Quel mondo diverso
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Quel mondo diverso

Da immaginare, per cui battersi, che si può realizzare

Fabrizio Barca, Enrico Giovannini

  1. 136 pages
  2. Italian
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Quel mondo diverso

Da immaginare, per cui battersi, che si può realizzare

Fabrizio Barca, Enrico Giovannini

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Le ragioni che hanno portato al fallimento del modello neoliberista. Il sentiero che la società civile e una nuova classe politica progressista dovranno intraprendere per ripensare il mondo secondo altri principi.

È il momento di ripensare il nostro mondo secondo un'altra logica. Anzi di realizzare quel mondo diverso che non abbia il Pil come misura del benessere del cittadino, che non rimetta nelle mani dei tecnocrati decisioni tutt'altro che tecniche, che smetta di considerare l'ambiente una quinta teatrale, che impedisca il formarsi di disuguaglianze insostenibili, che garantisca al massimo numero di persone le medesime opportunità. È quel mondo in cui si torna ad ascoltare la voce dei cittadini e dei lavoratori affinché scelgano e non subiscano il futuro.

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Informations

Année
2020
ISBN
9788858143193

I.
Un capitalismo senza redini

Barca Sono passati dodici anni dalla grande crisi finanziaria del 2008 e il mondo intero è investito da una crisi ancora più devastante, che ha attaccato il nostro intero sistema di vita. Era un evento imprevedibile? Pare proprio di no. Ed è una crisi che ha fatto saltare i meccanismi fragili del sistema economico e istituzionale, rendendone plateali le conseguenze negative, le ingiustizie e l’insostenibilità. Sono tratti che molti avevano considerato inevitabili, addirittura “naturali”. Lo storico Tony Judt nel suo libro Guasto è il mondo scriveva: «Gran parte di ciò che oggi appare “naturale” risale agli anni Ottanta: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le disparità crescenti fra ricchi e poveri. E soprattutto la retorica che accompagna tutto questo: l’ammirazione acritica per mercati liberi da lacci e laccioli, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione di una crescita senza fine».
Erano queste le mete del capitalismo? Non necessariamente. Si tratta piuttosto degli effetti che il capitalismo produce in assenza di riequilibrio politico e democratico. Mi spiego. Il capitalismo è fondato su uno squilibrio di poteri. Il primo squilibrio è dovuto a un’asimmetria di controllo: qualcuno controlla il capitale, materiale e immateriale, le conoscenze, qualcuno controlla solo il proprio lavoro. Il secondo squilibrio è dovuto al fatto che il capitalismo tende a portare tutto sul mercato, ovvero a mercificare qualunque aspetto della vita umana: tende a trasformare il valore d’uso in valore di scambio. Concetti antichi, validi più che mai, chiamateli come volete. Se hai tre ore di tempo libero, il suo valore d’uso – lasciatemi usare questa antica e sempiterna espressione – è impiegarle per fare cose per gli altri o per te stesso, insomma che ti realizzano. Il suo valore di scambio, invece, è impiegarle per fare cose monetizzabili, altrimenti sarebbero ore buttate. Ho la casa, ho una stanza, decido di fare un viaggio, si scatena l’ansia se la lascio senza subaffittarla perché sto perdendo soldi. Non ti viene più in testa di prestarla a un amico. Questa logica viene raccontata molto bene da Branko Milanovic nel suo ultimo libro Capitalism, Alone. La sua tesi è che il capitalismo non è mai stato così forte, non solo perché non è mai stato così geograficamente diffuso nel mondo, ma perché ha spinto a portare sul mercato pezzi di vita che mai avremmo pensato di mercificare qualche decennio fa. Si potrebbe obiettare che questo è un tratto intrinseco al capitalismo, e non c’è niente di male. Anzi, al capitalismo va riconosciuta una straordinaria potenza innovatrice. Fatto innegabile, ma il punto è se siamo liberi, davvero liberi, di compiere la scelta che più ci