I.
Un capitalismo senza redini
Barca Sono passati dodici anni dalla grande crisi finanziaria del 2008 e il mondo intero è investito da una crisi ancora piĂš devastante, che ha attaccato il nostro intero sistema di vita. Era un evento imprevedibile? Pare proprio di no. Ed è una crisi che ha fatto saltare i meccanismi fragili del sistema economico e istituzionale, rendendone plateali le conseguenze negative, le ingiustizie e lâinsostenibilitĂ . Sono tratti che molti avevano considerato inevitabili, addirittura ânaturaliâ. Lo storico Tony Judt nel suo libro Guasto è il mondo scriveva: ÂŤGran parte di ciò che oggi appare ânaturaleâ risale agli anni Ottanta: lâossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le disparitĂ crescenti fra ricchi e poveri. E soprattutto la retorica che accompagna tutto questo: lâammirazione acritica per mercati liberi da lacci e laccioli, il disprezzo per il settore pubblico, lâillusione di una crescita senza fineÂť.
Erano queste le mete del capitalismo? Non necessariamente. Si tratta piuttosto degli effetti che il capitalismo produce in assenza di riequilibrio politico e democratico. Mi spiego. Il capitalismo è fondato su uno squilibrio di poteri. Il primo squilibrio è dovuto a unâasimmetria di controllo: qualcuno controlla il capitale, materiale e immateriale, le conoscenze, qualcuno controlla solo il proprio lavoro. Il secondo squilibrio è dovuto al fatto che il capitalismo tende a portare tutto sul mercato, ovvero a mercificare qualunque aspetto della vita umana: tende a trasformare il valore dâuso in valore di scambio. Concetti antichi, validi piĂš che mai, chiamateli come volete. Se hai tre ore di tempo libero, il suo valore dâuso â lasciatemi usare questa antica e sempiterna espressione â è impiegarle per fare cose per gli altri o per te stesso, insomma che ti realizzano. Il suo valore di scambio, invece, è impiegarle per fare cose monetizzabili, altrimenti sarebbero ore buttate. Ho la casa, ho una stanza, decido di fare un viaggio, si scatena lâansia se la lascio senza subaffittarla perchĂŠ sto perdendo soldi. Non ti viene piĂš in testa di prestarla a un amico. Questa logica viene raccontata molto bene da Branko Milanovic nel suo ultimo libro Capitalism, Alone. La sua tesi è che il capitalismo non è mai stato cosĂŹ forte, non solo perchĂŠ non è mai stato cosĂŹ geograficamente diffuso nel mondo, ma perchĂŠ ha spinto a portare sul mercato pezzi di vita che mai avremmo pensato di mercificare qualche decennio fa. Si potrebbe obiettare che questo è un tratto intrinseco al capitalismo, e non câè niente di male. Anzi, al capitalismo va riconosciuta una straordinaria potenza innovatrice. Fatto innegabile, ma il punto è se siamo liberi, davvero liberi, di compiere la scelta che piĂš ci aggrada. Ed ecco il contrappeso della democrazia, con i suoi tre pilastri, ovvero lâuguaglianza, la sovranitĂ popolare e il pubblico dibattito. La democrazia è lo strumento attraverso cui si attua la sovranitĂ popolare e quindi è ortogonale rispetto al capitalismo, perchĂŠ offre un terreno diverso dallâexit â vendo o non vendo, compro o non compro, resto o emigro â su cui è possibile contare, tutti insieme, per compiere scelte diverse da quelle indotte e âofferteâ dal mercato lasciato a se stesso: avere un buon servizio di mobilitĂ pubblico, invece del âmercato dei sedili dellâautoâ, o un sistema di social housing in cui fra gli inquilini si afferma mutualismo, anche nellâuso delle âproprieâ stanze. Il terreno diverso sul quale maturano queste alternative è il conflitto democratico, ovvero il confronto acceso e informato, se vogliamo chiamarlo cosĂŹ. Sacrificare questa dimensione è una capitolazione. Una democrazia in salute utilizza il capitalismo al fine di aumentare la produttivitĂ e lâinnovazione, ma ha sempre cura di garantire il valore dellâuguaglianza tra le persone, nel senso proprio del concetto di giustizia sociale colto da Amartya Sen: dare ad ogni persona la capacitĂ di fare le cose a cui può a ragione aspirare. Ossia, permettere a ciascuno di realizzare la propria diversitĂ . E per fare ciò la democrazia favorisce e governa il conflitto.
