"Le religioni sono vie di pace". Falso!
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"Le religioni sono vie di pace". Falso!

Paolo Naso

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Paolo Naso

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È falso che le religioni siano portatrici di pace; è falso che si debba a loro quel fragile concetto di 'tolleranza' che, a partire dall'età moderna, ha permesso una certa coesistenza nella diversità delle appartenenze confessionali; è falso che al cuore delle religioni vi sia un'unica regola d'oro che le orienta verso la pacifica e costruttiva convivenza delle une con le altre; è falso, infine, che le religioni siano solo vittime di strumentalizzazioni di ordine politico o economico, queste sì 'vere' cause di ogni guerra.

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Information

Year
2019
ISBN
9788858139721

1.
Fattore R

Da bambino andai in un campeggio estivo per bambini di tutte le religioni.
Così fui picchiato da bambini di tutte le religioni.
Woody Allen
L’obiettivo polemico di queste pagine è l’idea tanto diffusa quanto poco motivata che le religioni siano “vie di pace”. Per noi, che pure muoviamo dall’appartenenza a una comunità di fede e da un vissuto convintamente religioso, è semplicemente falso. È falso che le religioni siano modelli irenici; è falso che si debba a loro quel fragile concetto di “tolleranza” che, se non altro a partire dall’età moderna, ha permesso una certa coesistenza nella diversità delle appartenenze confessionali; è falso che al cuore delle religioni vi sia un’unica regola d’oro che le orienta verso la pacifica e costruttiva convivenza delle une con le altre; è falso, infine, che le religioni siano solo vittime di strumentalizzazioni di ordine politico o economico, queste sì “vere” cause di ogni guerra1.
Falso, a nostro avviso, anche se sarebbe bello che le cose andassero nella direzione opposta, perché in un mondo inquieto e attraversato da decine di conflitti si avverte il disperato bisogno di “vie di pace”, anche nel nostro Occidente oggi pacificato, ma sconvolto da un kulturkampf contro le politiche dell’accoglienza, dell’incontro e del dialogo tra le culture e le religioni. Da Washington a Vienna, da Amsterdam a Budapest, da Varsavia a Roma, muove un’onda potente di idee e movimenti politici unificati dal vigoroso e rancoroso rifiuto di ogni diversità e dall’ideale sovranista di popoli uniti dagli stessi valori, dalle stesse tradizioni, dalla stessa religione. Benché non si spari – se non accidentalmente – è una guerra: un conflitto combattuto con gli strumenti democratici delle leggi votate dai parlamenti, con articoli pubblicati per amplificare fake news velenose e offensive, con tweet grossolanamente debordanti, con l’attacco indispettito e vendicativo nei confronti di tutto ciò che suona, anche alla lontana, “politically correct”.
A poche miglia dalle acque territoriali di un Occidente pacificato per quanto tutt’altro che pacifico, invece, le guerre si combattono con le armi tipiche di ogni conflitto: quelle che distruggono le case e uccidono senza distinzione di età, genere, classe, credo religioso. Caoslandia, titolava qualche anno fa la rivista “Limes”, a sottolineare che negli ultimi vent’anni – quelli delle guerre contro gli Stati canaglia e delle grandi alleanze “di civiltà” per sconfiggere il radicalismo islamista – non è nato alcun “nuovo ordine internazionale” ed anzi si contano – vivi, vegeti e distruttivi – una trentina di conflitti di natura interna o inter-nazionale.
L’evidenza di Caoslandia è un punto di forza per la tesi che invece noi vogliamo contestare. Il dis-ordine internazionale e la persistenza di scenari di conflitto difficilmente decifrabili, e per questo di più difficile soluzione, rappresentano infatti il fallimento della politica – almeno nella sua forma democratica – come strumento tecnico utile a stabilire e mantenere la pace. Idealmente, da Kant in poi, la politica nata nella modernità ha fatto una promessa di pace che poi non ha saputo mantenere. Dopo avere spinto le religioni in un angolo periferico dello spazio pubblico, a piena ragione ritenendole responsabili dei grandi conflitti che avevano attraversato l’Europa tra il XVI e il XVII secolo, oggi la politica della laicità e della separazione tra gli Stati e le comunità di fede subisce il revanchismo di religioni che tornano a candidarsi come soggetti in grado di incidere sul piano dei processi politici e geopolitici. Una certa politica ha perfettamente compreso il valore aggiunto prodotto da questo dato di fatto, e non esita a “sacralizzarsi” in alleanze di civiltà per la difesa dell’identità nazionale: dalla Russia di Putin al sovranismo antieuropeo di paesi come Polonia e Ungheria, sino alla nostrana rivendicazione del rosario “sempre in tasca” di uomini di governo che fino a qualche anno fa onoravano il dio Po, è questo il messaggio che ci giunge forte e chiaro.
Si allarga insomma la convinzione che “una religione ci salverà”, ed è del tutto comprensibile la provocazione del teologo indo-elvetico Shafique Keshavjee che in un fantasioso romanzo racconta di un “grande torneo delle religioni” convocato per identificare quella più naturalmente predisposta alla pace e alla convivenza con le altre tradizioni culturali e spirituali2. Una bella intuizione narrativa ma nulla di più di una buona predica che, al fondo, ammonisce le religioni a fare quello che ancora non hanno fatto per proporsi come vie di pace credibili, praticabili ed efficaci. La realtà è piuttosto un’altra: “Testi sacri e muraglie chilometriche, kamikaze e versetti coranici, bombe al fosforo e nuove crociate. In ogni angolo del mondo la guerra viene condotta con l’ausilio di forme e di mezzi drammaticamente originali e con il ricorso ad armamenti altamente tecnologici, ma come mille e mille anni prima si avverte il bisogno di esorcizzare il tabù della morte di altri uomini adducendo che è Dio che lo vuole. Come se uccidere in nome di Dio fosse diverso da uccidere”3.

