L'alba di tutto
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L'alba di tutto

Una nuova storia dell'umanità

DAVID WENGROW, David Graeber

  1. 736 páginas
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L'alba di tutto

Una nuova storia dell'umanità

DAVID WENGROW, David Graeber

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Da dove nascono la guerra, l'avidità, lo sfruttamento, l'insensibilità alle sofferenze altrui? E qual è l'origine della disuguaglianza, ormai rico- nosciuta come uno dei problemi più drammatici e radicati del nostro tempo? Da secoli, le risposte a queste domande si limitano a rielaborare le visioni contrapposte dei due padri della filosofia politica: Jean-Jacques Rousseau e Thomas Hobbes. Stando al primo, per la maggior parte della loro esistenza gli esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori. A un certo punto, però, a incrinare quel quadro idilliaco è arrivata l'agricoltura, che ha portato alla nascita della proprietà privata. Poi sono apparse le città, e con esse si è affermata l'organizzazione fortemente gerarchica di quella che chiamiamo «civiltà». Per Hobbes, al contrario, la necessità di imporre un rigido ordine sociale si è imposta per contenere la natura individualista e violenta dell'essere umano, altrimenti sarebbe stato impossibile progredire organizzandosi in grandi gruppi.
Quasi tutti conoscono queste due storie alternative, almeno nelle loro linee generali: riassumono le idee più diffuse sulla storia dell'umanità e la sua evoluzione, e hanno contribuito a definire la nostra visione del mondo. Ma pongono anche un problema: entrambe dipingono la disuguaglianza come una tragica necessità; un elemento che non potremo mai cancellare del tutto, in quanto intrinsecamente legato al vivere comune. Una visione che non convince affatto gli autori di questo libro, decisi a gettare nuova luce sul passato della nostra specie.
In una sintesi tanto meticolosa quanto di largo respiro, che coniuga i risultati delle ricerche storiche e archeologiche più recenti al contributo di pensatori provenienti da culture diverse da quella occidentale, il sociologo David Graeber e l'archeologo David Wengrow ci raccontano una storia diversa - più articolata e ricca di chiaroscuri - dell'evoluzione sociale dell'Homo sapiens. Una storia illuminante e molto più attendibile, dalla quale ripartire per provare a immaginare un futuro diverso.