Ma allora qual è il problema? Ă che il rapporto fra capitalismo e democrazia può squilibrarsi. Ed è esattamente quello che è successo: i meccanismi di riequilibrio che la democrazia ha esercitato e sta esercitando nei confronti del capitalismo sono deboli. Sono stati indeboliti nellâultimo quarantennio e questo ha reso il capitalismo troppo forte. Lo scrive chiaramente Milanovic: ÂŤIl capitalismo è in crisi, ma stiamo scherzando? Tuttâal piĂš possiamo dire che è diventato troppo forteÂť.
Giovannini Anchâio non credo che la situazione attuale sia colpa del capitalismo in sĂŠ, ma di quello che abbiamo sperimentato dalla rivoluzione thatcheriana e reaganiana dei primi anni Ottanta del secolo scorso in poi. Proviamo a riavvolgere il nastro e capire come siamo arrivati a questo punto.
Ho vissuto un pezzo di questa storia quando ero a capo della direzione statistica dellâOcse, un ente che, storicamente, è stato considerato un emblema di quella tecnocrazia nata per analizzare e migliorare le scelte politiche relative alla costituzione del capitalismo globalizzato. Non a caso, dal 1961 al 2011, cioè per i primi cinquantâanni di vita, il motto dellâOrganizzazione è stato For a better world economy. Lo slogan poneva lâaccento sulla prioritĂ della crescita di ricchezza determinata dalla capacitĂ produttiva di ogni paese membro, da migliorare continuamente per aumentare il livello del Pil (prodotto interno lordo). Ma quando entrai allâOcse nel 2001, scoprii che non tutti condividevano questa visione, estremamente semplicistica. E quando, nel 2004, organizzai a Palermo il primo Forum mondiale sulla misura del benessere, emersero non solo i diversi punti di vista di esperti dellâOrganizzazione, ma anche decine di esperienze in tutti i continenti per cercare di andare âOltre il Pilâ. Da quellâevento è nato un vero e proprio movimento globale per cambiare le misure delle condizioni delle nostre societĂ e gli indirizzi delle politiche pubbliche, cosĂŹ da orientarle a migliorare il benessere e il progresso delle nazioni, non solo ad accrescere il Pil. Ma su questo torneremo dopo.
La cosa interessante è che, in parallelo a tale iniziativa, in quegli anni ne viene avviata una seconda. Il Dipartimento di Economia dellâOcse, infatti, lancia Going for Growth, la prima pubblicazione che pone in modo sistematico il tema delle âriforme strutturaliâ in grado di consentire ai paesi di accelerare il ritmo di crescita. E qual è il paese preso a âmodelloâ dagli economisti dellâOcse, rispetto al quale definire le politiche auspicabili? Gli Stati Uniti, ovviamente, perchĂŠ erano il paese che aveva avuto nel decennio precedente il piĂš alto tasso di crescita del reddito medio pro capite. Parte cosĂŹ, con una scelta apparentemente ovvia, si direbbe âdettata dai datiâ, la discussione globale degli ultimi quindici anni su come orientare al meglio le politiche economiche e sociali, su come organizzare il mercato del lavoro, la scuola e la formazione, gli investimenti pubblici, la sanitĂ e il sistema pensionistico e, in generale, sul ruolo dello Stato per attuare quelle riforme strutturali maggiormente utili per far crescere il Pil.
Ebbene, la scelta dei tecnocrati dellâOcse di scegliere gli Stati Uniti fu basata su un errore analitico importante, che, come dicevo, ha influenzato per anni la storia del dibattito politico internazionale: se, infatti, invece di scegliere il reddito pro capite si fosse scelto il reddito âmedianoâ (cioè quello che tiene conto anche della sua distribuzione tra le diverse classi sociali) gli Usa non sarebbero mai stati presi a modello, visto che molti altri paesi avevano performance nettamente superiori in termini di reddito mediano. Se, ma la storia non si fa con i se, si fosse guardato di piĂš ai paesi caratterizzati da politiche che simultaneamente consentono unâelevata crescita, la riduzione delle disuguaglianze e la protezione dellâambiente forse non avremmo aumentato la fragilitĂ del sistema socioeconomico, fragilitĂ che è emersa drammaticamente in occasione della crisi in corso, e forse non avremmo neanche le spinte populiste che osserviamo in tanti paesi, compreso il nostro.
