Femminismo per il 99%
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Femminismo per il 99%

Un manifesto

Tithi Bhattacharya, Nancy Fraser, Cinzia Arruzza, Alberto Prunetti

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Femminismo per il 99%

Un manifesto

Tithi Bhattacharya, Nancy Fraser, Cinzia Arruzza, Alberto Prunetti

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Abbiamo bisogno di un femminismo inquieto, anticapitalista, mai soddisfatto dell'equivalenza se non avremo uguaglianza, mai sazio dei diritti legali se non avremo giustizia, mai appagato dalla democrazia se la libertĂ  del singolo non sarĂ  calibrata sulla libertĂ  per tutti e tutte.

Un vero e proprio 'manifesto' in 11 tesi, in cui la lotta delle donne viene ricalibrata, per porla all'altezza delle sfide del neoliberismo.Leonardo Filippi, "Left"

Il neoliberismo progressista ha tradito gli operai. Il populismo reazionario è in seria ascesa. L'alternativa? Puntare su un nuovo femminismo. Antirazzista, ecologista, solidale.Giuliano Battiston, "L'Espresso"

Un manifesto per promuovere un 'altro' femminismo: che lotti contro lo sfruttamento sul lavoro e per i diritti sindacali, per il riconoscimento della fondamentale funzione di cura dei figli, per il diritto alla salute e a un ambiente non inquinato, contro ogni forma di razzismo e guerra.

