Una buona economia per tempi difficili
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Una buona economia per tempi difficili

Abhijit V. Banerjee, Esther Duflo

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Una buona economia per tempi difficili

Abhijit V. Banerjee, Esther Duflo

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Il nuovo libro dei premi Nobel per l'economia 2019

Non tutti gli economisti indossano la cravatta e pensano come banchieri. In questo libro meravigliosamente innovativo, Banerjee e Duflo utilizzano un'impressionante quantità di nuove ricerche che mettono in discussione le opinioni tradizionali, dal commercio alla tassazione, fino alla mobilità sociale. Una lettura obbligatoria.

Thomas Piketty

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Information

Year
2020
ISBN
9788858142899

1.
Make Economics Great Again

Una donna si sente dire dal suo dottore
che le rimangono solo sei mesi di vita. Il dottore le consiglia
di sposare un economista e trasferirsi nel Sud Dakota.
la donna: «Questo curerà la mia malattia?»
il dottore: «No, ma i sei mesi le sembreranno lunghissimi».
Viviamo in un’era di crescente polarizzazione. Dall’Ungheria all’India, dalle Filippine agli Stati Uniti, dal Regno Unito al Brasile, dall’Indonesia all’Italia, il confronto pubblico fra destra e sinistra si trasforma sempre più in uno scambio d’insulti ad alto tasso di decibel, dove l’asprezza dei toni a cui tutti si abbandonano con disinvoltura lascia pochissimo margine per fare marcia indietro. Negli Stati Uniti, dove viviamo e lavoriamo, lo split ticket (votare per candidati di liste diverse quando si rinnova più di una carica) è ai suoi minimi storici1. L’81 per cento di quelli che si identificano con uno dei due grandi partiti ha un’opinione negativa di quello avversario2: il 61 per cento dei democratici dice di vedere i repubblicani come persone razziste, sessiste e intolleranti; il 54 per cento dei repubblicani trova i democratici astiosi. Un terzo di tutti gli americani si sentirebbe deluso se un proprio parente stretto sposasse qualcuno dell’altro schieramento3.
In Francia e in India, gli altri due paesi in cui trascorriamo molto tempo, l’ascesa della destra politica, nel privilegiato mondo liberale e «illuminato» in cui viviamo, è discussa in termini sempre più apocalittici. C’è la chiara sensazione che la civiltà così come la conosciamo, basata sulla democrazia e sul dibattito, sia a rischio.
In quanto studiosi di scienze sociali, il nostro lavoro consiste nel proporre fatti e interpretazioni dei fatti che speriamo possano contribuire a mediare queste divisioni, aiutare ogni schieramento a capire quello che sta dicendo l’altro e arrivare quindi, se non a un consenso, almeno a un disaccordo ragionato. La democrazia può convivere con il dissenso, fintanto che c’è rispetto da entrambe le parti. Ma il rispetto richiede un certo grado di comprensione.
La cosa che rende particolarmente preoccupante la situazione attuale è che lo spazio per questi confronti sembra ridursi. Sembra esserci una «tribalizzazione» delle opinioni, non solo per quanto riguarda la politica, ma anche su quali siano i problemi principali della società e cosa si debba fare per risolverli. Un sondaggio su larga scala ha osservato che le opinioni degli americani, rispetto a un ampio ventaglio di questioni, tendono ad agglomerarsi come grappoli d’uva4. Le persone che condividono alcune convinzioni fondamentali, per esempio sui ruoli di genere o sull’importanza dell’impegno e dell’abnegazione per giungere al successo, sembrano avere le stesse opinioni anche su tutta una serie di argomenti, dall’immigrazione ai commerci internazionali, dalla disuguaglianza alla tassazione e al ruolo dello Stato. Le loro opinioni politiche sono influenzate da queste convinzioni di fondo più di quanto siano influenzate dal reddito, dalle caratteristiche demografiche o dal luogo in cui vivono.