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Información

Editorial
RIZZOLI
Año
2022
ISBN
9788831806862
Categoría
Arte
1

Addio all’infanzia dell’umanità

O perché questo non è un libro sulle origini della disuguaglianza
Questo clima si fa sentire ovunque, politicamente, socialmente e filosoficamente. Viviamo in quello che i greci chiamavano il καιρός (kairos) – il momento opportuno – per una «metamorfosi degli dèi», cioè dei principi e dei simboli fondamentali.
C.G. Jung, Das unentdeckte Selbst (1958)
Gran parte della storia umana è perduta in modo irrimediabile. La nostra specie, l’Homo sapiens, esiste da almeno duecentomila anni, ma perlopiù non abbiamo idea di cosa sia accaduto in questo periodo. Nella Spagna settentrionale, per esempio, le pitture e le incisioni della grotta di Altamira videro la luce nell’arco di almeno diecimila anni, tra il 25.000 e il 15.000 a.C. circa. Con molta probabilità, in quel lasso di tempo ebbero luogo molti avvenimenti drammatici, che per la maggior parte sono caduti nell’oblio.
Ciò ha scarso valore per la maggioranza delle persone perché, in ogni caso, non riflettono quasi mai sull’ampio dipanarsi della storia umana. Non hanno molte ragioni per farlo. Se mai qualcuno affronta la questione, di solito lo fa quando si chiede perché il mondo sembri precipitato in un simile caos e perché, molto spesso, gli esseri umani si trattino male a vicenda: quali siano, insomma, i motivi della guerra, dell’avidità, dello sfruttamento, dell’indifferenza sistematica alla sofferenza altrui. Siamo sempre stati così o, a un certo punto, qualcosa è andato storto?
È soprattutto un dibattito teologico. In breve, la domanda è la seguente: gli esseri umani sono buoni o cattivi di natura? Se ci pensate, però, l’interrogativo, formulato in questi termini, ha pochissimo senso. «Buono» e «cattivo» sono concetti puramente umani. A nessuno verrebbe mai in mente di discutere se un pesce o un albero siano buoni o cattivi, perché queste sono categorie inventate da noi uomini per confrontarci l’uno con l’altro. Ne consegue che chiedersi se gli esseri umani siano fondamentalmente buoni o cattivi è sensato quanto chiedersi se siano fondamentalmente grassi o magri.
Nonostante ciò, nelle occasioni in cui le persone riflettono sugli insegnamenti della preistoria, tornano quasi inevitabilmente ai quesiti di questo tipo. Conosciamo tutti la risposta cristiana: un tempo, gli uomini vivevano in uno stato di innocenza, ma erano macchiati dal peccato originale. Desideravamo essere divini e siamo stati puniti per questo; ora viviamo in uno stato decaduto, sperando nella redenzione futura. Oggi la versione popolare di questa storia è solitamente una rivisitazione aggiornata del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau, che scrisse quest’opera nel 1754. Una volta, narra la storia, eravamo cacciatori-raccoglitori che vivevano in un prolungato stato di innocenza infantile, riuniti in minuscole bande ugualitarie, che riuscivano a essere tali proprio perché erano così piccole. Fu solo dopo la «rivoluzione agricola» e, ancora di più, dopo l’affermarsi delle città che questa condizione felice giunse al termine, inaugurando «la civiltà» e «lo Stato», che determinarono la comparsa della letteratura scritta, della scienza e della filosofia ma, allo stesso tempo, anche di quasi tutte le cose terribili della vita umana: il patriarcato, gli eserciti permanenti, le esecuzioni di massa e i burocrati irritanti, con la loro pretesa che noialtri passiamo gran parte dell’esistenza a compilare moduli.
Naturalmente è una semplificazione molto rudimentale, tuttavia sembra davvero la storia di fondazione che si delinea ogni volta che qualcuno, dagli psicologi industriali ai teorici rivoluzionari, dice qualcosa come «ma ovviamente gli esseri umani hanno trascorso gran parte della loro evoluzione vivendo in bande di dieci o venti individui» oppure «l’agricoltura è stata forse il peggior errore dell’umanità». Come vedremo, molti autori famosi sostengono questa tesi in modo piuttosto esplicito. Il problema è che chiunque cerchi un’alternativa a questa deprimente visione della storia scopre ben presto che l’unica disponibile è, in realtà, ancora più scoraggiante: se non Rousseau, allora Thomas Hobbes.
Il suo Leviatano, pubblicato nel 1651, è per molti versi il testo fondante della teoria politica moderna. Sostiene che, siccome gli esseri umani sono creature egoiste, la vita in un originario stato di natura non era affatto innocente; deve invece essere stata «solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve». Uno stato di guerra, insomma, in cui tutti combattevano contro tutti. Se mai c’è stato qualche progresso rispetto a quella situazione arretrata, affermerebbe un hobbesiano, si deve perlopiù proprio ai meccanismi di repressione di cui si lamenta Rousseau: governi, tribunali, burocrazie, polizia. Anche questa visione delle cose è in circolazione da moltissimo tempo. C’è una ragione per cui, in inglese, le parole politics, polite e police si assomigliano: derivano tutte dal vocabolo greco polis, «città», il cui equivalente latino è civitas, che dà origine anche a civility, civic e a una certa interpretazione moderna di civilization.
La società umana, in questa concezione, si fonda sulla repressione collettiva degli istinti più vili, che diventa ancora più necessaria quando gli uomini vivono in gran numero nello stesso luogo. L’hobbesiano moderno, dunque, asserirebbe che, sì, abbiamo vissuto quasi tutta la nostra storia evolutiva in minuscoli gruppi, capaci di andare d’accordo soprattutto perché condividevano l’interesse comune della sopravvivenza della prole («investimento parentale», come lo chiamano i biologi evolutivi). Nemmeno loro, tuttavia, si basavano sull’uguaglianza. C’è sempre, in questa versione, un «maschio alfa» che funge da leader. La gerarchia e la dominazione, insieme al cinico interesse personale, sono sempre state il cardine della società umana. È solo che, collettivamente, abbiamo scoperto che è più vantaggioso dare la priorità agli interessi a lungo termine rispetto agli istinti a breve termine; o meglio, creare leggi che ci costringano a relegare gli impulsi peggiori ad ambiti socialmente utili come l’economia, proibendoli in qualunque altra sede.
