V. La privatizzazione nel modello keynesiano: dalla disciplina al debito
Fermo restando che da un punto di vista generale la crisi finanziaria degli anni 2008-2009 (cfr. capitolo 1) si può considerare un gigantesco fallimento del mercato, possiamo anche dire che essa sia stata provocata proprio dal perfezionamento estremo raggiunto da alcune componenti del modello di mercato in un modo che ne ha danneggiate altre. Vediamo innanzitutto come funzionava il meccanismo. Uno dei principali problemi di qualsiasi iniziativa economica è lâincertezza: il rischio che un imprevisto mandi allâaria il business plan. Ma a questo problema il mercato ha trovato una soluzione: per molte forme di incertezza è possibile stimare la probabilitĂ che si verifichi il peggio. Una volta trasformata in rischio calcolabile, lâincertezza può essere misurata in termini monetari. In tal modo è possibile determinare il valore del rischio che si corre. Ă questo il principio di fondo delle assicurazioni. I rischi, cosĂŹ ridefiniti, possono essere acquistati e venduti. Gli operatori finanziari costruiscono complessi portafogli di rischi di vario genere al fine di ricavare un profitto, nella speranza di aver selezionato un numero sufficiente di rischi che non si realizzeranno. QuestâattivitĂ di mercato è essenziale per qualsiasi attivitĂ innovativa e imprenditoriale: senza di essa saremmo tutti piĂš poveri.
Il passo successivo è che chi acquista un rischio non sia costretto ad attendere lâesito della sua scommessa, ma possa rivendere il rischio a qualcun altro. Il calcolo dellâacquirente non riguarda tanto lâeffettiva rischiositĂ del prestito erogato, quanto lâimporto che ne può ricavare sul mercato secondario. Questo prezzo dipenderĂ dal valore che secondo lâacquirente del rischio attribuiranno a quello stesso rischio i futuri probabili acquirenti. Naturalmente tale valore dipenderĂ , piĂš che dalle convinzioni del primo acquirente, dalle percezioni dei potenziali acquirenti di seconda istanza riguardo al rischio alla base del calcolo. In sĂŠ, anche questo trading secondario è positivo in quanto, distribuendo il rischio su una base piĂš ampia, riduce lâesposizione del singolo acquirente.
A partire dalla fine degli anni Ottanta, questi mercati secondari si sono rapidamente trasformati in lunghe filiere di acquirenti e venditori. Il secondo acquirente è disposto ad acquistare il rischio a un prezzo che si basa su quello che ritiene sarĂ disposto a pagarlo il terzo acquirente, e cosĂŹ via; a ogni passaggio la distorsione aumenta, sia pure di poco. Il fatto che queste catene di compravendita si siano tanto allungate è dipeso da due fattori. In primo luogo, la globalizzazione dellâeconomia ha esteso a sempre piĂš paesi la possibilitĂ per chi detiene ricchezza di accedere ai mercati su cui si negoziano rischi. In questo universo in espansione, con lâaumento progressivo dei soggetti disposti a condividere quei rischi, il numero di rischi di cui poteva essere chiamato a rispondere il singolo partecipante si è ridotto sempre piĂš. E anche questo sembrava un fatto positivo.
In secondo luogo, va tenuto presente che la regolamentazione delle transazioni finanziarie si è allentata in gran parte del mondo: ciò è accaduto in primo luogo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove i governi avevano adottato con convinzione lâagenda neoliberista. Un importante intervento legislativo fu, negli Stati Uniti, il Gramm-Leach-Bliley Financial Services Modernization Act del 1999, tassello fondamentale del programma neoliberista di deregulation. Questa legge abolĂŹ le norme che impedivano alle banche di destinare i denari depositati dai loro clienti per effettuare investimenti finanziari ad alto rischio: restrizioni che risalivano al Glass-Steagall Act del 1933, emanato in seguito al crollo di Wall Street. Lâabolizione di questa legge consentĂŹ a operatori finanziari impegnati in attivitĂ particolarmente rischiose lâaccesso ai risparmi di milioni di persone ignare di ciò che stava accadendo. E ciò non era piĂš positivo.