Queste problematiche, per certi versi, sono la parte più visibile e centrale del dibattito politico, e non soltanto negli Stati Uniti. L’immigrazione, i commerci, le tasse o il ruolo dello Stato sono temi molto controversi, in Europa come in India, in Sudafrica come in Vietnam. Ma le opinioni al riguardo spesso e volentieri si basano esclusivamente sull’affermazione di valori personali specifici («Sono a favore dell’immigrazione perché sono una persona generosa», «Sono contrario all’immigrazione perché i migranti mettono a rischio la nostra identità nazionale»). E quando sono supportate da qualcosa, si tratta sempre di statistiche elaborate appositamente e letture estremamente semplicistiche dei fatti. Nessuno ragiona troppo a fondo sui temi in sé.
Ed è un vero disastro, perché siamo precipitati in tempi difficili. Gli anni rampanti di crescita globale, alimentata dall’espansione dei commerci e dallo straordinario successo economico della Cina, potrebbero essere finiti: un po’ per il rallentamento della crescita cinese e un po’ per le guerre commerciali che divampano in ogni dove. I paesi che hanno tratto beneficio da questa marea montante, in Asia, Africa e America Latina, stanno cominciando a chiedersi che cosa riserva loro il futuro. Certo, nella maggior parte dei paesi del ricco Occidente, la lentezza della crescita non è propriamente una novità, arrivati a questo punto, ma quello che la rende particolarmente preoccupante è il rapido sfilacciarsi del contratto sociale a cui stiamo assistendo. Sembra di essere tornati nel mondo dickensiano di Tempi difficili, con gli abbienti da una parte e dall’altra i non abbienti sempre più alienati, senza nessuna soluzione all’orizzonte5.
Nella crisi attuale giocano un ruolo centrale gli interrogativi legati all’economia e alla politica economica. Si può fare qualcosa per potenziare la crescita? Il ricco Occidente dovrebbe porsi questo potenziamento della crescita come una priorità? E se non questo, cos’altro? Che cosa bisogna fare di fronte alla disuguaglianza che dilaga ovunque? I commerci internazionali sono il problema o la soluzione? Che effetti hanno sulla disuguaglianza? Che futuro si profila per i commerci? I paesi con un costo del lavoro più basso possono sperare di attirare la produzione industriale mondiale, sottraendola alla Cina? E le migrazioni? È vero che c’è un eccesso di migranti a bassa qualifica? E le nuove tecnologie? Dobbiamo celebrare l’ascesa dell’intelligenza artificiale o vederla come un pericolo? E, cosa forse più importante, che può fare la società per aiutare tutte quelle persone che i mercati lasciano indietro?
Per rispondere a questi problemi non basta un tweet, ecco perché l’istinto è semplicemente di ignorarli. È per questo, fra gli altri motivi, che le nazioni stanno facendo così poco per risolvere le sfide più pressanti della nostra epoca, continuando ad alimentare la rabbia e la sfiducia che ci polarizzano, che ci rendono ancora più incapaci di parlare, di ragionare insieme, di fare qualcosa. Spesso la sensazione è di essere prigionieri di un circolo vizioso.
Gli economisti hanno molto da dire su questi grandi temi. Studiano l’immigrazione per capire che impatto ha sui salari, studiano le tasse per stabilire se scoraggiano lo spirito d’impresa, studiano la ridistribuzione per valutare se incentiva la pigrizia. Ragionano su quello che succede quando le nazioni commerciano fra loro e sfornano previsioni utili su chi ci guadagnerà e chi ci perderà. Si scervellano per capire perché alcuni paesi crescono e altri no, e che cosa possono fare i governi (sempre che possano fare qualcosa) per migliorare la situazione. Raccolgono dati sui fattori che rendono le persone generose o diffidenti, su cosa spinge un uomo a lasciare casa propria per trasferirsi in un posto straniero, sulla capacità dei social media di far leva sui nostri pregiudizi.
Quello che hanno da dire le ricerche più recenti, si scopre, spesso è sorprendente – specie per quelle persone abituate alle risposte preconfezionate proposte dagli «economisti» che si vedono in televisione e dai manuali delle scuole superiori – e può fare luce su questi dibattiti.