Come probabilmente il lettore intuirà dal nostro tono, non amiamo molto la scelta tra queste due alternative. Le nostre obiezioni si possono classificare in tre ampie categorie. In quanto resoconti del corso generale della storia umana, queste teorie:
  1. non sono semplicemente vere;
  2. hanno gravi implicazioni politiche;
  3. rendono il passato inutilmente noioso.
Questo libro vuole iniziare a raccontare una storia diversa, più ottimista e più interessante; una storia che, allo stesso tempo, tenga maggiormente in considerazione i risultati degli ultimi decenni di ricerche. In parte, è questione di raccogliere le prove accumulate dall’archeologia, dall’antropologia e dalle discipline affini, prove che danno un resoconto inedito di come le società umane si siano sviluppate negli ultimi trentamila anni circa. Quasi tutte queste ricerche si contrappongono alla narrazione convenzionale, ma troppo spesso le scoperte più degne di nota restano confinate al lavoro degli esperti, o si devono dedurre leggendo tra le righe delle pubblicazioni scientifiche.
Per dare solo un’idea di quanto sia diverso il quadro che si delinea: ormai è chiaro che le società umane prima dell’avvento dell’agricoltura non si riducevano a piccole bande ugualitarie. Al contrario, il mondo dei cacciatori-raccoglitori si contraddistingueva per audaci esperimenti sociali, assomigliando molto più a una variopinta carrellata di forme politiche che alle monotone astrazioni della teoria evolutiva. L’agricoltura, a sua volta, non implicò l’inizio della proprietà privata, né segnò un passo irreversibile verso la disuguaglianza. Anzi, molte delle prime comunità agricole erano relativamente prive di ranghi e gerarchie. Lungi dal basarsi su rigide differenze di classe, un sorprendente numero delle più antiche città del mondo era organizzato secondo principi fortemente ugualitari, senza il bisogno di sovrani autoritari, guerrieri-politici ambiziosi o addirittura amministratori prepotenti.
Le notizie in merito arrivano da ogni angolo del pianeta. Di conseguenza, i ricercatori di tutto il mondo esaminano in una nuova luce anche il materiale etnografico e storico. Ormai siamo in possesso dei pezzi del puzzle che ci permettono di raccontare una storia del mondo totalmente diversa, ma finora sono rimasti nascosti a tutti tranne ad alcuni esperti privilegiati (e persino costoro tendono a esitare prima di abbandonare la loro minuscola parte del puzzle per confrontarsi con altri al di fuori del loro sottocampo specifico). In questo libro vogliamo cominciare a mettere insieme alcuni pezzi del puzzle, con la piena consapevolezza che nessuno ancora li possiede tutti. Il compito è immane, e le questioni sono così importanti che occorreranno anni di ricerche e dibattiti anche solo per iniziare a capire le implicazioni dell’immagine che sta prendendo forma. Tuttavia è indispensabile mettere in moto il processo. Ben presto diventerà chiaro che il «quadro generale» prevalente della storia – condiviso dai moderni seguaci tanto di Hobbes quanto di Rousseau – non ha quasi nulla a che vedere con i fatti. Per cominciare a dare un senso alle informazioni che ormai sono sotto i nostri occhi, però, non basta raccogliere e vagliare enormi quantità di dati. È necessario anche un cambiamento concettuale.
Accettarlo significa tornare su alcuni dei passi iniziali che hanno condotto alla visione moderna dell’evoluzione sociale: l’idea che le società umane si possano impostare secondo fasi di sviluppo, ciascuna con le sue tecnologie e forme di organizzazione caratteristiche (cacciatori-raccoglitori, agricoltori, società urbano-industriale eccetera). Come vedremo, simili concetti affondano le radici in una reazione conservatrice alla critica della civiltà europea, che cominciò a guadagnare terreno nei primi decenni del XVIII secolo. Le origini di quella critica, tuttavia, non sono rintracciabili nei filosofi dell’Illuminismo (per quanto all’inizio la ammirassero e la imitassero), ma in commentatori e osservatori indigeni della società europea, come lo statista nativo americano (urone-wendat) Kondiaronk, di cui parleremo approfonditamente nel prossimo capitolo.
Rivisitare quella che chiameremo «critica indigena» significa prendere sul serio contributi al pensiero sociale che vengono dall’esterno del canone europeo, e in particolare dai popoli indigeni a cui i filosofi occidentali tendono ad assegnare il ruolo di angeli o di diavoli della storia. Entrambe le posizioni precludono qualunque possibilità concreta di scambio intellettuale, o addirittura di dialogo: è difficile contraddire sia qualcuno che è considerato diabolico sia qualcuno che è considerato divino, perché probabilmente qualunque cosa dica sarà giudicata irrilevante o molto profonda. La maggior parte delle persone che prenderemo in considerazione in questo volume è morta da molto tempo. Non è più possibile avere un qualche tipo di conversazione con loro. Nonostante ciò, siamo determinati a scrivere la preistoria come se fosse popolata da individui con cui sarebbe stato possibile parlare quando erano ancora vivi, individui che non esistono solo come modelli, esemplari, burattini o giocattoli di qualche inesorabile legge storica.
Sicuramente ci sono delle tendenze nella storia. Alcune sono poderose, correnti così forti che è molto difficile nuotarvi contro (benché sembri sempre che alcuni ci riescano); ma le uniche «leggi» sono quelle di nostra invenzione. Il che ci porta alla seconda obiezione.

