Come il latino ci salva la vita
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Come il latino ci salva la vita

Silvia Stucchi

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Come il latino ci salva la vita

Silvia Stucchi

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È la materia che più di tutte toglie il sonno, è sinonimo di difficoltà, fatica e notti in bianco, è causa di disperazione in figli e genitori... Ma è soprattutto una bellissima avventura.Come il latino ci salva la vita spiega perché dobbiamo essere grati alla lingua di Virgilio e Cicerone, e perché essa non è uno scoglio, ma un'ancora di salvezza che insegna a vivere meglio; con un percorso tematico sui grandi della latinità, da Orazio a Seneca, da Catullo a Petronio, da Lucrezio a Quintiliano, troveremo la risposta che gli uomini di duemila anni fa davano ai loro problemi, dall'innamoramento infelice all'insofferenza verso le feste comandate; dal rifiuto degli status symbol ai dispiaceri scolastici; risposte che possono lenire anche le nostre ansie quotidiane, o farci guardare al presente con un occhio diverso.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2020
ISBN
9788881559596

Capitolo 1

Come & perché abbiamo rinunciato al latino

1. Una domanda lecita & spinosa

Una delle domande che più angosciano lo studente, fra una versione e un compito sui verbi, è perché dobbiamo studiare il latino, se non lo parliamo più; e, soprattutto, come e perché abbiamo smesso di parlare latino (e sottintendendo: e quali sono stati gli ultimi fortunati a non averne i sonni turbati, perché per loro il latino era la madrelingua?). La domanda merita un approfondimento.

2. Un solo latino o «tanti latini»?

In una pagina della Coscienza di Zeno, il protagonista ascolta le lamentele della giovane Alberta, che diventerà sua cognata. La ragazza, studentessa ginnasiale, si affligge perché il latino le riesce «molto difficile», e Zeno, con un umorismo tra il cavalleresco e il paternalista, la consola così: «Dissi di non meravigliarmene, perché era una lingua che non faceva per le donne, tanto ch’io pensavo che già fra gli antichi romani le donne avessero parlato l’italiano» (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, rist. Mondadori 2000, cap. V, p. 85). Poco dopo, però, Zeno si fa cogliere in castagna da Alberta, che gli deve correggere una citazione.
La battuta di Zeno, secondo il quale a Roma le donne avevano sempre parlato l’italiano, però, come in ogni paradosso, arriva al cuore della realtà: ma che fine ha fatto il latino? Come siamo arrivati a parlare l’italiano? Forse, però, sarebbe più corretto chiederci: ma il latino come lo leggiamo e lo studiamo è stato mai parlato? La risposta, ahimé, è no. Ricordiamo per prima cosa che quello di Cicerone, Seneca e Tacito è solo uno dei tanti latini; o meglio, si tratta di un’astrazione, di alcune fra le tante declinazioni possibili, secondo l’usus scribendi dei vari autori, del latino letterario. Ma a Roma lo iato fra lo scritto e il parlato doveva essere enorme. E ce ne accorgiamo solo le rare volte in cui possiamo intravedere uno squarcio della vita di tutti i giorni. Dove?
Nei graffiti pompeiani, per esempio, che ci restituiscono il latino parlato in un preciso momento storico, e che sono una miniera di informazioni, non soltanto sulla quotidianità, poco aulica e molto vivace, per non dire a tratti cafona, di una popolosa e ricca città campana nel 79 d. C.: essi sono anche un documento prezioso sullo stato del latino usato quotidianamente. Infatti, i muri di Pompei ospitano brani poetici, alcuni anche molto eleganti, opera di anonimi scriventi colti: ma, per lo più, troviamo per esempio la caduta della –m finale degli accusativi singolari, che veniva pronunciata fievolmente e che venne via via omessa (ricordiamo che la gran parte delle parole italiane viene dal latino attraverso il caso accusativo e non attraverso il nominativo, secondo lo schema: civitatem - civitate - cittade - città); e poi scempiamenti (nulae per nullae), voci verbali come futebatur (per futuebatur) e così via: un quadro ben diverso dalla prosa di Sallustio e Quintiliano.