aggrada. Ed ecco il contrappeso della democrazia, con i suoi tre pilastri, ovvero l’uguaglianza, la sovranità popolare e il pubblico dibattito. La democrazia è lo strumento attraverso cui si attua la sovranità popolare e quindi è ortogonale rispetto al capitalismo, perché offre un terreno diverso dall’exit – vendo o non vendo, compro o non compro, resto o emigro – su cui è possibile contare, tutti insieme, per compiere scelte diverse da quelle indotte e “offerte” dal mercato lasciato a se stesso: avere un buon servizio di mobilità pubblico, invece del “mercato dei sedili dell’auto”, o un sistema di social housing in cui fra gli inquilini si afferma mutualismo, anche nell’uso delle “proprie” stanze. Il terreno diverso sul quale maturano queste alternative è il conflitto democratico, ovvero il confronto acceso e informato, se vogliamo chiamarlo così. Sacrificare questa dimensione è una capitolazione. Una democrazia in salute utilizza il capitalismo al fine di aumentare la produttività e l’innovazione, ma ha sempre cura di garantire il valore dell’uguaglianza tra le persone, nel senso proprio del concetto di giustizia sociale colto da Amartya Sen: dare ad ogni persona la capacità di fare le cose a cui può a ragione aspirare. Ossia, permettere a ciascuno di realizzare la propria diversità. E per fare ciò la democrazia favorisce e governa il conflitto.
Ma allora qual è il problema? È che il rapporto fra capitalismo e democrazia può squilibrarsi. Ed è esattamente quello che è successo: i meccanismi di riequilibrio che la democrazia ha esercitato e sta esercitando nei confronti del capitalismo sono deboli. Sono stati indeboliti nell’ultimo quarantennio e questo ha reso il capitalismo troppo forte. Lo scrive chiaramente Milanovic: «Il capitalismo è in crisi, ma stiamo scherzando? Tutt’al più possiamo dire che è diventato troppo forte».
Giovannini Anch’io non credo che la situazione attuale sia colpa del capitalismo in sé, ma di quello che abbiamo sperimentato dalla rivoluzione thatcheriana e reaganiana dei primi anni Ottanta del secolo scorso in poi. Proviamo a riavvolgere il nastro e capire come siamo arrivati a questo punto.
Ho vissuto un pezzo di questa storia quando ero a capo della direzione statistica dell’Ocse, un ente che, storicamente, è stato considerato un emblema di quella tecnocrazia nata per analizzare e migliorare le scelte politiche relative alla costituzione del capitalismo globalizzato. Non a caso, dal 1961 al 2011, cioè per i primi cinquant’anni di vita, il motto dell’Organizzazione è stato For a better world economy. Lo slogan poneva l’accento sulla priorità della crescita di ricchezza determinata dalla capacità produttiva di ogni paese membro, da migliorare continuamente per aumentare il livello del Pil (prodotto interno lordo). Ma quando entrai all’Ocse nel 2001, scoprii che non tutti condividevano questa visione, estremamente semplicistica. E quando, nel 2004, organizzai a Palermo il primo Forum mondiale sulla misura del benessere, emersero non solo i diversi punti di vista di esperti dell’Organizzazione, ma anche decine di esperienze in tutti i continenti per cercare di andare “Oltre il Pil”. Da quell’evento è nato un vero e proprio movimento globale per cambiare le misure delle condizioni delle nostre società e gli indirizzi delle politiche pubbliche, così da orientarle a migliorare il benessere e il progresso delle nazioni, non solo ad accrescere il Pil. Ma su questo torneremo dopo.
La cosa interessante è che, in parallelo a tale iniziativa, in quegli anni ne viene avviata una seconda. Il Dipartimento di Economia dell’Ocse, infatti, lancia Going for Growth, la prima pubblicazione che pone in modo sistematico il tema delle “riforme strutturali” in grado di consentire ai paesi di accelerare il ritmo di crescita. E qual è il paese preso a “modello” dagli economisti dell’Ocse, rispetto al quale definire le politiche auspicabili? Gli Stati Uniti, ovviamente, perché erano il paese che aveva avuto nel decennio precedente il più alto tasso di crescita del reddito medio pro capite. Parte così, con una scelta apparentemente ovvia, si direbbe “dettata dai dati”, la discussione globale degli ultimi quindici anni su come orientare al meglio le politiche economiche e sociali, su come organizzare il mercato del lavoro, la scuola e la formazione, gli investimenti pubblici, la sanità e il sistema pensionistico e, in generale, sul ruolo dello Stato per attuare quelle riforme strutturali maggiormente utili per far crescere il Pil.
