Gran parte della storia umana Ăš perduta in modo irrimediabile. La nostra specie, lâHomo sapiens, esiste da almeno duecentomila anni, ma perlopiĂč non abbiamo idea di cosa sia accaduto in questo periodo. Nella Spagna settentrionale, per esempio, le pitture e le incisioni della grotta di Altamira videro la luce nellâarco di almeno diecimila anni, tra il 25.000 e il 15.000 a.C. circa. Con molta probabilitĂ , in quel lasso di tempo ebbero luogo molti avvenimenti drammatici, che per la maggior parte sono caduti nellâoblio.
CiĂČ ha scarso valore per la maggioranza delle persone perchĂ©, in ogni caso, non riflettono quasi mai sullâampio dipanarsi della storia umana. Non hanno molte ragioni per farlo. Se mai qualcuno affronta la questione, di solito lo fa quando si chiede perchĂ© il mondo sembri precipitato in un simile caos e perchĂ©, molto spesso, gli esseri umani si trattino male a vicenda: quali siano, insomma, i motivi della guerra, dellâaviditĂ , dello sfruttamento, dellâindifferenza sistematica alla sofferenza altrui. Siamo sempre stati cosĂŹ o, a un certo punto, qualcosa Ăš andato storto?
Ă soprattutto un dibattito teologico. In breve, la domanda Ăš la seguente: gli esseri umani sono buoni o cattivi di natura? Se ci pensate, perĂČ, lâinterrogativo, formulato in questi termini, ha pochissimo senso. «Buono» e «cattivo» sono concetti puramente umani. A nessuno verrebbe mai in mente di discutere se un pesce o un albero siano buoni o cattivi, perchĂ© queste sono categorie inventate da noi uomini per confrontarci lâuno con lâaltro. Ne consegue che chiedersi se gli esseri umani siano fondamentalmente buoni o cattivi Ăš sensato quanto chiedersi se siano fondamentalmente grassi o magri.
Nonostante ciĂČ, nelle occasioni in cui le persone riflettono sugli insegnamenti della preistoria, tornano quasi inevitabilmente ai quesiti di questo tipo. Conosciamo tutti la risposta cristiana: un tempo, gli uomini vivevano in uno stato di innocenza, ma erano macchiati dal peccato originale. Desideravamo essere divini e siamo stati puniti per questo; ora viviamo in uno stato decaduto, sperando nella redenzione futura. Oggi la versione popolare di questa storia Ăš solitamente una rivisitazione aggiornata del Discorso sullâorigine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau, che scrisse questâopera nel 1754. Una volta, narra la storia, eravamo cacciatori-raccoglitori che vivevano in un prolungato stato di innocenza infantile, riuniti in minuscole bande ugualitarie, che riuscivano a essere tali proprio perchĂ© erano cosĂŹ piccole. Fu solo dopo la «rivoluzione agricola» e, ancora di piĂč, dopo lâaffermarsi delle cittĂ che questa condizione felice giunse al termine, inaugurando «la civiltà » e «lo Stato», che determinarono la comparsa della letteratura scritta, della scienza e della filosofia ma, allo stesso tempo, anche di quasi tutte le cose terribili della vita umana: il patriarcato, gli eserciti permanenti, le esecuzioni di massa e i burocrati irritanti, con la loro pretesa che noialtri passiamo gran parte dellâesistenza a compilare moduli.
Naturalmente Ăš una semplificazione molto rudimentale, tuttavia sembra davvero la storia di fondazione che si delinea ogni volta che qualcuno, dagli psicologi industriali ai teorici rivoluzionari, dice qualcosa come «ma ovviamente gli esseri umani hanno trascorso gran parte della loro evoluzione vivendo in bande di dieci o venti individui» oppure «lâagricoltura Ăš stata forse il peggior errore dellâumanità ». Come vedremo, molti autori famosi sostengono questa tesi in modo piuttosto esplicito. Il problema Ăš che chiunque cerchi unâalternativa a questa deprimente visione della storia scopre ben presto che lâunica disponibile Ăš, in realtĂ , ancora piĂč scoraggiante: se non Rousseau, allora Thomas Hobbes.