Perché la visione hobbesiana e quella rousseauiana della storia dell’umanità hanno entrambe gravi implicazioni politiche

Le implicazioni politiche del modello hobbesiano non necessitano di molti approfondimenti. È un’ipotesi centrale del nostro sistema economico che gli esseri umani siano, in fondo, creature alquanto sgradevoli ed egoiste, inclini a basare le proprie decisioni sul calcolo cinico e interessato anziché sull’altruismo o sulla collaborazione; nel qual caso, il meglio che possiamo sperare sono controlli interni ed esterni più sofisticati sulla nostra pulsione apparentemente innata all’accumulo e all’autocelebrazione. La storia rousseauiana di come il genere umano precipitò nella disuguaglianza da uno stato originario di innocenza ugualitaria sembra più ottimista (se non altro c’era un luogo migliore da cui cadere), ma al giorno d’oggi viene usata prevalentemente per convincerci che, sebbene il sistema in cui viviamo possa essere iniquo, il massimo a cui possiamo aspirare è qualche modesto aggiustamento. Il termine «disuguaglianza» è esso stesso molto eloquente da questo punto di vista.
Dopo la crisi finanziaria del 2008 e gli sconvolgimenti che ne derivarono, la questione della disuguaglianza e, con essa, la sua storia a lungo termine sono diventate importanti oggetti di discussione. Gli intellettuali e, in certa misura, anche le classi politiche sono concordi nell’affermare che i livelli di disuguaglianza sociale sono sfuggiti a ogni controllo e che quasi tutti i problemi del mondo scaturiscono, in un modo o nell’altro, da un divario sempre più profondo tra ricchi e poveri. Evidenziarlo significa già di per sé mettere in discussione le strutture del potere globale; allo stesso tempo, però, questo approccio presenta la questione in un modo che è ancora fondamentalmente rassicurante per chi trae vantaggio da quelle strutture, perché sottintende che una soluzione significativa al problema non sarebbe mai possibile.
Dopotutto, immaginate di contestualizzare diversamente la questione, come si sarebbe potuto fare cinquanta o cento anni fa: in termini di concentrazione di capitali, o oligopolio, o potere di classe. Rispetto a una qualunque di queste parole, un vocabolo come «disuguaglianza» sembra studiato per incoraggiare le mezze misure e i compromessi. È possibile ipotizzare di sovvertire il capitalismo o di distruggere il potere dello Stato, ma non è chiaro cosa significherebbe eliminare la disuguaglianza (quale tipo di disuguaglianza? Quella della ricchezza? Quella delle opportunità? Fino a che punto, di preciso, le persone dovrebbero essere uguali per poter dire di aver «eliminato la disuguaglianza»?). Il termine «disuguaglianza» è un modo di inquadrare i problemi sociali che ben si adatta a un’epoca di riformatori tecnocratici, inclini fin dall’inizio a dare per scontato che una visione della trasformazione sociale non sia nemmeno in esame.
Discutere di disuguaglianza permette di provare ad aggiustare i numeri, di snocciolare coefficienti di Gini e soglie di disfunzione, di correggere i regimi fiscali o i meccanismi di previdenza sociale, e persino di scioccare il pubblico con cifre che dimostrino quanto si sia aggravata la situazione («Riuscite a crederci? L’1 per cento della popolazione possiede il 44 per cento della ricchezza mondiale!»), ma consente anche di fare tutto questo senza considerare i fattori che, in realtà, le persone contestano riguardo a questi sistemi sociali «disuguali»: per esempio, il fatto che alcuni riescano a trasformare la ricchezza in potere sugli altri; o che altri finiscano per sentirsi dire che i loro bisogni non sono importanti e che la loro vita non ha alcun valore intrinseco. Quest’ultimo fenomeno, siamo indotti a credere, è solo l’inevitabile effetto della disuguaglianza, e la disuguaglianza è l’inevitabile risultato del vivere in una qualunque società grande, complessa, urbana, tecnologicamente sofisticata. Con molta probabilità questa conseguenza sarà sempre con noi. È solo questione di intensità.
Oggi c’è un autentico boom di riflessioni sulla disuguaglianza: dal 2011, la «disuguaglianza globale» è uno degli argomenti di discussione principali al Forum economico mondiale di Davos. Ci sono indici di disuguaglianza, istituti per lo studio della disuguaglianza e un incessante flusso di pubblicazioni che cercano di proiettare l’attuale ossessione per la distribuzione della proprietà sull’età della Pietra. Qualcuno ha persino tentato di calcolare i livelli di reddito e i coefficienti di Gini per i cacciatori paleolitici di mammut (si sono rivelati entrambi molto bassi).1 È quasi come se sentissimo l’esigenza di inventare formule matematiche capaci di giustificare il detto, già popolare ai tempi di Rousseau, secondo cui in simili società «erano tutti uguali perché erano tutti ugualmente poveri».
L’effetto ultimo di tutte queste storie su un originario stato di innocenza e uguaglianza, come l’uso dello stesso termine «disuguaglianza», è dipingere il pessimismo malinconico verso la condizione umana come una scelta di buonsenso: il risultato naturale della decisione di guardare noi stessi attraverso le larghe lenti della storia. Sì, vivere in una società davvero ugualitaria potrebbe essere fattibile se foste pigmei o boscimani del ...

