Capitolo 1
Come & perché abbiamo rinunciato al latino
1. Una domanda lecita & spinosa
Una delle domande che piĂč angosciano lo studente, fra una versione e un compito sui verbi, Ăš perchĂ© dobbiamo studiare il latino, se non lo parliamo piĂč; e, soprattutto, come e perchĂ© abbiamo smesso di parlare latino (e sottintendendo: e quali sono stati gli ultimi fortunati a non averne i sonni turbati, perchĂ© per loro il latino era la madrelingua?). La domanda merita un approfondimento.
2. Un solo latino o «tanti latini»?
In una pagina della Coscienza di Zeno, il protagonista ascolta le lamentele della giovane Alberta, che diventerĂ sua cognata. La ragazza, studentessa ginnasiale, si affligge perchĂ© il latino le riesce «molto difficile», e Zeno, con un umorismo tra il cavalleresco e il paternalista, la consola cosĂŹ: «Dissi di non meravigliarmene, perchĂ© era una lingua che non faceva per le donne, tanto châio pensavo che giĂ fra gli antichi romani le donne avessero parlato lâitaliano» (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, rist. Mondadori 2000, cap. V, p. 85). Poco dopo, perĂČ, Zeno si fa cogliere in castagna da Alberta, che gli deve correggere una citazione.
La battuta di Zeno, secondo il quale a Roma le donne avevano sempre parlato lâitaliano, perĂČ, come in ogni paradosso, arriva al cuore della realtĂ : ma che fine ha fatto il latino? Come siamo arrivati a parlare lâitaliano? Forse, perĂČ, sarebbe piĂč corretto chiederci: ma il latino come lo leggiamo e lo studiamo Ăš stato mai parlato? La risposta, ahimĂ©, Ăš no. Ricordiamo per prima cosa che quello di Cicerone, Seneca e Tacito Ăš solo uno dei tanti latini; o meglio, si tratta di unâastrazione, di alcune fra le tante declinazioni possibili, secondo lâusus scribendi dei vari autori, del latino letterario. Ma a Roma lo iato fra lo scritto e il parlato doveva essere enorme. E ce ne accorgiamo solo le rare volte in cui possiamo intravedere uno squarcio della vita di tutti i giorni. Dove?
Nei graffiti pompeiani, per esempio, che ci restituiscono il latino parlato in un preciso momento storico, e che sono una miniera di informazioni, non soltanto sulla quotidianitĂ , poco aulica e molto vivace, per non dire a tratti cafona, di una popolosa e ricca cittĂ campana nel 79 d. C.: essi sono anche un documento prezioso sullo stato del latino usato quotidianamente. Infatti, i muri di Pompei ospitano brani poetici, alcuni anche molto eleganti, opera di anonimi scriventi colti: ma, per lo piĂč, troviamo per esempio la caduta della âm finale degli accusativi singolari, che veniva pronunciata fievolmente e che venne via via omessa (ricordiamo che la gran parte delle parole italiane viene dal latino attraverso il caso accusativo e non attraverso il nominativo, secondo lo schema: civitatem - civitate - cittade - cittĂ ); e poi scempiamenti (nulae per nullae), voci verbali come futebatur (per futuebatur) e cosĂŹ via: un quadro ben diverso dalla prosa di Sallustio e Quintiliano.
Un buono strumento di riflessione su questo punto Ăš lâIntroduzione al latino volgare del finlandese Veikko VÀÀnĂ€nen (PĂ tron 20034), che illustra la nozione di «latino volgare», fondamentale per comprendere il passaggio successivo dal latino alle lingue neolatine. Lâespressione «latino volgare» comporta vantaggi e svantaggi: i latinisti lâhanno per un poâ osteggiata, in quanto lâaggettivo «volgare» farebbe pensare alla lingua degli incolti; qualcuno avrebbe preferito, infatti, definizioni come «latino popolare», o «latino familiare», o «latino di tutti i giorni», forse piĂč adeguate dal punto di vista sociale e sincronico.