Il suo Leviatano, pubblicato nel 1651, Ăš per molti versi il testo fondante della teoria politica moderna. Sostiene che, siccome gli esseri umani sono creature egoiste, la vita in un originario stato di natura non era affatto innocente; deve invece essere stata «solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve». Uno stato di guerra, insomma, in cui tutti combattevano contro tutti. Se mai câĂš stato qualche progresso rispetto a quella situazione arretrata, affermerebbe un hobbesiano, si deve perlopiĂč proprio ai meccanismi di repressione di cui si lamenta Rousseau: governi, tribunali, burocrazie, polizia. Anche questa visione delle cose Ăš in circolazione da moltissimo tempo. CâĂš una ragione per cui, in inglese, le parole politics, polite e police si assomigliano: derivano tutte dal vocabolo greco polis, «città », il cui equivalente latino Ăš civitas, che dĂ origine anche a civility, civic e a una certa interpretazione moderna di civilization.
La societĂ umana, in questa concezione, si fonda sulla repressione collettiva degli istinti piĂč vili, che diventa ancora piĂč necessaria quando gli uomini vivono in gran numero nello stesso luogo. Lâhobbesiano moderno, dunque, asserirebbe che, sĂŹ, abbiamo vissuto quasi tutta la nostra storia evolutiva in minuscoli gruppi, capaci di andare dâaccordo soprattutto perchĂ© condividevano lâinteresse comune della sopravvivenza della prole («investimento parentale», come lo chiamano i biologi evolutivi). Nemmeno loro, tuttavia, si basavano sullâuguaglianza. CâĂš sempre, in questa versione, un «maschio alfa» che funge da leader. La gerarchia e la dominazione, insieme al cinico interesse personale, sono sempre state il cardine della societĂ umana. Ă solo che, collettivamente, abbiamo scoperto che Ăš piĂč vantaggioso dare la prioritĂ agli interessi a lungo termine rispetto agli istinti a breve termine; o meglio, creare leggi che ci costringano a relegare gli impulsi peggiori ad ambiti socialmente utili come lâeconomia, proibendoli in qualunque altra sede.
Come probabilmente il lettore intuirĂ dal nostro tono, non amiamo molto la scelta tra queste due alternative. Le nostre obiezioni si possono classificare in tre ampie categorie. In quanto resoconti del corso generale della storia umana, queste teorie:
- non sono semplicemente vere;
- hanno gravi implicazioni politiche;
- rendono il passato inutilmente noioso.
Questo libro vuole iniziare a raccontare una storia diversa, piĂč ottimista e piĂč interessante; una storia che, allo stesso tempo, tenga maggiormente in considerazione i risultati degli ultimi decenni di ricerche. In parte, Ăš questione di raccogliere le prove accumulate dallâarcheologia, dallâantropologia e dalle discipline affini, prove che danno un resoconto inedito di come le societĂ umane si siano sviluppate negli ultimi trentamila anni circa. Quasi tutte queste ricerche si contrappongono alla narrazione convenzionale, ma troppo spesso le scoperte piĂč degne di nota restano confinate al lavoro degli esperti, o si devono dedurre leggendo tra le righe delle pubblicazioni scientifiche.
Per dare solo unâidea di quanto sia diverso il quadro che si delinea: ormai Ăš chiaro che le societĂ umane prima dellâavvento dellâagricoltura non si riducevano a piccole bande ugualitarie. Al contrario, il mondo dei cacciatori-raccoglitori si contraddistingueva per audaci esperimenti sociali, assomigliando molto piĂč a una variopinta carrellata di forme politiche che alle monotone astrazioni della teoria evolutiva. Lâagricoltura, a sua volta, non implicĂČ lâinizio della proprietĂ privata, nĂ© segnĂČ un passo irreversibile verso la disuguaglianza. Anzi, molte delle prime comunitĂ agricole erano relativamente prive di ranghi e gerarchie. Lungi dal basarsi su rigide differenze di classe, un sorprendente numero delle piĂč antiche cittĂ del mondo era organizzato secondo principi fortemente ugualitari, senza il bisogno di sovrani autoritari, guerrieri-politici ambiziosi o addirittura amministratori prepotenti.
