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Perché ci sono centri e periferie
Introduzione
Questo libro si occupa dello sviluppo delle regioni italiane ed europee nel corso del XX e del XXI secolo. Prima di entrare nel merito nell’analisi, è opportuno dedicare alcune brevi pagine a qualche riflessione d’insieme, e chiedersi: perché alcune regioni sono più sviluppate di altre? Perché ci sono e persistono differenze nei livelli di reddito e di benessere fra regioni e territori all’interno delle economie nazionali? Sono fenomeni fisiologici, normali, nell’evoluzione dell’economia o si tratta di eventi patologici, eccezionali? Quali ne sono le cause? Sono domande che richiederebbero una trattazione molto estesa: in questa sede ci si limiterà a qualche considerazione di sintesi, con lo scopo in particolare di mettere in evidenza gli elementi che saranno ripresi nei capitoli successivi.
Nell’economia internazionale ci sono da sempre, e sempre ci saranno, i centri e le periferie, cioè aree geografiche con diversi livelli di sviluppo: i centri, che hanno raggiunto prima maggiori livelli di reddito, e le periferie che li “inseguono”. È del tutto illusorio immaginare un mondo completamente equilibrato, in cui le condizioni di vita diventino del tutto simili fra i diversi luoghi. Lo è perché le condizioni geografiche, le evoluzioni storiche, i cambiamenti tecnologici, gli assetti istituzionali hanno plasmato e continuano a plasmare un quadro di diversità. È però molto importante capire se e perché le distanze economiche fra le diverse aree tendono ad accorciarsi o a crescere, se le disuguaglianze si riducono o meno, e a che velocità. Se il benessere di chi è rimasto indietro tende ad aumentare ad un passo soddisfacente.
Nel determinare l’esistenza dei centri e delle periferie contano le caratteristiche geografiche di partenza. Territori collocati lungo le coste, sul corso di grandi fiumi, al centro di estese pianure hanno un vantaggio rispetto alle aree montuose isolate. Essere vicini ad altre economie sviluppate offre maggiori possibilità di scambi di idee e di commercio. Contano le risorse naturali: la fertilità del suolo e la ricchezza dei raccolti agricoli; le condizioni climatiche; la disponibilità di materie prime, le risorse minerarie e le fonti di energia che possono essere utilizzate per le produzioni.
Queste caratteristiche geografiche assumono una rilevanza diversa nel tempo; possono essere meno significative quando le economie sono prevalentemente agricole e i commerci limitati; crescere di importanza con i processi di industrializzazione e la possibilità di trasportare i beni servendo anche consumatori localizzati altrove, lontani. La loro importanza può variare con le grandi ondate di cambiamento tecnologico che influenzano le modalità di trasporto e comunicazione e possono consentire di superare gli ostacoli naturali; con il mutare delle condizioni geopolitiche: il crescere degli scambi internazionali può favorire i paesi al centro di grandi aree continentali.
A partire dalle condizioni geografiche si dipanano percorsi storici complessi e differenziati: “la storia conta”. Lo sviluppo economico non è mai un fenomeno deterministico e a partire da condizioni simili si può arrivare ad esiti diversi. Negli sviluppi storici sono rilevanti innumerevoli elementi. In termini molto generali, lo sviluppo economico scaturisce dall’investimento sui fattori produttivi, lavoro e capitale, e dalla produzione di nuove conoscenze. Gli investimenti che si realizzano per migliorare le condizioni di partenza: le grandi infrastrutture, l’aumento dei livelli di istruzione dei lavoratori, gli sforzi nella ricerca scientifica. Contano però anche i rapporti di forza politici fra territori, i regimi di cambio, le politiche del commercio estero. Le “istituzioni” che ciascun territorio, ciascuno stato, sviluppa al proprio interno: pratiche sociali, sistemi di valori capaci o meno di favorire l’adattamento virtuoso alle mutevoli caratteristiche del quadro economico e tecnologico; la qualità delle sue classi dirigenti e della sua azione di governo.
Chi vince, in questa grande gara, i centri o le periferie, chi è partito prima o chi si è sviluppato successivamente? Ad una domanda così generale la risposta non può che essere che i vincitori sono stati e sono diversi nei diversi periodi storici. Nei decenni più recenti ci sono state e ci sono molte periferie del mondo che hanno ottenuto risultati molto soddisfacenti; alcune di esse sono entrate nel club dei paesi più avanzati e con maggior benessere. La Cina era un centro dello sviluppo economico e tecnologico molti secoli fa; poi ha perso terreno; negli ultimi decenni lo sta rapidamente riconquistando. Altri, invece, sono rimasti indietro. Allo stesso tempo, alcuni paesi più avanzati hanno perso terreno. Nessuna collocazione è bloccata o garantita, anche se le trasformazioni sono lente, progressive.