I rischi venivano scambiati a velocitĂ crescente, allungando la catena di aspettative, di âpenso che gli altri pensinoâ, che a ogni ulteriore passaggio accresceva sempre piĂš, sia pure impercettibilmente, la distanza tra i prezzi di mercato e la valutazione iniziale dei rischi. Queste distorsioni non avrebbero avuto importanza se fossero state il semplice risultato di differenze nei giudizi individuali: in quel caso, infatti, le valutazioni troppo ottimiste sarebbero state bilanciate da quelle piĂš pessimiste e viceversa. In realtĂ , il clima prevalente era di ottimismo: il sistema cresceva costantemente, distribuendo i rischi in modo sempre piĂš ampio. Inoltre â e questo aspetto si sarebbe rivelato fondamentale â il sistema stesso si stava estendendo fino a comprendere una quota talmente alta della ricchezza mondiale che, se il rischio si fosse concretizzato e si fosse rivelato maggiore del previsto, i governi di tutto il mondo non avrebbero avuto altra scelta che intervenire per evitare il crollo del sistema. Inoltre, le banche costruirono pacchetti di rischi estremamente diversificati, miscelando (in proporzioni non specificate) prestiti a rischio zero con mutui privi di garanzie adeguate: gli acquirenti di questi pacchetti non erano molto interessati al loro contenuto, ma solo alle filiere di opinioni basate su altre filiere di opinioni che, procedendo a ritroso allâinfinito, determinavano i prezzi sui mercati secondari.
In questo sistema, il guadagno dipende dalla velocitĂ delle transazioni. Ogni volta che si vende un rischio a un prezzo anche solo leggermente superiore a quello di acquisto, si ricava un profitto; se con lo stesso metodo si acquista un altro rischio rivendendolo altrettanto alla svelta, si guadagna altro denaro. Gli operatori finanziari o traders, che lavoravano per le banche e avevano accesso ai risparmi e agli investimenti di milioni di clienti per speculare su questi mercati, ricevevano lauti premi in base ai risultati ottenuti. PiĂš rapidi erano nel comprare e vendere, piĂš venivano premiati. Questi incentivi li spinsero a lavorare su un orizzonte temporale sempre piĂš breve.
I prezzi sui mercati secondari finirono per diventare molto piĂš importanti delle valutazioni iniziali dei rischi. Si disse che i giudizi che si formavano su quei mercati potevano sostituire qualsiasi tentativo di stimare il valore dei beni sui mercati primari. In altre parole, i mercati secondari erano divenuti la parte piĂš importante della realtĂ . Non aveva piĂš senso chiedersi se le scommesse su quei mercati riflettessero i valori ârealiâ sottostanti: i valori secondari erano i valori reali. Era come scommettere su corse di cavalli dove non corre nemmeno un cavallo: le scommesse riflettono solo le stime sulle scommesse di altri giocatori. Anche le agenzie di rating â pagate, teoricamente, per valutare il merito di credito delle banche e persino delle economie nazionali â iniziarono a basare i propri giudizi sui mercati secondari, sebbene un rating creditizio debba esprimere in teoria un giudizio di rischiositĂ distinto e indipendente dagli altri giudizi. Infine, furono modificati persino i sistemi contabili delle imprese: anzichĂŠ stimare il valore dei beni di una impresa in termini di valore del lavoro, del capitale, dei mercati ecc., si guardava semplicemente al valore di borsa di quei beni â valore basato sulle credenze dei traders riguardo a credenze di altri traders, e cosĂŹ via.
