Il potere dei giganti
eBook - ePub

Il potere dei giganti

Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo

Colin Crouch, Marco Cupellaro

  1. 4 pages
  2. Italian
  3. ePUB (adapté aux mobiles)
  4. Disponible sur iOS et Android
eBook - ePub

Il potere dei giganti

Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo

Colin Crouch, Marco Cupellaro

Détails du livre
Aperçu du livre
Table des matières
Citations

À propos de ce livre

La crisi devastante delle economie occidentali avrebbe dovuto portare con sé la dottrina economica egemone del neoliberismo. Non è stato così. Perché? La risposta di Crouch, densa e polemica, è che le teorie neoliberiste sono funzionali al potere di un'entità che pesa sempre più: l'impresa gigante. I partiti di sinistra e i movimenti della società civile dovrebbero fare argine contro lo strapotere delle megaimprese. L'opera non è affatto semplice, ma la diagnosi esatta di Crouch può essere un buon inizio. Leopoldo Fabiani, "la Repubblica"Quali interessi rappresenta il neoliberismo? Qui sta l'originalità di Crouch: le gigantesche imprese transnazionali, che antepongono le proprie regole private a quelle dei governi, sono i soggetti che ripropongono le politiche neoliberiste. È così che si spiega la strana 'non morte del neoliberismo'. Gian Luigi Vaccarino, "L'Indice"«Il mercato non esiste» verrebbe da dire oggi leggendo Il potere dei giganti, dove si mostra che per larghi settori dell'economia, la libera concorrenza è schiacciata dai grandi conglomerati industriali e finanziari, che dello Stato e dei governi non sono gli antagonisti, bensì i 'poderosi alleati'. "l'Espresso"

Foire aux questions

Comment puis-je résilier mon abonnement ?
Il vous suffit de vous rendre dans la section compte dans paramètres et de cliquer sur « Résilier l’abonnement ». C’est aussi simple que cela ! Une fois que vous aurez résilié votre abonnement, il restera actif pour le reste de la période pour laquelle vous avez payé. Découvrez-en plus ici.
Puis-je / comment puis-je télécharger des livres ?
Pour le moment, tous nos livres en format ePub adaptés aux mobiles peuvent être téléchargés via l’application. La plupart de nos PDF sont également disponibles en téléchargement et les autres seront téléchargeables très prochainement. Découvrez-en plus ici.
Quelle est la différence entre les formules tarifaires ?
Les deux abonnements vous donnent un accès complet à la bibliothèque et à toutes les fonctionnalités de Perlego. Les seules différences sont les tarifs ainsi que la période d’abonnement : avec l’abonnement annuel, vous économiserez environ 30 % par rapport à 12 mois d’abonnement mensuel.
Qu’est-ce que Perlego ?
Nous sommes un service d’abonnement à des ouvrages universitaires en ligne, où vous pouvez accéder à toute une bibliothèque pour un prix inférieur à celui d’un seul livre par mois. Avec plus d’un million de livres sur plus de 1 000 sujets, nous avons ce qu’il vous faut ! Découvrez-en plus ici.
Prenez-vous en charge la synthèse vocale ?
Recherchez le symbole Écouter sur votre prochain livre pour voir si vous pouvez l’écouter. L’outil Écouter lit le texte à haute voix pour vous, en surlignant le passage qui est en cours de lecture. Vous pouvez le mettre sur pause, l’accélérer ou le ralentir. Découvrez-en plus ici.
Est-ce que Il potere dei giganti est un PDF/ePUB en ligne ?
Oui, vous pouvez accéder à Il potere dei giganti par Colin Crouch, Marco Cupellaro en format PDF et/ou ePUB ainsi qu’à d’autres livres populaires dans Economics et Economic Policy. Nous disposons de plus d’un million d’ouvrages à découvrir dans notre catalogue.