Ebbene, la scelta dei tecnocrati dell’Ocse di scegliere gli Stati Uniti fu basata su un errore analitico importante, che, come dicevo, ha influenzato per anni la storia del dibattito politico internazionale: se, infatti, invece di scegliere il reddito pro capite si fosse scelto il reddito “mediano” (cioè quello che tiene conto anche della sua distribuzione tra le diverse classi sociali) gli Usa non sarebbero mai stati presi a modello, visto che molti altri paesi avevano performance nettamente superiori in termini di reddito mediano. Se, ma la storia non si fa con i se, si fosse guardato di più ai paesi caratterizzati da politiche che simultaneamente consentono un’elevata crescita, la riduzione delle disuguaglianze e la protezione dell’ambiente forse non avremmo aumentato la fragilità del sistema socioeconomico, fragilità che è emersa drammaticamente in occasione della crisi in corso, e forse non avremmo neanche le spinte populiste che osserviamo in tanti paesi, compreso il nostro.
Barca I tecnocrati che siedono ai tavoli di questi grandi organismi, dall’Ocse al Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale alla Commissione Europea, assumono decisioni e scrivono metodologie come se si trattasse di “tecniche” prive di una scelta politica. Non è così. Le decisioni che essi prendono producono, e sono, scelte politiche, perché dietro ognuna di esse ci sono interessi colpiti o favoriti, persone che ne traggono vantaggi e altre che non se ne avvantaggiano, alterazioni degli equilibri di potere. Negare questo significa rinunciare a tenere il capitalismo sotto le redini. Dunque è necessario avere consapevolezza dell’esistenza di interessi divergenti e affrontarli per quello che sono: divergenze che vanno ricomposte nell’unico modo al mondo in cui si possono ricomporre in democrazia, confrontandosi in modo acceso e informato e riconoscendo agli organismi internazionali il loro innegabile ruolo politico.
Quando ero all’università, ai corsi di Scienza delle Finanze, ci spiegavano che c’è una distinzione profonda fra capacità tecnica e preferenza politica e che esse sono rappresentabili come due curve che devono trovare un punto di incontro, che sarà la soluzione. È una rappresentazione criticabile sul piano teorico, ma passiamoci sopra e facciamo un esempio. Prendiamo le scelte che possono essere compiute nel campo della politica scolastica: si può puntare a formare quanti più “talenti” è possibile, oppure a sviluppare competenze essenziali del maggior numero possibile di persone. Per una data metodologia di insegnamento, la capacità tecnica (o curva tecnica) mi dice che più investo sul primo obiettivo, più mi discosto dal secondo e quanto perdo del primo obiettivo per avere più dell’altro. La preferenza politica, invece, entra in gioco quando valuto l’importanza di raggiungere il primo obiettivo rispetto al secondo e quanto sono disposto a investire sull’uno e sull’altro obiettivo per raggiungere un risultato ottimale. Data la curva tecnica, sulla base della preferenza politica è possibile scegliere – ripeto, sempre per una data metodologia di insegnamento – la combinazione che mi dà il massimo di soddisfazione (politica). Questa rappresentazione ci dice che la politica può fare tre cose: investire nel miglioramento della metodologia che consentirebbe di mantenere il primo obiettivo senza sacrificare il secondo; per una data metodologia, scegliere la combinazione più soddisfacente fra tutte quelle possibili, ma rendendo esplicito il “criterio di soddisfacenza”; oppure aprire un confronto acceso con tutti i soggetti coinvolti per prendere una decisione e magari per modificare la stessa curva delle preferenze o trovare una diversa metodologia che riduca il trade off fra i due obiettivi. Eliminare il ruolo della politica significa lasciare ai cosiddetti “tecnici” tutto questo. Lasciar scegliere a loro la combinazione più soddisfacente, ovviamente narrando che era l’unica possibile, o inventando in qualche stanza uno standard che giustifichi quella combinazione.