Da un certo punto di vista, si trattava della piĂš perfetta espressione del potere dei mercati che si fosse mai vista. Il valore dei beni di unâimpresa, o dellâentitĂ di un rischio, veniva calcolato non piĂš in base a giudizi umani arbitrari, ma a mercati puri; e la condivisione su vasta scala dei rischi consentĂŹ a molte iniziative economiche importanti ma rischiose di farsi finanziare dallâeconomia ârealeâ. Ciò accrebbe il potere dâacquisto di molti milioni di persone. A un altro livello, però, questi stessi processi di mercato perfetto distrussero altre componenti, non meno essenziali al buon funzionamento di un mercato: un poâ come fanno certe malattie croniche in cui un organo diventa iperattivo, distruggendo progressivamente altri organi. Riguardando indietro tutto quello che abbiamo detto, dobbiamo in primo luogo notare che i traders erano incentivati a ignorare determinate informazioni e a concentrare la propria attenzione sul valore dei rischi sui mercati secondari, anzichĂŠ su quelli primari. In secondo luogo, il sistema incoraggiava un ottimismo eccessivo. I mercati azionari sono sempre stati molto Âsensibili alle mode e agli sbalzi dâumore: se un determinato titolo è considerato molto redditizio tutti si precipitano ad acquistarlo, ma appena si sparge una voce di segno opposto, tutti fanno a Âgara per venderlo. Con il tempo il mercato si autocorregge, ma prima che ciò avvenga le distorsioni di prezzo possono durare a lungo, e la correzione può aver luogo improvvisamente e assumere la forma di una grave crisi. Si presume che il mercato gradualmente attenui le distorsioni, man mano che gli attori razionali si adattano a una situazione mutata; ma nella realtĂ le corse al rialzo o al ribasso vanno in modo molto diverso. La storia dei mercati finanziari non è fatta di adattamenti lenti che si protraggono nel tempo, ma di crisi continue. Nel decennio che ha preceduto la crisi del 2008 e 2009 câerano giĂ state la grande crisi del debito asiatico negli anni 1997-1998, la bolla della new economy tra 1999 e 2000 e la crisi argentina nel 2002.
Una terza importante componente dellâeccesso di ottimismo era la sicurezza, diffusa tra i traders e rivelatasi poi fondata, che i governi non avrebbero lasciato fallire il sistema e sarebbero intervenuti a coprire eventuali perdite dovute agli eccessi del trading. Come ha scritto Martin Wolf sul âFinancial Timesâ (e nel suo libro Fixing Global Finance, 2008), le banche impararono a privatizzare i profitti e a socializzare le perdite: finchĂŠ le cose fossero andate bene, si sarebbero date a un trading esageratamente ottimista ricavando profitti elevati; se improvvisamente la situazione fosse cambiata, i governi sarebbero accorsi a salvarle. Ormai le banche sanno con certezza che i governi sono pronti a salvarle e che per finanziare i salvataggi sono disposti anche a tagliare i servizi pubblici: il risultato è che correranno piĂš rischi di prima. Lâunico caso importante in cui un governo ha cercato di respingere questo implicito ricatto â quando gli Stati Uniti hanno scelto di lasciar fallire Lehman Brothers â ha prodotto sui mercati una reazione talmente scioccante che da allora non si è fatto altro che offrire a piene mani salvataggi. Ulteriormente rassicurate sul fatto che i governi correranno a salvarle, le banche finiranno per alzare ancora di piĂš la posta. Per giustificare i compensi ai banchieri si dice che producono profitti e creano ricchezza, e che lâaumento della ricchezza va a vantaggio di tutti. Ma questi profitti sono possibili solo grazie al sostegno pubblico, che tuttavia, non facendo parte dellâeconomia basata sul profitto, non è considerato creatore di ricchezza. Perciò nĂŠ il governo nĂŠ i contribuenti devono essere compensati per le ingenti somme pagate alle banche per aiutarle a sottrarsi alle conseguenze di un mercato davvero libero.
Una quarta implicazione di questo sistema smentisce la tesi secondo cui il modello di condivisione dei rischi promuoveva lâinnovazione e lo spirito di iniziativa. Le aziende dellâeconomia reale â quelle cioè che fabbricano beni e vendono servizi non a chi li acquista per rivenderli, ma ai clienti finali â hanno bisogno di tempo e denaro per portare a compimento i nuovi progetti. Per sviluppare una nuova idea di prodotto, valutarne le potenzialitĂ di mercato, effettuare lâinvestimento necessario a produrre e poi vendere il prodotto ai clienti ci vuole un certo tempo. Per i dirigenti dellâazienda che innova è importante che gli azionisti non abbiano troppa fretta di raccogliere i dividendi: se il nuovo prodotto avrĂ successo, i rendimenti futuri dellâazienda miglioreranno. Questa disponibilitĂ degli azionisti dipende dallâesistenza di un mercato azionario vivace che consenta loro di uscire rapidamente dallâazienda se si ha sentore che il nuovo prodotto possa avere scarso successo: la sensazione di non avere via di fuga, infatti, sarebbe un serio deterrente per chi si espone a un rischio. I mercati azionari, perciò, non sono necessariamente ostili allâinnovazione. Ma allâinizio del ventunesimo secolo gli sviluppi sui mercati secondari hanno creato una situazione in cui lâunica cosa che interessava agli azionisti era scambiare titoli derivati basandosi su aspettative di profitto a brevissimo termine che dipendevano da credenze su credenze su credenze, sempre piĂš distanti dallâeconomia reale. Unâevoluzione ancora piĂš sofisticata ha visto le banche sviluppare tecnologie informatiche che consentono di vendere e acquistare azioni in poche frazioni di secondo attraverso un processo gestito esclusivamente dai computer.