Informations

Année
2014
ISBN
9788858113004

V. La privatizzazione nel modello keynesiano: dalla disciplina al debito

Fermo restando che da un punto di vista generale la crisi finanziaria degli anni 2008-2009 (cfr. capitolo 1) si può considerare un gigantesco fallimento del mercato, possiamo anche dire che essa sia stata provocata proprio dal perfezionamento estremo raggiunto da alcune componenti del modello di mercato in un modo che ne ha danneggiate altre. Vediamo innanzitutto come funzionava il meccanismo. Uno dei principali problemi di qualsiasi iniziativa economica è l’incertezza: il rischio che un imprevisto mandi all’aria il business plan. Ma a questo problema il mercato ha trovato una soluzione: per molte forme di incertezza è possibile stimare la probabilità che si verifichi il peggio. Una volta trasformata in rischio calcolabile, l’incertezza può essere misurata in termini monetari. In tal modo è possibile determinare il valore del rischio che si corre. È questo il principio di fondo delle assicurazioni. I rischi, così ridefiniti, possono essere acquistati e venduti. Gli operatori finanziari costruiscono complessi portafogli di rischi di vario genere al fine di ricavare un profitto, nella speranza di aver selezionato un numero sufficiente di rischi che non si realizzeranno. Quest’attività di mercato è essenziale per qualsiasi attività innovativa e imprenditoriale: senza di essa saremmo tutti più poveri.
Il passo successivo è che chi acquista un rischio non sia costretto ad attendere l’esito della sua scommessa, ma possa rivendere il rischio a qualcun altro. Il calcolo dell’acquirente non riguarda tanto l’effettiva rischiosità del prestito erogato, quanto l’importo che ne può ricavare sul mercato secondario. Questo prezzo dipenderà dal valore che secondo l’acquirente del rischio attribuiranno a quello stesso rischio i futuri probabili acquirenti. Naturalmente tale valore dipenderà, più che dalle convinzioni del primo acquirente, dalle percezioni dei potenziali acquirenti di seconda istanza riguardo al rischio alla base del calcolo. In sé, anche questo trading secondario è positivo in quanto, distribuendo il rischio su una base più ampia, riduce l’esposizione del singolo acquirente.
A partire dalla fine degli anni Ottanta, questi mercati secondari si sono rapidamente trasformati in lunghe filiere di acquirenti e venditori. Il secondo acquirente è disposto ad acquistare il rischio a un prezzo che si basa su quello che ritiene sarà disposto a pagarlo il terzo acquirente, e così via; a ogni passaggio la distorsione aumenta, sia pure di poco. Il fatto che queste catene di compravendita si siano tanto allungate è dipeso da due fattori. In primo luogo, la globalizzazione dell’economia ha esteso a sempre più paesi la possibilità per chi detiene ricchezza di accedere ai mercati su cui si negoziano rischi. In questo universo in espansione, con l’aumento progressivo dei soggetti disposti a condividere quei rischi, il numero di rischi di cui poteva essere chiamato a rispondere il singolo partecipante si è ridotto sempre più. E anche questo sembrava un fatto positivo.
In secondo luogo, va tenuto presente che la regolamentazione delle transazioni finanziarie si è allentata in gran parte del mondo: ciò è accaduto in primo luogo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove i governi avevano adottato con convinzione l’agenda neoliberista. Un importante intervento legislativo fu, negli Stati Uniti, il Gramm-Leach-Bliley Financial Services Modernization Act del 1999, tassello fondamentale del programma neoliberista di deregulation. Questa legge abolì le norme che impedivano alle banche di destinare i denari depositati dai loro clienti per effettuare investimenti finanziari ad alto rischio: restrizioni che risalivano al Glass-Steagall Act del 1933, emanato in seguito al crollo di Wall Street. L’abolizione di questa legge consentì a operatori finanziari impegnati in attività particolarmente rischiose l’accesso ai risparmi di milioni di persone ignare di ciò che stava accadendo. E ciò non era più positivo.
I rischi venivano scambiati a velocità crescente, allungando la catena di aspettative, di “penso che gli altri pensino”, che a ogni ulteriore passaggio accresceva sempre più, sia pure impercettibilmente, la distanza tra i prezzi di mercato e la valutazione iniziale dei rischi. Queste distorsioni non avrebbero avuto importanza se fossero state il semplice risultato di differenze nei giudizi individuali: in quel caso, infatti, le valutazioni troppo ottimiste sarebbero state bilanciate da quelle più pessimiste e viceversa. In realtà, il clima prevalente era di ottimismo: il sistema cresceva costantemente, distribuendo i rischi in modo sempre più ampio. Inoltre – e questo aspetto si sarebbe rivelato fondamentale – il sistema stesso si stava estendendo fino a comprendere una quota talmente alta della ricchezza mondiale che, se il rischio si fosse concretizzato e si fosse rivelato maggiore del previsto, i governi di tutto il mondo non avrebbero avuto altra scelta che intervenire per evitare il crollo del sistema. Inoltre, le banche costruirono pacchetti di rischi estremamente diversificati, miscelando (in proporzioni non specificate) prestiti a rischio zero con mutui privi di garanzie adeguate: gli acquirenti di questi pacchetti non erano molto interessati al loro contenuto, ma solo alle filiere di opinioni basate su altre filiere di opinioni che, procedendo a ritroso all’infinito, determinavano i prezzi sui mercati secondari.
