contro tale Stato e contro le sue pretese.
5. «Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato».
Cosa può infatti giustificarlo ad agire così? Forse lo scandalo che questo dà ai sudditi di un altro Stato? Piuttosto, tale scandalo può servire da ammonimento con l’esempio dei grandi mali che un popolo, nella sua mancanza di legge, si è tirato addosso; e in generale il cattivo esempio che una persona libera dà a un’altra (in quanto scandalum acceptum8) non costituisce affatto lesione. – Non è però da includersi in ciò il caso di uno Stato che, per discordie interne, si divida in due parti, ognuna delle quali rappresenti uno Stato particolare che rivendica l’intero; caso in cui prestare sostegno ad uno dei due non potrebbe essere imputato ad uno Stato esterno come intromissione nella costituzione dell’altro (poiché allora si tratta di anarchia). Ma sinché questo conflitto interno non sia ancora deciso, tale intromissione di altre potenze sarebbe una violazione del diritto di un popolo che lotta con una sua malattia interna e non dipende da nessun altro, e dunque proprio essa sarebbe un reale scandalo e renderebbe insicura l’autonomia di tutti gli Stati9.
6. «Nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi atti di ostilità che non potrebbero non rendere impossibile la reciproca affidabilità nella futura pace: come lo sono l’impiego di sicari (percussores), avvelenatori (venefici), la violazione di una resa, la istigazione al tradimento (perduellio) nello Stato contro cui si combatte, ecc.».
Sono stratagemmi infami. Una qualche fiducia nell’atteggiamento di pensiero del nemico, infatti, deve restare anche nel mezzo della guerra, perché altrimenti non potrebbe essere conclusa alcuna pace, e l’ostilità si trasformerebbe in guerra di sterminio (bellum internecinum); poiché la guerra è pur sempre solo il triste mezzo di necessità, nello stato di natura (dove non si ha alcun tribunale che possa giudicare con efficacia giuridica), per affermare il proprio diritto con la violenza; stato in cui nessuna delle due parti può essere indicata come nemico ingiusto (perché ciò presupporrebbe la sentenza di un giudice), e solo l’esito di tale guerra, invece (quasi si fosse davanti al cosiddetto giudizio divino), decide da quale parte stia il diritto; ma tra Stati (dato che tra essi non c’è alcun rapporto tra superiore e subordinato) non è pensabile alcuna guerra di punizione (bellum punitivum). – Da cui segue allora che una guerra di sterminio, in cui l’annientamento può capitare insieme ad entrambe le parti e con esse anche ad ogni diritto, permetterebbe l’attuazione della pace perpetua solo nel grande cimitero del genere umano. Una tale guerra, e dunque anche l’uso dei mezzi che vi conducono, deve essere assolutamente vietata. – Ma che i mezzi sunnominati vi conducano in modo inevitabile è evidente da questo: che quelle arti infer- nali, essendo in se stesse infami, quando venissero in uso non si tratterrebbero più entro i termini della guerra – come ad esempio l’uso di spie (uti exploratoribus), in cui si sfrutta soltanto il disonore d’altri (che allora non si può più sradicare) – , ma sconfinerebbero anche nello stato di pace e così ne annullerebbero completamente la prospettiva.
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Sebbene le leggi anzidette siano oggettivamente, ossia secondo l’intento dei detentori del potere, semplici leggi proibitive (leges prohibitivae), alcune di esse sono tuttavia di specie rigorosa, valevole senza distinzione di circostanze (leges strictae), e impongono immediatamente l’abolizione (come le nn. 1, 5, 6); altre invece (come le nn. 2, 3, 4) sono sì senza eccezioni quanto alla regola di di...

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