Implicazioni per il modello del valore per gli azionisti
Lâascesa della forma di capitalismo finanziario sopra descritta è legata al concetto anglosassone di impresa orientato alla massimizzazione del valore per gli azionisti. Questo concetto non richiede lâesistenza di mercati secondari del rischio, ma storicamente la simultanea comparsa di quel concetto di impresa e dei mercati secondari ha avuto importanti conseguenze. Nel modello basato sugli azionisti, lâunico scopo di unâazienda è di massimizzare il valore per gli azionisti stessi: tutti gli altri interessi appaiono non giĂ subordinati allâinteresse degli azionisti, ma addirittura conglobati in esso. Unâidea, questa, che sembrerebbe contraddire lo slogan secondo cui nellâeconomia capitalista âil cliente è reâ. Come fanno clienti e azionisti a regnare contemporaneamente? Il ragionamento è il seguente. In un mercato a concorrenza perfetta, le imprese possono massimizzare il valore per gli azionisti solo attraverso la soddisfazione dei clienti: unâazienda che delude un cliente lo perderĂ a beneficio di una impresa rivale che metta i clienti al primo posto, e di conseguenza avrĂ (e offrirĂ agli azionisti) risultati inferiori a quelli ottimali. Perciò la massimizzazione del valore per gli azionisti garantisce al tempo stesso la sovranitĂ del consumatore. Se invece il mercato non è perfetto â perchĂŠ ad esempio le imprese sono avvantaggiate dalla difficoltĂ per i clienti di procurarsi informazioni sui prodotti â, la Scuola di Chicago può sempre rispondere, come si è visto, che massimizzando il valore per gli azionisti si massimizza anche la ricchezza totale della societĂ (e con essa il benessere dei consumatori).
La massimizzazione del valore per gli azionisti non è lâunico approccio alla governance aziendale sperimentato dal capitalismo moderno. Il capitalismo di Francia, Germania e Giappone, ad esempio, aveva sviluppato la concezione di una varietĂ di soggetti partecipi degli interessi dellâazienda (stakeholders) come i clienti, i dipendenti, i possessori di obbligazioni e a volte le comunitĂ locali o lâinteresse nazionale, cui lâazienda doveva rispondere direttamente, e non attraverso la soddisfazione degli azionisti. Questi modelli furono generalmente accantonati negli anni Novanta, quando si affermò la superioritĂ del modello angloamericano come perfetta espressione degli ideali neoliberisti. Questa idea si basava in parte sulla presunta superioritĂ delle economie britannica e americana in termini di risultati: risultati favoriti, come abbiamo visto, dallâapproccio al risk trading, oggi ampiamente screditato. PiĂš importante ancora era che le economie imperniate sugli stakeholders dipendevano da idee locali ed esperienze condivise secondo cui lâimpresa era parte integrante della societĂ , consentendo ai membri di questâultima di confidare (a torto o a ragione) nelle acrobazie volte a bilanciare i vari interessi riconosciuti dal modello. Il modello orientato agli azionisti era piĂš in linea con lâimpersonalitĂ dellâeconomia globale, in cui si può (e si deve) avere a che fare con estranei, senza alcun coinvolgimento o fiducia personale. Il modello angloamericano richiede un solo tipo di fiducia: che il mercato sia puro. Rispetto ad esso, lâapproccio orientato agli stakeholders si rivelò troppo locale, e poco adatto a essere esportato. Fu il trionfo del modello basato sulla massimizzazione del valore per gli azionisti, e con esso dellâidea secondo cui la massimizzazione dei benefici per gli azionisti assicura la soddisfazione di ogni altro interesse rilevante.