Barca I tecnocrati che siedono ai tavoli di questi grandi organismi, dallâOcse al Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale alla Commissione Europea, assumono decisioni e scrivono metodologie come se si trattasse di âtecnicheâ prive di una scelta politica. Non è cosĂŹ. Le decisioni che essi prendono producono, e sono, scelte politiche, perchĂŠ dietro ognuna di esse ci sono interessi colpiti o favoriti, persone che ne traggono vantaggi e altre che non se ne avvantaggiano, alterazioni degli equilibri di potere. Negare questo significa rinunciare a tenere il capitalismo sotto le redini. Dunque è necessario avere consapevolezza dellâesistenza di interessi divergenti e affrontarli per quello che sono: divergenze che vanno ricomposte nellâunico modo al mondo in cui si possono ricomporre in democrazia, confrontandosi in modo acceso e informato e riconoscendo agli organismi internazionali il loro innegabile ruolo politico.
Quando ero allâuniversitĂ , ai corsi di Scienza delle Finanze, ci spiegavano che câè una distinzione profonda fra capacitĂ tecnica e preferenza politica e che esse sono rappresentabili come due curve che devono trovare un punto di incontro, che sarĂ la soluzione. Ă una rappresentazione criticabile sul piano teorico, ma passiamoci sopra e facciamo un esempio. Prendiamo le scelte che possono essere compiute nel campo della politica scolastica: si può puntare a formare quanti piĂš âtalentiâ è possibile, oppure a sviluppare competenze essenziali del maggior numero possibile di persone. Per una data metodologia di insegnamento, la capacitĂ tecnica (o curva tecnica) mi dice che piĂš investo sul primo obiettivo, piĂš mi discosto dal secondo e quanto perdo del primo obiettivo per avere piĂš dellâaltro. La preferenza politica, invece, entra in gioco quando valuto lâimportanza di raggiungere il primo obiettivo rispetto al secondo e quanto sono disposto a investire sullâuno e sullâaltro obiettivo per raggiungere un risultato ottimale. Data la curva tecnica, sulla base della preferenza politica è possibile scegliere â ripeto, sempre per una data metodologia di insegnamento â la combinazione che mi dĂ il massimo di soddisfazione (politica). Questa rappresentazione ci dice che la politica può fare tre cose: investire nel miglioramento della metodologia che consentirebbe di mantenere il primo obiettivo senza sacrificare il secondo; per una data metodologia, scegliere la combinazione piĂš soddisfacente fra tutte quelle possibili, ma rendendo esplicito il âcriterio di soddisfacenzaâ; oppure aprire un confronto acceso con tutti i soggetti coinvolti per prendere una decisione e magari per modificare la stessa curva delle preferenze o trovare una diversa metodologia che riduca il trade off fra i due obiettivi. Eliminare il ruolo della politica significa lasciare ai cosiddetti âtecniciâ tutto questo. Lasciar scegliere a loro la combinazione piĂš soddisfacente, ovviamente narrando che era lâunica possibile, o inventando in qualche stanza uno standard che giustifichi quella combinazione.
Del resto io stesso sono stato protagonista di una rinunzia drammatica della politica dei partiti, nei diciassette mesi della mia vita come ministro della Coesione Territoriale del governo Monti. Attenzione, gli atti principali del nostro governo, quelli che consentirono alla Banca Centrale Europea di sconfiggere la speculazione nei mercati finanziari, rappresentavano lâattuazione di un impegno di fatto assunto dal governo Berlusconi, dunque dalla politica, per risanare finanze pubbliche fuori controllo. Ma il passo indietro della politica dei partiti era evidente. Per almeno tre ragioni. PerchĂŠ i partiti accettavano lâidea che loro non potessero avere la forza e la fiducia per attuare quellâimpegno. PerchĂŠ quei partiti si nascondevano dietro lâaccordo che ci dava la maggioranza in Parlamento per non assumersi la piena responsabilitĂ per gli atti che pur votavano (e chi come il Pd di Pier Luigi Bersani, a differenza di Forza Italia, riconobbe poi con straordinaria lealtĂ tale responsabilitĂ , lo pagò assai caro nelle urne). E perchĂŠ, al di lĂ del copione giĂ scritto, il nostro governo si prese molte libertĂ di azione, attraverso unâassunzione di ruolo politico a cui chiunque eserciti quella funzione non può sottrarsi.