Le notizie in merito arrivano da ogni angolo del pianeta. Di conseguenza, i ricercatori di tutto il mondo esaminano in una nuova luce anche il materiale etnografico e storico. Ormai siamo in possesso dei pezzi del puzzle che ci permettono di raccontare una storia del mondo totalmente diversa, ma finora sono rimasti nascosti a tutti tranne ad alcuni esperti privilegiati (e persino costoro tendono a esitare prima di abbandonare la loro minuscola parte del puzzle per confrontarsi con altri al di fuori del loro sottocampo specifico). In questo libro vogliamo cominciare a mettere insieme alcuni pezzi del puzzle, con la piena consapevolezza che nessuno ancora li possiede tutti. Il compito Ăš immane, e le questioni sono cosĂŹ importanti che occorreranno anni di ricerche e dibattiti anche solo per iniziare a capire le implicazioni dellâimmagine che sta prendendo forma. Tuttavia Ăš indispensabile mettere in moto il processo. Ben presto diventerĂ chiaro che il «quadro generale» prevalente della storia â condiviso dai moderni seguaci tanto di Hobbes quanto di Rousseau â non ha quasi nulla a che vedere con i fatti. Per cominciare a dare un senso alle informazioni che ormai sono sotto i nostri occhi, perĂČ, non basta raccogliere e vagliare enormi quantitĂ di dati. Ă necessario anche un cambiamento concettuale.
Accettarlo significa tornare su alcuni dei passi iniziali che hanno condotto alla visione moderna dellâevoluzione sociale: lâidea che le societĂ umane si possano impostare secondo fasi di sviluppo, ciascuna con le sue tecnologie e forme di organizzazione caratteristiche (cacciatori-raccoglitori, agricoltori, societĂ urbano-industriale eccetera). Come vedremo, simili concetti affondano le radici in una reazione conservatrice alla critica della civiltĂ europea, che cominciĂČ a guadagnare terreno nei primi decenni del XVIII secolo. Le origini di quella critica, tuttavia, non sono rintracciabili nei filosofi dellâIlluminismo (per quanto allâinizio la ammirassero e la imitassero), ma in commentatori e osservatori indigeni della societĂ europea, come lo statista nativo americano (urone-wendat) Kondiaronk, di cui parleremo approfonditamente nel prossimo capitolo.
Rivisitare quella che chiameremo «critica indigena» significa prendere sul serio contributi al pensiero sociale che vengono dallâesterno del canone europeo, e in particolare dai popoli indigeni a cui i filosofi occidentali tendono ad assegnare il ruolo di angeli o di diavoli della storia. Entrambe le posizioni precludono qualunque possibilitĂ concreta di scambio intellettuale, o addirittura di dialogo: Ăš difficile contraddire sia qualcuno che Ăš considerato diabolico sia qualcuno che Ăš considerato divino, perchĂ© probabilmente qualunque cosa dica sarĂ giudicata irrilevante o molto profonda. La maggior parte delle persone che prenderemo in considerazione in questo volume Ăš morta da molto tempo. Non Ăš piĂč possibile avere un qualche tipo di conversazione con loro. Nonostante ciĂČ, siamo determinati a scrivere la preistoria come se fosse popolata da individui con cui sarebbe stato possibile parlare quando erano ancora vivi, individui che non esistono solo come modelli, esemplari, burattini o giocattoli di qualche inesorabile legge storica.
Sicuramente ci sono delle tendenze nella storia. Alcune sono poderose, correnti cosÏ forti che Ú molto difficile nuotarvi contro (benché sembri sempre che alcuni ci riescano); ma le uniche «leggi» sono quelle di nostra invenzione. Il che ci porta alla seconda obiezione.
PerchĂ© la visione hobbesiana e quella rousseauiana della storia dellâumanitĂ hanno entrambe gravi implicazioni politiche
Le implicazioni politiche del modello hobbesiano non necessitano di molti approfondimenti. Ă unâipotesi centrale del nostro sistema economico che gli esseri umani siano, in fondo, creature alquanto sgradevoli ed egoiste, inclini a basare le proprie decisioni sul calcolo cinico e interessato anzichĂ© sullâaltruismo o sulla collaborazione; nel qual caso, il meglio che possiamo sperare sono controlli interni ed esterni piĂč sofisticati sulla nostra pulsione apparentemente innata allâaccumulo e allâautocelebrazione. La storia rousseauiana di come il genere umano precipitĂČ nella disuguaglianza da uno stato originario di innocenza ugualitaria sembra piĂč ottimista (se non altro câera un luogo migliore da cui cadere), ma al giorno dâoggi viene usata prevalentemente per convincerci che, sebbene il sistema in cui viviamo possa essere iniquo, il massimo a cui possiamo aspirare Ăš qualche modesto aggiustamento. Il termine «disuguaglianza» Ăš esso stesso molto eloquente da questo punto di vista.