Sicuramente, se una persona capace di parlare e scrivere in buon latino â per intenderci, nel latino ciceroniano â fosse trasportata magicamente nella Roma del I secolo a. C., scoprirebbe, per prima cosa, che nemmeno Cicerone parlava come scriveva. Non avendo, purtroppo, avuto colloqui a tu per tu con lâArpinate, lo possiamo dire con buona sicurezza a partire dalla valutazione delle difformitĂ , di lessico e stile, e anche di uso sintattico, fra le orazioni e le opere politico-filosofiche e lâepistolario (che, ricordiamolo, consta di lettere private, missive reali, pubblicate postume e senza la revisione dellâautore). Altrimenti, sarebbe come pensare che ai tempi di Leopardi tutti, per le strade di Recanati o di Roma, si esprimessero nella lingua dei Canti.
Non solo. La lingua latina letteraria nasce nel III sec. a. C. per iniziativa di autori che non sono Romani, ma di madrelingua greca, o comunque non originari dellâUrbe. Livio Andronico Ăš un liberto tarantino che traduce lâOdissea in versi saturni; Gneo Nevio Ăš originario della Campania, quindi culturalmente e linguisticamente un greco; Ennio, lâautore del primo grande poema nazionale latino, gli Annales, Ăš originario di Rudiae, nellâattuale Puglia, e afferma orgoglioso di avere «tre cuori» (tria corda), cioĂš di essere trilingue (dato che parla osco, greco e latino). Di letterati romani nel senso di nati a Roma, nei sette secoli e oltre durante i quali si snoda la letteratura latina, ne troviamo forse solo due: Giulio Cesare e Licinio Calvo, amico e sodale di Catullo.
Ancora: il latino Ăš per certi versi «un assurdo di successo». Infatti, la lingua letteraria in origine era estremamente creativa, flessibile, agglutinante, ricca di composti nominali (come era il greco, e, oggi, come lâinglese). Il I secolo a. C. vede perĂČ in atto un ripensamento della lingua, allâinsegna di una feroce opera di normalizzazione, regolarizzazione e razionalizzazione, ispirata a un criterio rigorosamente analogico. Il risultato Ăš la lingua che conosciamo: un capolavoro di sintesi, potenza espressiva, chiarezza, pregnanza, con un lessico da cui sono banditi i composti nominali, in pratica spariti dopo Lucrezio, scarno e soggetto a una continua risemantizzazione, spesso usato metaforicamente e per traslato (ecco perchĂ© Ăš difficile tradurre dal latino, forse piĂč che dal greco). Ma anche una lingua letteraria, in fondo, estremamente stabile, come sterilizzata, tanto che Claudio Claudiano, il poeta di corte di Stilicone, nella Milano fra IV e V secolo d. C., scrive come Ovidio (seconda metĂ del I secolo a. C.): il che sarebbe come se Foscolo avesse scritto come Dante, vissuto cinque secoli prima.
3. La «fine del latino» o un nuovo inizio?
La chiave per comprendere la «fine» del latino sta anche nel suo successo e nella sua diffusione. Quando Roma diventa padrona dellâItalia prima, e poi del Mediterraneo e di mezza Europa, Ăš chiaro che tutti i popoli conquistati devono apprendere la lingua dei conquistatori. Ma la glottologia ci insegna che le lingue di sostrato, quelle cioĂš parlate in origine dalle popolazioni via via romanizzate, non solo non spariscono di colpo, ma, oltre a restare vive per molto tempo nel parlato, permangono ancor piĂč lungamente, sottotraccia, come una memoria linguistica, fonetica, e lessicale, che riemerge periodicamente e che puĂČ influenzare la lingua ufficiale.
Per esempio, sappiamo dallâApologia di Apuleio (seconda metĂ del II sec. d. C.) che, nel Nord dellâAfrica, ormai da secoli romanizzata, si parlava ancora, nelle fasce piĂč umili della popolazione, il dialetto punico. E va citato anche il caso delle parlate della Gallia Cisalpina: con Catullo entrano nella lingua letteraria parole come basium, da cui «bacio», che soppianterĂ osculum; e lâaggettivo bellus, «carino, grazioso», che si rapporta allâaulico pulcher piĂč o meno con lo stesso scarto che separa oggi pretty da beautiful.