Un buono strumento di riflessione su questo punto è l’Introduzione al latino volgare del finlandese Veikko Väänänen (Pàtron 20034), che illustra la nozione di «latino volgare», fondamentale per comprendere il passaggio successivo dal latino alle lingue neolatine. L’espressione «latino volgare» comporta vantaggi e svantaggi: i latinisti l’hanno per un po’ osteggiata, in quanto l’aggettivo «volgare» farebbe pensare alla lingua degli incolti; qualcuno avrebbe preferito, infatti, definizioni come «latino popolare», o «latino familiare», o «latino di tutti i giorni», forse più adeguate dal punto di vista sociale e sincronico.
Sicuramente, se una persona capace di parlare e scrivere in buon latino – per intenderci, nel latino ciceroniano – fosse trasportata magicamente nella Roma del I secolo a. C., scoprirebbe, per prima cosa, che nemmeno Cicerone parlava come scriveva. Non avendo, purtroppo, avuto colloqui a tu per tu con l’Arpinate, lo possiamo dire con buona sicurezza a partire dalla valutazione delle difformità, di lessico e stile, e anche di uso sintattico, fra le orazioni e le opere politico-filosofiche e l’epistolario (che, ricordiamolo, consta di lettere private, missive reali, pubblicate postume e senza la revisione dell’autore). Altrimenti, sarebbe come pensare che ai tempi di Leopardi tutti, per le strade di Recanati o di Roma, si esprimessero nella lingua dei Canti.
Non solo. La lingua latina letteraria nasce nel III sec. a. C. per iniziativa di autori che non sono Romani, ma di madrelingua greca, o comunque non originari dell’Urbe. Livio Andronico è un liberto tarantino che traduce l’Odissea in versi saturni; Gneo Nevio è originario della Campania, quindi culturalmente e linguisticamente un greco; Ennio, l’autore del primo grande poema nazionale latino, gli Annales, è originario di Rudiae, nell’attuale Puglia, e afferma orgoglioso di avere «tre cuori» (tria corda), cioè di essere trilingue (dato che parla osco, greco e latino). Di letterati romani nel senso di nati a Roma, nei sette secoli e oltre durante i quali si snoda la letteratura latina, ne troviamo forse solo due: Giulio Cesare e Licinio Calvo, amico e sodale di Catullo.
Ancora: il latino è per certi versi «un assurdo di successo». Infatti, la lingua letteraria in origine era estremamente creativa, flessibile, agglutinante, ricca di composti nominali (come era il greco, e, oggi, come l’inglese). Il I secolo a. C. vede però in atto un ripensamento della lingua, all’insegna di una feroce opera di normalizzazione, regolarizzazione e razionalizzazione, ispirata a un criterio rigorosamente analogico. Il risultato è la lingua che conosciamo: un capolavoro di sintesi, potenza espressiva, chiarezza, pregnanza, con un lessico da cui sono banditi i composti nominali, in pratica spariti dopo Lucrezio, scarno e soggetto a una continua risemantizzazione, spesso usato metaforicamente e per traslato (ecco perché è difficile tradurre dal latino, forse più che dal greco). Ma anche una lingua letteraria, in fondo, estremamente stabile, come sterilizzata, tanto che Claudio Claudiano, il poeta di corte di Stilicone, nella Milano fra IV e V secolo d. C., scrive come Ovidio (seconda metà del I secolo a. C.): il che sarebbe come se Foscolo avesse scritto come Dante, vissuto cinque secoli prima.