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Information

Year
2022
ISBN
9788858148631

Tesi 1.
Una nuova ondata femminista
reinventa lo sciopero

Il recente movimento per lo sciopero femminista ha avuto origine in Polonia nell’ottobre del 2016, quando più di centomila donne sono scese in strada per manifestare contro il divieto sull’aborto. Alla fine del mese quella corrente di dissenso radicale aveva già attraversato l’oceano fino all’Argentina, dove le donne hanno scioperato contro l’efferato assassinio di Lucía Pérez al grido militante di “Ni una menos”. Presto il movimento si è diffuso in Italia, Spagna, Brasile, Turchia, Perù, Stati Uniti, Messico, Cile e in decine di altri paesi. Dalle sue origini nelle strade, il movimento si è poi riversato nei luoghi di lavoro e nelle scuole, sommergendo da ultimo anche gli ambiziosi mondi dello spettacolo, dei media e della politica. Negli ultimi due anni, i suoi slogan hanno risuonato con forza per tutto il pianeta: #NosotrasParamos, #WeStrike, #VivasNosQueremos, #NiUnaMenos, #TimesUp, #Feminism4the99. Prima era un’increspatura, poi un’onda, adesso sta diventando un’alta marea: un nuovo movimento globale femminista che può guadagnare forza sufficiente a spezzare le alleanze esistenti e a ridisegnare la mappa della politica.
Quelle che un tempo erano una serie di azioni su scala nazionale sono diventate un movimento internazionale l’8 marzo del 2017, quando attiviste di tutto il mondo hanno deciso di scioperare assieme. Con questa mossa audace hanno ri-politicizzato la Giornata internazionale della donna. Le attiviste in sciopero hanno spazzato via fronzoli apolitici e pacchiani (le mimose, i brunch e i bigliettini d’auguri) per rivitalizzare le radici storiche della festa, tutt’altro che dimenticate e connesse alla classe lavoratrice e al femminismo socialista. Le loro azioni evocano lo spirito delle mobilitazioni delle donne operaie dell’inizio del Novecento, in particolare gli scioperi e le manifestazioni di massa negli Stati Uniti animate soprattutto da donne immigrate ed ebree, che ispirarono le socialiste statunitensi e le femministe tedesche Luise Zietz e Clara Zetkin a proclamare la Giornata Internazionale delle Donne Lavoratrici.
Riportando in vita quello spirito militante, le femministe in sciopero dei nostri giorni rivendicano le proprie radici nelle lotte storiche per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici e per la giustizia sociale. Uniscono donne separate da oceani, montagne e continenti, ma anche da confini, muri e reti di filo spinato, per dare un nuovo significato allo slogan “La solidarietà è la nostra arma”. Rompendo l’isolamento di muri domestici e simbolici, gli scioperi dimostrano l’enorme potenziale politico del potere delle donne: il potere di chi, col lavoro salariato e con quello non pagato, sostiene il mondo.
Ma non è tutto: il movimento, in espansione, ha inventato nuove forme di sciopero e ha instillato nella forma stessa dello sciopero un nuovo tipo di politica. Associando l’astensione dal lavoro a manifestazioni, dimostrazioni, piccole chiusure di negozi, blocchi e boicottaggi, il movimento ha aggiornato il repertorio delle forme di sciopero, un tempo vasto ma ormai contratto in maniera drammatica da un’offensiva neoliberista ultradecennale. Al tempo stesso, la nuova ondata di militanza femminista democratizza gli scioperi e espande la loro portata, ampliando innanzitutto l’idea di quel che bisogna considerare come “lavoro”. Rifiutando di limitare questa categoria al lavoro salariato, le attiviste in sciopero si astengono anche dai lavori domestici e dagli acquisti, dal sesso e dai sorrisi. Rendono visibile il ruolo indispensabile esercitato dal lavoro non pagato delle donne nella società capitalistica, valorizzando così quelle attività da cui il capitale ottiene benefici ma che non paga. Anche rispetto al lavoro salariato, le attiviste in sciopero hanno una visione espansiva del tema. Invece di concentrarsi solo attorno a salari e ore di lavoro, prendono di mira anche le violenze e le molestie sessuali, le barriere contro la giustizia riproduttiva e i limiti al diritto di sciopero.
Di conseguenza la nuova ondata femminista ha il potenziale per superare la persistente opposizione divisiva tra “politiche dell’identità” e “politiche di classe”. Svelando l’unità tra “luogo di lavoro” e “vita sociale”, la nuova ondata rifiuta di limitare le proprie lotte a uno soltanto di questi spazi. Ridefinendo i termini di “lavoro” e di “lavoratrici”, respinge la svalutazione strutturale del lavoro delle donne, pagato o non pagato, messa in campo dal capitalismo. Insomma, lo sciopero femminista delle donne anticipa la possibilità di una nuova fase senza precedenti della lotta di classe: femminista, internazionalista, ambientalista e antirazzista.
L’azione è tempestiva. La militanza dello sciopero delle donne irrompe in un momento storico in cui i sindacati, un tempo potenti e radicati nella produzione manifatturiera, sono stati drasticamente indeboliti. Per rinvigorire la lotta di classe, le attiviste si sono rivolte verso un’altra arena: l’assalto neoliberista contro la sanità pubblica, l’istruzione, le pensioni e il diritto alla casa. Hanno preso di mira questo ramo dell’aggressione ultradecennale del capitale alle condizioni di vita della classe lavoratrice e della classe media e in tal modo hanno sviluppato una sensibilità particolare rispetto al lavoro e ai servizi necessari a sostenere gli esseri umani e le comunità sociali. È proprio qui, nella sfera di quella che noi chiamiamo “riproduzione sociale” (cfr. Tesi 5), che troviamo adesso molte delle controffensive e degli scioperi più militanti. Dall’onda di scioperi delle insegnanti negli Stati Uniti alla lotta contro la privatizzazione dell’acqua in Irlanda fino agli scioperi dei lavoratori delle pulizie Dalit in India: in tutte queste mobilitazioni guidate e alimentate da donne, lavoratrici e lavoratori si ribellano contro l’aggressione capitalista sulla riproduzione sociale. Questi scioperi hanno molto in comune con il movimento dello sciopero globale delle donne, pur non essendone formalmente affiliati. Anch’essi valorizzano il lavoro necessario a riprodurre le nostre vite, opponendosi allo sfruttamento. Anch’essi combinano le rivendicazioni su salario e posti di lavoro con le richieste di un aumento della spesa pubblica sui servizi sociali.
In paesi come Argentina, Spagna e Italia, inoltre, il femminismo degli scioperi delle donne ha ottenuto un ampio supporto da parte delle forze che si oppongono all’austerità. Alle grandi manifestazioni del movimento contro i tagli a scuola, salute, edilizia popolare, trasporti e protezione ambientale, a fianco delle donne e delle persone queer, c’erano anche gli uomini. Grazie all’opposizione contro l’aggressione ai beni pubblici da parte del capitale finanziario, gli scioperi femministi stanno diventando il catalizzatore e il modello per tentare di difendere dal basso le nostre comunità.
In conclusione, la nuova marea di attivismo militante femminista sta riscoprendo l’idea dell’impossibile, rivendicando il pane e le rose: il pane che decenni di neoliberismo hanno portato via dalle nostre tavole, ma anche la bellezza che nutre il nostro spirito con l’euforia della rivolta.