Índice

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’alba di tutto
  4. Prefazione e dedica. di David Wengrow
  5. 1. Addio all’infanzia dell’umanità. O perché questo non è un libro sulle origini della disuguaglianza
  6. 2. Libertà perversa. La critica indigena e il mito del progresso
  7. 3. Scongelare l’era glaciale. Dentro e fuori dalla schiavitù: le possibilità proteiformi della politica umana
  8. 4. Uomini liberi, l’origine delle culture e l’avvento della proprietà privata. (non necessariamente in quest’ordine)
  9. 5. Molte stagioni fa. Perché i foraggiatori canadesi avevano gli schiavi e i loro vicini californiani no, o il problema delle «modalità di produzione»
  10. 6. I giardini di Adone. La rivoluzione che non ebbe mai luogo: come i popoli del Neolitico evitarono l’agricoltura
  11. 7. L’ecologia della libertà. Come l’agricoltura fece per la prima volta il giro del mondo saltellando, incespicando e bluffando
  12. 8. Città immaginarie. I primi cittadini dell’Eurasia – in Mesopotamia, nella valle dell’Indo, in Ucraina e in Cina – e come costruirono città senza re
  13. 9. Nascosta in bella vista. Le origini indigene dell’edilizia sociale e della democrazia nelle Americhe
  14. 10. Perché lo Stato non ha origini. Gli umili esordi della sovranità, della burocrazia e della politica
  15. 11. Chiudiamo il cerchio. Sulle fondamenta storiche della critica indigena
  16. 12. Conclusione. L’alba di ogni cosa
  17. Ringraziamenti
  18. Note
  19. Bibliografia
  20. Lista delle mappe e delle figure
  21. Copyright
Estilos de citas para L'alba di tutto

APA 6 Citation

Graeber, D. (2022). L’alba di tutto ([edition unavailable]). RIZZOLI LIBRI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3428192/lalba-di-tutto-una-nuova-storia-dellumanit-pdf (Original work published 2022)

Chicago Citation

Graeber, David. (2022) 2022. L’alba Di Tutto. [Edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. https://www.perlego.com/book/3428192/lalba-di-tutto-una-nuova-storia-dellumanit-pdf.

Harvard Citation

Graeber, D. (2022) L’alba di tutto. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI. Available at: https://www.perlego.com/book/3428192/lalba-di-tutto-una-nuova-storia-dellumanit-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Graeber, David. L’alba Di Tutto. [edition unavailable]. RIZZOLI LIBRI, 2022. Web. 15 Oct. 2022.