3. La «fine del latino» o un nuovo inizio?

La chiave per comprendere la «fine» del latino sta anche nel suo successo e nella sua diffusione. Quando Roma diventa padrona dell’Italia prima, e poi del Mediterraneo e di mezza Europa, è chiaro che tutti i popoli conquistati devono apprendere la lingua dei conquistatori. Ma la glottologia ci insegna che le lingue di sostrato, quelle cioè parlate in origine dalle popolazioni via via romanizzate, non solo non spariscono di colpo, ma, oltre a restare vive per molto tempo nel parlato, permangono ancor più lungamente, sottotraccia, come una memoria linguistica, fonetica, e lessicale, che riemerge periodicamente e che può influenzare la lingua ufficiale.
Per esempio, sappiamo dall’Apologia di Apuleio (seconda metà del II sec. d. C.) che, nel Nord dell’Africa, ormai da secoli romanizzata, si parlava ancora, nelle fasce più umili della popolazione, il dialetto punico. E va citato anche il caso delle parlate della Gallia Cisalpina: con Catullo entrano nella lingua letteraria parole come basium, da cui «bacio», che soppianterà osculum; e l’aggettivo bellus, «carino, grazioso», che si rapporta all’aulico pulcher più o meno con lo stesso scarto che separa oggi pretty da beautiful.
C’era poi chi il latino proprio non aveva potuto studiarlo, ma l’aveva dovuto imparare «sul campo»: è il caso dei liberti immortalati da Petronio nel Satyricon (I sec. d. C.), nell’episodio della Cena di Trimalchione. Petronio, che era l’elegantiae arbiter, cioè il consulente d’immagine, di Nerone, mette in scena nei capitoli 41, 9-47, degli schiavi liberati, che hanno fatto fortuna, rimboccandosi le maniche, come tanti piccoli self-made man.
Questo passo – che il FelliniSatyricon aveva reso con un pastiche di vari accenti dialettali italiani – consente un irripetibile sguardo di scorcio sulla lingua dei liberti, di quei personaggi che cioè hanno imparato il latino da adulti, diremmo oggi come Lingua 2, ovvero come una lingua straniera, una volta cresciuti e venduti nei mercati di schiavi di tutto il Mediterraneo prima di essere sbalzati in un altro mondo, l’Italia meridionale, ricca, prospera e sofisticata. Questi liberti, spesso originari della pars orientalis del Mediterraneo, come dichiara il loro nome grecizzante (Dama, Seleuco, Ganimede, Echione ecc.) hanno la peculiarità di essere di madrelingua greca (quel greco che non implicava di certo una raffinata cultura letteraria, ma che da secoli era la lingua parlata in tutta la parte orientale del Mediterraneo), e di non aver studiato latino accademicamente, diremmo oggi: in altre parole, il singolare impasto del linguaggio dei liberti talvolta va ascritto a pura e semplice ignoranza. Essi, infatti, sono «venuti dal niente», e ce li possiamo immaginare farsi strada nel mondo con furbizia e forza; quando parlano utilizzano una lingua immaginosa, esplosiva, vivacissima, che procede per accumulo di immagini, proverbi, similitudini tratte dal mondo agricolo, e veri e propri errori ortografici: verbi deponenti usati come attivi; genere maschile e neutro scambiati fra loro, come capita a chi si esprime in una lingua, ma pensa nella sua lingua madre.
Ci si potrebbe chiedere, sensatamente, se la lingua di tutti i giorni, spontanea, poco preoccupata delle convenzioni grammaticali, o proprio ignara di esse, non possa essere considerata in un certo senso il «vero latino» (Väänänen, p. 33), visto che già un osservatore acuto come Quintiliano, a fine I secolo d. C., discutendo del valore relativo di due princìpi, lingua d’uso e grammatica normativa, dava la precedenza al primo, «la guida più sicura della parola», giudicando non priva di spirito la battuta secondo la quale «parlare latino è una cosa, parlare secondo grammatica è un’altra» (Inst. I, 6, 27). Tuttavia, Quintiliano seguiva poi le orme di Cicerone, auspicando il buon uso del latino di Roma, portatore dell’urbanitas, a scapito del linguaggio della provincia e dei non inurbati, la rusticitas.
Se guardiamo poi alle sue origini, la definizione stessa di «latino volgare» è molto antica, e risale ai termini ciceroniani plebeius sermo e vulgaris sermo: Cicerone con vulgari sermone (Ac. I, 2) vuol dire «nei termini della lingua corrente»; mentre in de orat. I, 2, vulgare genus orationis significa, in accezione neutra, «maniera corrente di esprimersi», dalla quale non bisogna allontanarsi, non più di quanto ci si debba allontanare dal buonsenso. Il latino di tutti i giorni, quello utilizzato dalla gran parte della popolazione, era quindi differente, spesso molto diverso, da quello letterario. E che imparare la grammatica normativa fosse difficile, del resto, lo dimostra il fatto che le testimonianze del latino parlato, laddove riemergono, ci mostrano tutta la distanza fra lingua d’uso e lingua letteraria.
Un documento molto interessante è, per esempio, l’Appendix Probi(1), che ci trasporta verso i secoli dell’Alto Medioevo, nel periodo di gestazione delle lingue romanze. Verso l’anno 700, dei monaci di Bobbio raschiarono una pergamena contenente alcuni passi biblici, per copiare un testo grammaticale dello Pseudo-Probo. A esso sono aggiunte cinque appendici...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Studiare latino: un incubo o un’opportunità?
  2. Capitolo 1. Come & perché abbiamo rinunciato al latino
  3. Capitolo 2. Zero in condotta
  4. Capitolo 3. Vacanze romane. L’incubo delle ferie (& delle festività)
  5. Capitolo 4. Uomo & ambiente: un rapporto difficile
  6. Capitolo 5. Parenti serpenti
  7. Capitolo 6. Il fallimento educativo
  8. Capitolo 7. Sei bruttina, Ovidio ti aiuta. Anche senza ritocchino
  9. Capitolo 8, È l’amor che mi consuma
  10. Capitolo 9. Non ho un sesterzio... Volevo dire, un euro
  11. Capitolo 10. Che ansia!
  12. Capitolo 11. Senectus ipsa est morbus?
  13. Capitolo 12. Amici alla romana
  14. Capitolo 13. Sette chili in sette giorni
  15. Capitolo 14. Eletto, non eletto: il fallimento politico
  16. Capitolo 15. Morire a Roma
  17. Appendice. La questione del latino di Guy de Maupassant
  18. Conclusione & ringraziamenti
  19. Indice
Stili delle citazioni per Come il latino ci salva la vita

APA 6 Citation

Stucchi, S. (2020). Come il latino ci salva la vita ([edition unavailable]). Ares. Retrieved from https://www.perlego.com/book/1979051/come-il-latino-ci-salva-la-vita-pdf (Original work published 2020)

Chicago Citation

Stucchi, Silvia. (2020) 2020. Come Il Latino Ci Salva La Vita. [Edition unavailable]. Ares. https://www.perlego.com/book/1979051/come-il-latino-ci-salva-la-vita-pdf.

Harvard Citation

Stucchi, S. (2020) Come il latino ci salva la vita. [edition unavailable]. Ares. Available at: https://www.perlego.com/book/1979051/come-il-latino-ci-salva-la-vita-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Stucchi, Silvia. Come Il Latino Ci Salva La Vita. [edition unavailable]. Ares, 2020. Web. 15 Oct. 2022.