Dopo la crisi finanziaria del 2008 e gli sconvolgimenti che ne derivarono, la questione della disuguaglianza e, con essa, la sua storia a lungo termine sono diventate importanti oggetti di discussione. Gli intellettuali e, in certa misura, anche le classi politiche sono concordi nellâaffermare che i livelli di disuguaglianza sociale sono sfuggiti a ogni controllo e che quasi tutti i problemi del mondo scaturiscono, in un modo o nellâaltro, da un divario sempre piĂč profondo tra ricchi e poveri. Evidenziarlo significa giĂ di per sĂ© mettere in discussione le strutture del potere globale; allo stesso tempo, perĂČ, questo approccio presenta la questione in un modo che Ăš ancora fondamentalmente rassicurante per chi trae vantaggio da quelle strutture, perchĂ© sottintende che una soluzione significativa al problema non sarebbe mai possibile.
Dopotutto, immaginate di contestualizzare diversamente la questione, come si sarebbe potuto fare cinquanta o cento anni fa: in termini di concentrazione di capitali, o oligopolio, o potere di classe. Rispetto a una qualunque di queste parole, un vocabolo come «disuguaglianza» sembra studiato per incoraggiare le mezze misure e i compromessi. Ă possibile ipotizzare di sovvertire il capitalismo o di distruggere il potere dello Stato, ma non Ăš chiaro cosa significherebbe eliminare la disuguaglianza (quale tipo di disuguaglianza? Quella della ricchezza? Quella delle opportunitĂ ? Fino a che punto, di preciso, le persone dovrebbero essere uguali per poter dire di aver «eliminato la disuguaglianza»?). Il termine «disuguaglianza» Ăš un modo di inquadrare i problemi sociali che ben si adatta a unâepoca di riformatori tecnocratici, inclini fin dallâinizio a dare per scontato che una visione della trasformazione sociale non sia nemmeno in esame.
Discutere di disuguaglianza permette di provare ad aggiustare i numeri, di snocciolare coefficienti di Gini e soglie di disfunzione, di correggere i regimi fiscali o i meccanismi di previdenza sociale, e persino di scioccare il pubblico con cifre che dimostrino quanto si sia aggravata la situazione («Riuscite a crederci? Lâ1 per cento della popolazione possiede il 44 per cento della ricchezza mondiale!»), ma consente anche di fare tutto questo senza considerare i fattori che, in realtĂ , le persone contestano riguardo a questi sistemi sociali «disuguali»: per esempio, il fatto che alcuni riescano a trasformare la ricchezza in potere sugli altri; o che altri finiscano per sentirsi dire che i loro bisogni non sono importanti e che la loro vita non ha alcun valore intrinseco. Questâultimo fenomeno, siamo indotti a credere, Ăš solo lâinevitabile effetto della disuguaglianza, e la disuguaglianza Ăš lâinevitabile risultato del vivere in una qualunque societĂ grande, complessa, urbana, tecnologicamente sofisticata. Con molta probabilitĂ questa conseguenza sarĂ sempre con noi. Ă solo questione di intensitĂ .
Oggi câĂš un autentico boom di riflessioni sulla disuguaglianza: dal 2011, la «disuguaglianza globale» Ăš uno degli argomenti di discussione principali al Forum economico mondiale di Davos. Ci sono indici di disuguaglianza, istituti per lo studio della disuguaglianza e un incessante flusso di pubblicazioni che cercano di proiettare lâattuale ossessione per la distribuzione della proprietĂ sullâetĂ della Pietra. Qualcuno ha persino tentato di calcolare i livelli di reddito e i coefficienti di Gini per i cacciatori paleolitici di mammut (si sono rivelati entrambi molto bassi).1 Ă quasi come se sentissimo lâesigenza di inventare formule matematiche capaci di giustificare il detto, giĂ popolare ai tempi di Rousseau, secondo cui in simili società «erano tutti uguali perchĂ© erano tutti ugualmente poveri».
Lâeffetto ultimo di tutte queste storie su un originario stato di innocenza e uguaglianza, come lâuso dello stesso termine «disuguaglianza», Ăš dipingere il pessimismo malinconico verso la condizione umana come una scelta di buonsenso: il risultato naturale della decisione di guardare noi stessi attraverso le larghe lenti della storia. SĂŹ, vivere in una societĂ davvero ugualitaria potrebbe essere fattibile se foste pigmei o boscimani del ...