Giovannini Il tema della scelta degli obiettivi da privilegiare sulla base delle preferenze della societĂ fu proprio al centro del convegno di Palermo e del movimento âOltre il Pilâ. Infatti, la curva di trasformazione tecnica non riguarda soltanto due oggetti o due beni, ma è molto piĂš complessa perchĂŠ il benessere di una societĂ dipende da molti aspetti. Lo abbiamo sperimentato nei mesi di lockdown, quando la politica è stata chiamata a decidere quanta salute dei cittadini sacrificare in nome della tenuta del Pil, e viceversa. Il ruolo del politico è stato proprio quello di incrociare la curva tecnica di trasformazione e la curva della preferenza politica decidendo quanto era possibile sacrificare del reddito degli italiani e della tenuta dellâeconomia per difendere la salute dei cittadini. A un certo punto ci si è resi conto che non era piĂš possibile mantenere congelata lâeconomia italiana perchĂŠ i danni sul benessere del Paese sarebbero stati maggiori di quelli dovuti al rischio di contagio. La combinazione ottimale delle scelte possibili deve ovviamente essere fatta dalla politica e spesso non si tratta della migliore combinazione possibile in astratto, ma di quella percorribile in concreto in base alla cultura di un paese e agli obiettivi che la stessa politica ha promesso di realizzare.
Barca Questa prevalenza della decisione tecnica (che solo tecnica non può essere) sulla decisione politica è diffusa e ha fatto grandi danni. Ă il portato della depoliticizzazione delle politiche nazionali e dei livelli internazionali di governo dovuta al neoliberismo. Pensiamo al World Geography Report del 2008: un documento interessante perchĂŠ faceva vedere come e perchĂŠ il mondo si stava concentrando nelle grandi cittĂ e poi sosteneva che si trattasse di un processo inarrestabile. Qual è il messaggio che veicola un tale contenuto? ÂŤTra cinquantâanni abiteremo tutti nelle metropoli, quindi bisogna smetterla di fare politiche volte a ridurre o bloccare il flusso delle persone verso le grandi cittĂ Âť. Decisamente un messaggio di natura politica! Alle soglie della crisi economica, il World Geography Report affermava che il futuro dellâumanitĂ , che lâaumento della produttivitĂ e lâinnovazione, devono assecondare questo processo apparentemente naturale di concentrazione nelle cittĂ (per niente naturale visto che è diretto da alcune grandi corporation che si avvantaggiano della concentrazione del capitale umano nelle cittĂ ). Ecco che sotto una apparente considerazione di natura tecnica viene occultato il messaggio politico. Luigi Zingales lo ha scritto chiaramente: i tecnici, gli âespertiâ, assumono decisioni politiche, non sono semplici advisor. Voglio ripeterlo: quando in una curva di trasformazione tecnologica devi decidere quanto mollare di un obiettivo rispetto a un altro, la tecnica ti dice come fare. Ma è la curva di preferenza politica che dovrebbe governare la scelta. Faccio un altro esempio: se il mio obiettivo è ottenere piĂš produttivitĂ , posso chiedere cosa accade relativamente al mantenimento dellâobiettivo dellâuguaglianza. Questo me lo può dire un tecnico, ma quanto è una decisione politica, non lo può decidere un tecnico. Invece i tecnici si sono presi tutte e due le curve, si sono presi tutto. Ă come se improvvisamente non avessero piĂš rilevanza nĂŠ lâespressione delle preferenze dei cittadini, quella che si manifesta attraverso le elezioni, lo scontro e il conflitto politico, nĂŠ la trasformazione di quelle preferenze che avviene proprio attraverso il processo politico. Ă questa depoliticizzazione dei luoghi di governo in cui abbiamo trasferito le decisioni ai tecnici una delle ragioni per cui il capitalismo ha preso tutto il campo di gioco. Non abbiamo costruito anticorpi: nellâistante in cui cresceva la globalizzazione, si doveva dare piĂš forza alla politica, sia a livello nazionale, sia nei grandi organismi internazionali. Ă successo il contrario.
Giovannini Io non ho percepito un chiaro dolo nelle intenzioni delle organizzazioni internazionali: da un certo punto di vista, esse hanno scelto quei modelli di analisi e misura â da cui sono discese le scelte politiche â per âpigriziaâ, semplicemente perchĂŠ erano quelli dominanti, cercando di usare modelli semplici, facilmente comunicabili ai politici. Ma cosĂŹ facendo si sono â di fatto â appropriate di tutti i ruoli e hanno favorito il dilagare di un capitalismo e di una democrazia orientati al breve termine in grado di fornire risultati misurabili, con dati ben consolidati, come il Pil pro capite. Dâaltra parte, il crollo della credibilitĂ della politica come forza in grado di disegnare il futuro ha spinto questâultima a mettere un argine al crescente malessere della popolazione affidandosi ai tecnocrati e alle indicazioni delle organizzazioni internazionali. E a quel punto il gioco è fatto.
Torniamo però alle asimmetrie informative, la prima delle quali riguarda la complessità del mondo attuale. Il mondo in cui viviamo oggi è un sistema nettamente piÚ complesso rispetto al passato: ad esempio, non possiamo piÚ operare scelte g...