Câera poi chi il latino proprio non aveva potuto studiarlo, ma lâaveva dovuto imparare «sul campo»: Ăš il caso dei liberti immortalati da Petronio nel Satyricon (I sec. d. C.), nellâepisodio della Cena di Trimalchione. Petronio, che era lâelegantiae arbiter, cioĂš il consulente dâimmagine, di Nerone, mette in scena nei capitoli 41, 9-47, degli schiavi liberati, che hanno fatto fortuna, rimboccandosi le maniche, come tanti piccoli self-made man.
Questo passo â che il FelliniSatyricon aveva reso con un pastiche di vari accenti dialettali italiani â consente un irripetibile sguardo di scorcio sulla lingua dei liberti, di quei personaggi che cioĂš hanno imparato il latino da adulti, diremmo oggi come Lingua 2, ovvero come una lingua straniera, una volta cresciuti e venduti nei mercati di schiavi di tutto il Mediterraneo prima di essere sbalzati in un altro mondo, lâItalia meridionale, ricca, prospera e sofisticata. Questi liberti, spesso originari della pars orientalis del Mediterraneo, come dichiara il loro nome grecizzante (Dama, Seleuco, Ganimede, Echione ecc.) hanno la peculiaritĂ di essere di madrelingua greca (quel greco che non implicava di certo una raffinata cultura letteraria, ma che da secoli era la lingua parlata in tutta la parte orientale del Mediterraneo), e di non aver studiato latino accademicamente, diremmo oggi: in altre parole, il singolare impasto del linguaggio dei liberti talvolta va ascritto a pura e semplice ignoranza. Essi, infatti, sono «venuti dal niente», e ce li possiamo immaginare farsi strada nel mondo con furbizia e forza; quando parlano utilizzano una lingua immaginosa, esplosiva, vivacissima, che procede per accumulo di immagini, proverbi, similitudini tratte dal mondo agricolo, e veri e propri errori ortografici: verbi deponenti usati come attivi; genere maschile e neutro scambiati fra loro, come capita a chi si esprime in una lingua, ma pensa nella sua lingua madre.
Ci si potrebbe chiedere, sensatamente, se la lingua di tutti i giorni, spontanea, poco preoccupata delle convenzioni grammaticali, o proprio ignara di esse, non possa essere considerata in un certo senso il «vero latino» (VÀÀnĂ€nen, p. 33), visto che giĂ un osservatore acuto come Quintiliano, a fine I secolo d. C., discutendo del valore relativo di due princĂŹpi, lingua dâuso e grammatica normativa, dava la precedenza al primo, «la guida piĂč sicura della parola», giudicando non priva di spirito la battuta secondo la quale «parlare latino Ăš una cosa, parlare secondo grammatica Ăš unâaltra» (Inst. I, 6, 27). Tuttavia, Quintiliano seguiva poi le orme di Cicerone, auspicando il buon uso del latino di Roma, portatore dellâurbanitas, a scapito del linguaggio della provincia e dei non inurbati, la rusticitas.
Se guardiamo poi alle sue origini, la definizione stessa di «latino volgare» Ăš molto antica, e risale ai termini ciceroniani plebeius sermo e vulgaris sermo: Cicerone con vulgari sermone (Ac. I, 2) vuol dire «nei termini della lingua corrente»; mentre in de orat. I, 2, vulgare genus orationis significa, in accezione neutra, «maniera corrente di esprimersi», dalla quale non bisogna allontanarsi, non piĂč di quanto ci si debba allontanare dal buonsenso. Il latino di tutti i giorni, quello utilizzato dalla gran parte della popolazione, era quindi differente, spesso molto diverso, da quello letterario. E che imparare la grammatica normativa fosse difficile, del resto, lo dimostra il fatto che le testimonianze del latino parlato, laddove riemergono, ci mostrano tutta la distanza fra lingua dâuso e lingua letteraria.
Un documento molto interessante Ăš, per esempio, lâAppendix Probi(1), che ci trasporta verso i secoli dellâAlto Medioevo, nel periodo di gestazione delle lingue romanze. Verso lâanno 700, dei monaci di Bobbio raschiarono una pergamena contenente alcuni passi biblici, per copiare un testo grammaticale dello Pseudo-Probo. A esso sono aggiunte cinque appendici...