La diplomazia delle religioni

Non sono pochi coloro che credono seriamente che le religioni possano svolgere un ruolo riconosciuto sul piano del peace-building e del peace-keeping. Guardando al passato, pensiamo ai pionieri che due secoli fa dettero vita al “Parlamento delle religioni” per un mondo “giusto, pacifico e sostenibile”, costituito per “predicare a tutti i veri credenti il ritorno alla primitiva unità del mondo”, come invocava il teologo presbiteriano americano Henry Barrows nella sua prima edizione svoltasi nel 1893 a Chicago. Più recentemente e in particolare dal 1993 ad oggi, questo anomalo Parlamento di preti e rabbini, pastori e maestri, imam e guru si è riunito cinque volte ma, al di là dell’indubbio colpo d’occhio derivato dal vedere esponenti di religioni diverse fraternamente abbracciati e uniti dallo stesso ideale, sul piano geopolitico i risultati di questa esperienza possono considerarsi pressoché nulli.
Sono assai più costruttive specifiche “missioni di pace” come quelle concepite dalla Comunità di Sant’Egidio, ad iniziare da quella ben documentata in Mozambico4; o l’iniziativa promossa da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986 quando, in un mondo ancora bipolare e segnato dalla Guerra fredda, il papa polacco convocò un incontro al quale parteciparono i leader delle principali comunità di fede del mondo con l’obiettivo di condividere una preghiera comune per la pace nel mondo. Di per sé quell’incontro non fermò alcun conflitto – si ricorderà l’acutezza a quel tempo dello scontro tra israe­liani e palestinesi, in cui i fondamentalisti religiosi di una parte e dell’altra trovavano sempre più spazio e consenso – ma almeno accreditò l’idea che le religioni si sentissero in dovere di operare più efficacemente a servizio della pace. Quell’evento fu l’icona di una enciclica mai scritta che invocava una teologia e una pratica che, però, non si sono mai definite né precisate.
Come si ricorderà, l’incontro del 1986 fu nuovamente convocato nel gennaio del 2002, e cioè a pochi mesi dagli attentati alle Torri Gemelle. La finalità primaria di quell’evento mondiale fu dimostrare che, in un momento storico difficile ed eccezionalmente delicato, le religioni non si schieravano su fronti di guerra confessionali ma, al contrario, collaboravano per costruire la pace. Le religioni come vie di pace, appunto. Anni dopo il teologo Hans Küng offrì una formulazione sinteticamente efficace della “strategia di Assisi” perseguita dal papa: “Non c’ è pace tra le nazioni, senza pace tra le religioni! Non c’ è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni!”5. Il dialogo interreligioso, insomma, come chiave per perseguire politiche di pace.
L’evento del 2002 lasciò comunque un segno e gli apostoli più veementi che predicavano lo scontro di civiltà all’interno delle loro comunità religiose dovettero prendere atto di un gesto forte e impegnativo, per quanto voluto soprattutto dall’ormai anziano Wojtyla. Lo stesso cardinale Ratzinger, incerto e forse perplesso sull’iniziativa, decise la sua partecipazione all’ultimo minuto e solo dopo un rinnovato e fraterno invito di Giovanni Paolo II6. Al di là delle lacerazioni vaticane, però, quel generoso tentativo era, sì, destinato a un grande successo mediatico, ma anche a un debole risultato politico. Di lì a poco, infatti, pastori, preti, rabbini e persino altri imam – talora in piena comunione con coloro che avevano preso parte all’evento di Assisi – benedissero le operazioni militari scattate in Iraq7, innescando un conflitto le cui conseguenze sono ancora evidenti e visibili. Neanche nel momento più alto e consensuale dello sforzo delle religioni per aprire vie di pace, insomma, si riuscì a dare concretezza all’assunto che vuole le religioni vie di pace. Soprattutto, i generosi tentativi ‘pacifisti’ di esponenti delle religioni o di associazioni religiose non ci pare possano bastare ad accreditare le religioni come vie di pace. In un tempo nel quale, scemata l’euforia per la tesi geopolitica che riduceva tutto allo ‘scontro’ tra la civiltà occidentale e l’islam, dobbiamo prendere atto dell’esistenza di una serie di conflitti particolari e frammentati che non riguardano solo l’islam: ciò che papa Francesco definisce spesso “la terza guerra mondiale a pezzetti”8.
Per quanto possa apparire paradossale, persino in un mondo secolarizzato il fattore “R” delle religioni non ha perso di incidenza ed anzi si è ulteriormente rafforzato come elemento che incide negli scenari di...

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