Del resto io stesso sono stato protagonista di una rinunzia drammatica della politica dei partiti, nei diciassette mesi della mia vita come ministro della Coesione Territoriale del governo Monti. Attenzione, gli atti principali del nostro governo, quelli che consentirono alla Banca Centrale Europea di sconfiggere la speculazione nei mercati finanziari, rappresentavano l’attuazione di un impegno di fatto assunto dal governo Berlusconi, dunque dalla politica, per risanare finanze pubbliche fuori controllo. Ma il passo indietro della politica dei partiti era evidente. Per almeno tre ragioni. Perché i partiti accettavano l’idea che loro non potessero avere la forza e la fiducia per attuare quell’impegno. Perché quei partiti si nascondevano dietro l’accordo che ci dava la maggioranza in Parlamento per non assumersi la piena responsabilità per gli atti che pur votavano (e chi come il Pd di Pier Luigi Bersani, a differenza di Forza Italia, riconobbe poi con straordinaria lealtà tale responsabilità, lo pagò assai caro nelle urne). E perché, al di là del copione già scritto, il nostro governo si prese molte libertà di azione, attraverso un’assunzione di ruolo politico a cui chiunque eserciti quella funzione non può sottrarsi.
Giovannini Il tema della scelta degli obiettivi da privilegiare sulla base delle preferenze della società fu proprio al centro del convegno di Palermo e del movimento “Oltre il Pil”. Infatti, la curva di trasformazione tecnica non riguarda soltanto due oggetti o due beni, ma è molto più complessa perché il benessere di una società dipende da molti aspetti. Lo abbiamo sperimentato nei mesi di lockdown, quando la politica è stata chiamata a decidere quanta salute dei cittadini sacrificare in nome della tenuta del Pil, e viceversa. Il ruolo del politico è stato proprio quello di incrociare la curva tecnica di trasformazione e la curva della preferenza politica decidendo quanto era possibile sacrificare del reddito degli italiani e della tenuta dell’economia per difendere la salute dei cittadini. A un certo punto ci si è resi conto che non era più possibile mantenere congelata l’economia italiana perché i danni sul benessere del Paese sarebbero stati maggiori di quelli dovuti al rischio di contagio. La combinazione ottimale delle scelte possibili deve ovviamente essere fatta dalla politica e spesso non si tratta della migliore combinazione possibile in astratto, ma di quella percorribile in concreto in base alla cultura di un paese e agli obiettivi che la stessa politica ha promesso di realizzare.
Barca Questa prevalenza della decisione tecnica (che solo tecnica non può essere) sulla decisione politica è diffusa e ha fatto grandi danni. È il portato della depoliticizzazione delle politiche nazionali e dei livelli internazionali di governo dovuta al neoliberismo. Pensiamo al World Geography Report del 2008: un documento interessante perché faceva vedere come e perché il mondo si stava concentrando nelle grandi città e poi sosteneva che si trattasse di un processo inarrestabile. Qual è il messaggio che veicola un tale contenuto? «Tra cinquant’anni abiteremo tutti nelle metropoli, quindi bisogna smetterla di fare politiche volte a ridurre o bloccare il flusso delle persone verso le grandi città». Decisamente un messaggio di natura politica! Alle soglie della crisi economica, il World Geography Report affermava che il futuro dell’umanità, che l’aumento della produttività e l’innovazione, devono assecondare questo processo apparentemente naturale di concentrazione nelle città (per niente naturale visto che è diretto da alcune grandi corporation che si