Tesi 2.
Il femminismo liberale ha fallito:
è tempo di lasciarcelo alle spalle

I media mainstream continuano a diffondere l’equazione tra femminismo e femminismo liberale. Lungi dal fornire una soluzione, il femminismo liberale è parte del problema. Radicato nel Nord del pianeta, in uno strato sociale di professioniste e manager, il femminismo liberale si concentra sulla strategia del “farsi avanti” e su quella della “rottura del soffitto di cristallo”. Si dedica a consentire a un esiguo numero di donne privilegiate di arrampicarsi sulla scala sociale o di fare carriera nell’esercito, proponendo una visione dell’uguaglianza basata sul mercato che si combina perfettamente con il diffuso entusiasmo aziendale verso la “diversità”. Nonostante condanni la “discriminazione” e difenda “la libertà di scelta”, il femminismo liberale è fermo nel suo rifiuto di prendere in considerazione quei vincoli socioeconomici che rendono libertà ed empowerment impossibili per la vasta maggioranza delle donne. Il suo vero scopo non è l’eguaglianza, ma la meritocrazia. Piuttosto che tentare di abolire la gerarchia sociale, si propone di “diversificarla”, di “dare potere” a donne “di talento”, affinché raggiungano la vetta. Le fautrici del femminismo liberale considerano le donne semplicemente come un “gruppo sotto-rappresentato” e cercano quindi di assicurarsi che poche privilegiate possano conseguire posizioni e paghe pari agli uomini della loro stessa classe. Per definizione, le principali beneficiarie di queste politiche sono donne che già possiedono un considerevole capitale sociale, culturale ed economico. Le altre rimangono rinchiuse in cantina.
In sincronia con l’impennata delle diseguaglianze, il femminismo liberale esternalizza l’oppressione: permette alle donne professioniste in carriera di “farsi avanti” (lean-in), consentendo loro di appoggiarsi (lean-on) alle donne migranti sottopagate a cui subappaltano i lavori domestici e quelli di cura. Insensibile a questioni di “razza” e classe, rende la nostra causa elitaria e individualista. Proiettando un’immagine del femminismo come un movimento autoreferenziale, ci associa a politiche che sono nocive per la maggioranza e ci esclude da quelle lotte che a quelle politiche si oppongono. Per farla breve, il femminismo liberale dà al femminismo una cattiva reputazione.
L’ethos del femminismo liberale converge non solo con i costumi aziendali, ma anche con quelle correnti della cultura neoliberista che si pretendono “trasgressive”. La sua storia d’amore con la promozione individuale permea altresì il mondo delle celebrità e dei media, confondendo il femminismo con l’ascesa di singole donne in carriera. Così il “femminismo” rischia di diventare un hashtag di tendenza e un veicolo di autopromozione, utile a elevare l’1%, più che a liberare il 99%.
Insomma, in genere il “femminismo liberale” fornisce l’alibi perfetto al neoliberismo. Consente alle forze che sostengono il capitale globale di dipingersi come “progressiste”, dissimulando politiche regressive sotto una patina di emancipazione. È il femminismo delle donne vicine al potere, che si allea con la finanza globale negli Stati Uniti o fornisce una copertura all’islamofobia in Europa; è il femminismo delle guru aziendali che predicano di “farsi avanti”, delle burocrati del femminismo che spingono aggiustamenti strutturali e microcredito nel Sud del mondo, delle politiche di professione in tailleur pantaloni che si fanno pagare una parcella a sei zeri per un discorso a Wall Street.
La nostra risposta al femminismo del “farsi avanti” è il femminismo “della pedata da dietro”. Non ci interessa rompere “il soffitto di cristallo” per poi lasciare la maggioranza delle donne a raccogliere i frammenti di vetro. Invece di celebrare le donne amministratrici d’azienda che occupano gli uffici della dirigenza, preferiamo sbarazzarci degli uffici e dei consigli di amministrazione.

Tesi 3.
Ci serve un femminismo anticapitalista:
un femminismo per il 99%

Il femminismo che abbiamo in mente riconosce che dobbiamo rispondere a una crisi di proporzioni epocali: standard di vita in caduta verticale e un incombente disastro ecologico; guerre sanguinarie e aumento dell’espropriazione; migrazioni di massa e fili spinati; crescita di razzismo e xenofobia; revoca di quei diritti riproduttivi, sociali e politici ottenuti attraverso dure lotte.
Vogliamo affrontare queste sfide. Evitando le mezze misure, il femminismo che ci immaginiamo si propone di contrastare le radici capitaliste di questa metastasi barbarica. Rifiutiamo di sacrificare il benessere di molte al fine di proteggere la libertà di poche, sostenendo la causa dei bisogni e dei diritti della vasta maggioranza, composta da donne povere e lavoratrici, da donne migranti e razzializzate, da queer, da trans, da donne disabili, da donne incoraggiate a percepirsi come “ceto medio” anche quando il capitale le sfrutta. Ma non finisce qui. Questo femminismo non si limita alle “questioni delle donne” come sono tradizionalmente definite. Sostiene tutti gli sfruttati, i dominati e gli oppressi, nell’ambizione di rappresentare una speranza per tutta l’umanità. Per questo lo chiamiamo femminismo per il 99%.
Ispirato da una nuova ondata di scioperi delle donne, il femminismo per il 99% emerge dalla prova del fuoco dell’esperienza pratica, plasmata a sua volta dalla riflessione teoretica. Mentre il neoliberismo ridà forma all’oppressione di genere davanti...

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