Nella storia del capitalismo americano lâascesa del modello orientato agli azionisti fu una reazione al cosiddetto capitalismo manageriale. A partire dagli anni Trenta, sulla scia del grande crollo del 1929, lâeconomia americana finĂŹ per essere dominata da imprese di grandi dimensioni e complessitĂ . Gli azionisti â allâepoca soprattutto gruppi di famiglie abbienti ma non necessariamente informate â non capivano granchĂŠ delle loro aziende e tendevano a lasciare ampia delega ai manager. Questi ultimi finirono per essere sospettati di creare organizzazioni troppo grandi, utili solo ad accrescere i loro stipendi e a soddisfare la loro vanitĂ . Negli anni Settanta gli economisti avevano messo allâordine del giorno il cosiddetto âproblema principale-agenteâ: a quali condizioni un principale (ad esempio un azionista) poteva confidare che i suoi agenti (i manager) non perseguissero i propri interessi a spese dei suoi? La risposta fu una riforma della governance aziendale che portò al primo posto gli interessi degli azionisti. In realtĂ , per il diritto angloamericano una societĂ di capitali non è altro che un pacchetto di azioni, mentre ad esempio per la legge tedesca essa âappartieneâ a una vasta gamma di stakeholders.
Un esempio di come questo approccio possa influenzare le modalitĂ di funzionamento delle aziende si ritrova in un noto contributo di Michael Jensen (2001), docente alla Harvard Business School e tra i principali fautori della massimizzazione del valore per gli azionisti. Come molti economisti neoclassici, Jensen era perplesso di fronte allâascesa del concetto di responsabilitĂ sociale dellâimpresa che, come esamineremo in modo piĂš approfondito nel prossimo capitolo, consiste nellâaccettazione volontaria, da parte di unâimpresa, di una serie di obblighi che vanno al di lĂ delle sue attivitĂ di mercato e sono diretti ai clienti, ai dipendenti e soprattutto alla comunitĂ piĂš ampia. Le decisioni su queste politiche, che si possono considerare contrarie alla massimizzazione del profitto, sono prese generalmente al massimo livello dirigenziale dellâazienda. Immaginiamo, ad esempio, una multinazionale che subappalti la produzione di capi dâabbigliamento a fabbriche asiatiche che utilizzano manodopera minorile e impongono orari di lavoro molto pesanti senza che il governo nazionale o locale faccia qualcosa per impedirlo. Ipotizziamo anche che i dirigenti della nostra impresa, inorriditi di fronte a queste prassi, decidano di vietare ai fornitori di utilizzare lavoro minorile. Il risultato sarĂ che i prezzi delle magliette e dei jeans prodotti da questâazienda aumenteranno rispetto a quelli dei concorrenti che continuano imperterriti a far lavorare i bambini. Se si assume che i prodotti delle varie aziende competono soprattutto sul prezzo, la nostra azienda vedrĂ calare le vendite, e con esse gli utili. Dal punto di vista di Jensen, e in generale della teoria principale-agente, i dirigenti sono venuti meno agli obblighi verso il proprio principale. Inoltre, poichĂŠ un assioma della teoria economica è che i consumatori siano interessati soprattutto a una riduzione dei prezzi, quei dirigenti hanno tradito i clienti, i cui interessi, secondo la dottrina di Chicago, coincidono con quelli degli azionisti.
Ma a Jensen non piace lâimplicazione che le imprese debbano sempre essere amorali, e perciò sostiene che qualcuno (non è chiaro chi) debba educare gli azionisti ad accettare un approccio morale al business. Nel ruolo di principale, gli azionisti sono liberi di rinunciare a massimizzare i profitti per una motivazione socialmente buona. Il problema di questa posizione è che essa attribuisce unicamente ai proprietari la capacitĂ di essere agenti morali, almeno nella sfera economica (ma, come abbiamo visto, la strategia neoliberista prevede che lâapproccio economico venga esteso a tutte le parti della societĂ , privandoci di qualsiasi altro ambito in cui esistano valori differenti). Tutti noi non siamo che automi amorali, agenti dei nostri principali: gli azionisti. Vale la pena osservare che il dibattito verte sui diritti e i doveri morali degli azionisti e dei vertici manageriali di unâimpresa. Si dĂ per scontato che tutti gli altri collaboratori dellâimpresa siano privi di qualsiasi dir...