avvantaggiano della concentrazione del capitale umano nelle città). Ecco che sotto una apparente considerazione di natura tecnica viene occultato il messaggio politico. Luigi Zingales lo ha scritto chiaramente: i tecnici, gli “esperti”, assumono decisioni politiche, non sono semplici advisor. Voglio ripeterlo: quando in una curva di trasformazione tecnologica devi decidere quanto mollare di un obiettivo rispetto a un altro, la tecnica ti dice come fare. Ma è la curva di preferenza politica che dovrebbe governare la scelta. Faccio un altro esempio: se il mio obiettivo è ottenere più produttività, posso chiedere cosa accade relativamente al mantenimento dell’obiettivo dell’uguaglianza. Questo me lo può dire un tecnico, ma quanto è una decisione politica, non lo può decidere un tecnico. Invece i tecnici si sono presi tutte e due le curve, si sono presi tutto. È come se improvvisamente non avessero più rilevanza né l’espressione delle preferenze dei cittadini, quella che si manifesta attraverso le elezioni, lo scontro e il conflitto politico, né la trasformazione di quelle preferenze che avviene proprio attraverso il processo politico. È questa depoliticizzazione dei luoghi di governo in cui abbiamo trasferito le decisioni ai tecnici una delle ragioni per cui il capitalismo ha preso tutto il campo di gioco. Non abbiamo costruito anticorpi: nell’istante in cui cresceva la globalizzazione, si doveva dare più forza alla politica, sia a livello nazionale, sia nei grandi organismi internazionali. È successo il contrario.
Giovannini Io non ho percepito un chiaro dolo nelle intenzioni delle organizzazioni internazionali: da un certo punto di vista, esse hanno scelto quei modelli di analisi e misura – da cui sono discese le scelte politiche – per “pigrizia”, semplicemente perché erano quelli dominanti, cercando di usare modelli semplici, facilmente comunicabili ai politici. Ma così facendo si sono – di fatto – appropriate di tutti i ruoli e hanno favorito il dilagare di un capitalismo e di una democrazia orientati al breve termine in grado di fornire risultati misurabili, con dati ben consolidati, come il Pil pro capite. D’altra parte, il crollo della credibilità della politica come forza in grado di disegnare il futuro ha spinto quest’ultima a mettere un argine al crescente malessere della popolazione affidandosi ai tecnocrati e alle indicazioni delle organizzazioni internazionali. E a quel punto il gioco è fatto.
Torniamo però alle asimmetrie informative, la prima delle quali riguarda la complessità del mondo attuale. Il mondo in cui viviamo oggi è un sistema nettamente più complesso rispetto al passato: ad esempio, non possiamo più operare scelte g...

Table des matières

  1. Premessa di Gloria Riva
  2. I. Un capitalismo senza redini
  3. II. La politica senza orizzonte
  4. III. Un nuovo modello di capitalismo
  5. IV. Rigeneriamo la politica
  6. V. Cambiamo i valori e le misure
  7. VI. La lingua morale di destra e di sinistra
  8. VII. Cittadinanza attiva
  9. VIII. Ai giovani lo spazio per reinventare il mondo
  10. Per approfondire
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Barca, F., & Giovannini, E. (2020). Quel mondo diverso ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3459705/quel-mondo-diverso-da-immaginare-per-cui-battersi-che-si-pu-realizzare-pdf (Original work published 2020)

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Barca, Fabrizio, and Enrico Giovannini. (2020) 2020. Quel Mondo Diverso. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3459705/quel-mondo-diverso-da-immaginare-per-cui-battersi-che-si-pu-realizzare-pdf.

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Barca, F. and Giovannini, E. (2020) Quel mondo diverso. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3459705/quel-mondo-diverso-da-immaginare-per-cui-battersi-che-si-pu-realizzare-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Barca, Fabrizio, and Enrico Giovannini. Quel Mondo Diverso. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2020. Web. 15 Oct. 2022.