Sfortunatamente, pochissime persone si fidano degli economisti abbastanza da stare ad ascoltare attentamente quello che hanno da dire. Subito prima del voto sulla Brexit, i nostri colleghi del Regno Unito cercavano disperatamente di mettere in guardia i cittadini contro i costi che avrebbe comportato uscire dall’Unione Europea, ma avevano la sensazione che il loro messaggio non passasse. E avevano ragione, nessuno dava loro retta. All’inizio del 2017 YouGov realizzò nel Regno Unito un sondaggio in cui chiedeva: «Tra le seguenti categorie, chi considerate più affidabile quando parla del proprio campo di competenza?». Gli infermieri si classificavano al primo posto, con la fiducia dell’84 per cento degli intervistati, i politici all’ultimo, con il 5 per cento (anche se il deputato locale godeva di un po’ più di credito, con il 20 per cento). Gli economisti erano poco al di sopra dei politici, con il 25 per cento. La fiducia nei meteorologi era due volte più alta6. Nell’autunno del 2018 noi abbiamo posto le stesse domande (insieme a molte altre su varie questioni economiche, che utilizzeremo in diversi punti del libro) a diecimila persone negli Stati Uniti7: anche in questo caso, appena il 25 per cento degli intervistati si fidava della competenza degli economisti nella loro materia; solo i politici si piazzavano peggio.
Questo deficit di fiducia si rispecchia nel fatto che il consenso tra gli economisti di professione (quando c’è) spesso diverge in modo sistematico dalle opinioni dei cittadini comuni. La Booth School of Business dell’Università di Chicago chiede regolarmente a un gruppo di una quarantina di professori di economia, tutti esponenti di primo piano della disciplina, le loro opinioni su temi economici fondamentali. In questo libro vi faremo spesso riferimento come «Igm Booth» (Igm sta per Initiative on Global Markets, iniziativa sui mercati globali). Abbiamo selezionato dieci delle domande poste agli economisti dell’Igm Booth e le abbiamo sottoposte tali e quali ai partecipanti al nostro sondaggio. Nella maggior parte dei casi, le risposte degli economisti e dei nostri intervistati erano agli antipodi. Per esempio, nell’Igm Booth neanche un economista si dichiarava d’accordo con l’affermazione che «imporre nuovi dazi sull’acciaio e l’alluminio migliorerà il benessere degli americani»8; nel nostro sondaggio, invece, solo poco più di un terzo degli intervistati la pensava nello stesso modo.
In generale, i partecipanti al nostro sondaggio tendevano a essere più pessimisti degli economisti. Il 40 per cento degli economisti era d’accordo con l’affermazione che «l’afflusso di rifugiati in Germania cominciato nell’estate del 2015 porterà benefici economici al paese nel decennio successivo», e gli altri erano per lo più incerti o non esprimevano un’opinione (solo uno era in disaccordo)9; inversamente, soltanto un quarto dei partecipanti al nostro sondaggio era d’accordo e il 35 per cento era in disaccordo. Nel nostro campione, erano ancora più numerosi quelli che pensavano che l’ascesa dei robot e dell’intelligenza artificiale avrebbe portato a una disoccupazione diffusa ed erano molti meno quelli che pensavano che avrebbe creato ricchezza supplementare in misura sufficiente a compensare le persone che sarebbero state danneggiate10.
Questa divergenza di vedute non è dovuta al fatto che gli economisti hanno sempre un atteggiamento più favorevole del resto del mondo verso gli esiti delle politiche liberiste. Un precedente studio aveva messo a confronto le risposte di un gruppo di economisti e di un campione di mille americani comuni alle stesse venti domande11 e aveva scoperto che gli economisti erano (di gran lunga) più favorevoli a un aumento delle tasse federali (il 97,4 per cento degli economisti contro il 66 per cento degli americani comuni). Avevano anche molta più fiducia nelle misure varate dal governo dopo la crisi del 2008 (salvataggi delle banche, stimoli di bilancio ecc.) rispetto ai cittadini in generale. Per altro verso, il 67 per cento degli americani comuni, ma solo il 39 per cento degli economisti di professione, concordava con l’idea che gli amministratori delegati delle grandi aziende ricevevano compensi troppo elevati. La scoperta fondamentale è che nel complesso l’economista accademico medio ragiona in modo molto diverso dall’americano medio. Prendendo in esame tutte e venti le domande si osserva un divario enorme, di 35 punti percentuali, fra il numero di economisti che concordano con una certa affermazione e il numero di americani medi che fanno altrettanto.
Un’altra cosa da osservare è che informare i partecipanti al sondaggio del parere di economisti illustri sul...

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