Le disparità regionali: la convergenza
In questo libro ci si occupa in modo particolare delle regioni, dei diversi territori all’interno della stessa nazione. Dei rapporti fra centri e periferie di una nazione, invece che del mondo. Molti elementi sono simili, ma ci sono anche importanti differenze. L’integrazione economica è più facile, rapida, intensa; favorita non solo dalle minori distanze geografiche ma anche da norme, costumi, lingua comuni, ed è irreversibile a meno di eventi traumatici di carattere secessionista. È quindi più semplice e ampia la circolazione di merci, servizi e capitali; è molto più intensa la circolazione delle persone. Le condizioni e le politiche macroeconomiche sono le stesse; la moneta è unica e non c’è tasso di cambio. Compaiono le politiche del bilancio pubblico, che tendenzialmente garantiscono un prelievo uniforme e soprattutto un simile livello di servizi a tutti i cittadini, in tutte le regioni.
Che effetto hanno queste differenze? Chi cresce di più, all’interno dei paesi, le regioni-centro che si sono sviluppate prima o le regioni-periferia, con uno sviluppo più tardivo? Come si vedrà anche a questa domanda non c’è una risposta che vale per tutti i casi, anche se nell’insieme le differenze di sviluppo fra le regioni all’interno dei paesi negli ultimi decenni si sono dimostrate più tenaci e persistenti di quelle fra i paesi.
Anche la teoria economica non fornisce una risposta univoca a questa domanda; vi è una rilevante diversità di vedute che hanno avuto una influenza variabile nel tempo. Le interpretazioni che hanno sottolineato come il funzionamento delle economie possa portare a crescenti fenomeni di concentrazione regionale delle attività economiche erano al cuore del dibattito nel secondo dopoguerra. Con conseguenze importanti, dato che esse implicavano che l’intervento pubblico fosse essenziale per ridurre le disparità. Alla fine del Novecento si sono venute affermando, nel quadro di complessive visioni dell’economia più liberiste, interpretazioni differenti. Secondo questo filone di pensiero le regioni all’interno di ciascun paese tendono spontaneamente a convergere, cioè a raggiungere simili livelli di reddito. Ma questo accade solo se i mercati sono lasciati liberi di operare e non vi sono distorsioni indotte dalle politiche pubbliche o dall’azione dei sindacati. Tuttavia, crescentemente nel XXI secolo, nuovi filoni di studi hanno mostrato come non sia affatto garantito che il normale funzionamento dei mercati determini una riduzione delle disparità territoriali. Le questioni regionali sono quindi materia di confronto, tanto nelle interpretazioni quanto nelle implicazioni per le politiche.
Una influente corrente della teoria economica sostiene che il funzionamento efficiente del libero mercato fa sì che spontaneamente le differenze di reddito fra le diverse regioni all’interno di ciascun paese tendano a ridursi; e quindi che con il tempo si verifichi un progressivo allineamento dei livelli di sviluppo. Si parla di convergenza dei livelli di reddito, cioè di un loro progressivo avvicinamento. Queste interpretazioni riprendono a livello regionale le teorie che spiegano cause e conseguenze del commercio internazionale e i modelli della crescita economica basati sull’accumulazione dei fattori produttivi. Utilizzando il gergo degli economisti, si tratta delle teorie di impostazione neoclassica, largamente dominanti da fine Novecento. L’assunzione centrale di queste teorie è che sui mercati prevalgono condizioni di concorrenza perfetta, cioè che non vi siano forme di economie di scala: si vedrà a breve di che si tratta e perché questa ipotesi è così importante.
La convergenza è dovuta alla maggior crescita delle regioni a minor reddito all’interno di ciascuna economia (le periferie) rispetto ai centri. Questo avviene grazie ai movimenti dei fattori produttivi: flussi di capitali e movimenti migratori delle persone. I capitali si spostano dai centri verso le periferie perché produrre lì è più conveniente. Infatti, il minor livello di sviluppo delle periferie fa sì che lì la domanda di lavoro sia minore, e quindi i livelli salariali siano inferiori; al contrario, nelle regioni più avanzate il processo di crescita e di accumulazione di capitale fa sì che la domanda di lavoro aumenti, con un conseguente aumento dei salari. Costi del lavoro più bassi nelle periferie determinano una maggiore redditività del capitale investito. Attirando capitale, la produzione, l’occupazione e quindi il reddito delle periferie aumentano.
Contemporaneamente, l’insufficiente domanda di lavoro nelle periferie fa sì che una parte dei suoi abitanti migri verso i centri, alla ricerca di occupazione. Anche il movimento della popolazione contribuisce alla convergenza, dato che così il più modesto livello complessivo di produzione, e quindi di reddito, delle periferie si ripartisce fra un numero inferiore di persone.
Questa impostazione teorica è stata sostenuta da una rilevante evidenza empirica, soprattutto riferita al Novecento. Studi applicati hanno mostrato come le distanze in termini di reddito fra le regioni siano andate progressivamente riducendosi in molti paesi, grazie alla diffusione geografica delle attività economiche, in particolare di quelle industriali, e ai movimenti della popolazione. Già alla metà degli anni Sessanta uno studio molto influente mostrò, sulla base di un’ampia evidenza su molti paesi nei decenni precedenti, che l’andamento delle disparità regionali interne ai paesi seguiva un comune percorso. Esso può essere descritto – in un grafico in cui sull’asse orizzontale si misura il passare del tempo e su quello verticale si misurano le disparità – con una “U” rovesciata. In altri termini, in tutti i paesi si verifica prima una fase di accentuazione...