In questo sistema, il guadagno dipende dalla velocità delle transazioni. Ogni volta che si vende un rischio a un prezzo anche solo leggermente superiore a quello di acquisto, si ricava un profitto; se con lo stesso metodo si acquista un altro rischio rivendendolo altrettanto alla svelta, si guadagna altro denaro. Gli operatori finanziari o traders, che lavoravano per le banche e avevano accesso ai risparmi e agli investimenti di milioni di clienti per speculare su questi mercati, ricevevano lauti premi in base ai risultati ottenuti. Più rapidi erano nel comprare e vendere, più venivano premiati. Questi incentivi li spinsero a lavorare su un orizzonte temporale sempre più breve.
I prezzi sui mercati secondari finirono per diventare molto più importanti delle valutazioni iniziali dei rischi. Si disse che i giudizi che si formavano su quei mercati potevano sostituire qualsiasi tentativo di stimare il valore dei beni sui mercati primari. In altre parole, i mercati secondari erano divenuti la parte più importante della realtà. Non aveva più senso chiedersi se le scommesse su quei mercati riflettessero i valori “reali” sottostanti: i valori secondari erano i valori reali. Era come scommettere su corse di cavalli dove non corre nemmeno un cavallo: le scommesse riflettono solo le stime sulle scommesse di altri giocatori. Anche le agenzie di rating – pagate, teoricamente, per valutare il merito di credito delle banche e persino delle economie nazionali – iniziarono a basare i propri giudizi sui mercati secondari, sebbene un rating creditizio debba esprimere in teoria un giudizio di rischiosità distinto e indipendente dagli altri giudizi. Infine, furono modificati persino i sistemi contabili delle imprese: anziché stimare il valore dei beni di una impresa in termini di valore del lavoro, del capitale, dei mercati ecc., si guardava semplicemente al valore di borsa di quei beni – valore basato sulle credenze dei traders riguardo a credenze di altri traders, e così via.
Da un certo punto di vista, si trattava della più perfetta espressione del potere dei mercati che si fosse mai vista. Il valore dei beni di un’impresa, o dell’entità di un rischio, veniva calcolato non più in base a giudizi umani arbitrari, ma a mercati puri; e la condivisione su vasta scala dei rischi consentì a molte iniziative economiche importanti ma rischiose di farsi finanziare dall’economia “reale”. Ciò accrebbe il potere d’acquisto di molti milioni di persone. A un altro livello, però, questi stessi processi di mercato perfetto distrussero altre componenti, non meno essenziali al buon funzionamento di un mercato: un po’ come fanno certe malattie croniche in cui un organo diventa iperattivo, distruggendo progressivamente altri organi. Riguardando indietro tutto quello che abbiamo detto, dobbiamo in primo luogo notare che i traders erano incentivati a ignorare determinate informazioni e a concentrare la propria attenzione sul valore dei rischi sui mercati secondari, anziché su quelli primari. In secondo luogo, il sistema incoraggiava un ottimismo eccessivo. I mercati azionari sono sempre stati molto ­sensibili alle mode e agli sbalzi d’umore: se un determinato titolo è considerato molto redditizio tutti si precipitano ad acquistarlo, ma appena si sparge una voce di segno opposto, tutti fanno a ­gara per venderlo. Con il tempo il mercato si autocorregge, ma prima che ciò avvenga le distorsioni di prezzo possono durare a lungo, e la correzione può aver luogo improvvisamente e assumere la forma di una grave crisi. Si presume che il mercato gradualmente attenui le distorsioni, man mano che gli attori razionali si adattano a una situazione mutata; ma nella realtà le corse al rialzo o al ribasso vanno in modo molto diverso. La storia dei mercati finanziari non è fatta di adattamenti lenti che si protraggono nel tempo, ma di crisi continue. Nel decennio che ha preceduto la crisi del 2008 e 2009 c’erano già state la grande crisi del debito asiatico negli anni 1997-1998, la bolla della new economy tra 1999 e 2000 e la crisi argentina nel 2002.
Una terza importante componente dell’eccesso di ottimismo era la sicurezza, diffusa tra i traders e rivelatasi poi fondata, che i governi non avrebbero lasciato fallire il sistema e sarebbero intervenuti a coprire eventuali perdite dovute agli eccessi del trading. Come ha scritto Martin Wolf sul “Financial Times” (e nel suo libro Fixing Global Finance, 2008), le banche impararono a privatizzare i profitti e a socializzare le perdite: finché le cose fossero andate bene, si sarebbero date a un trading esageratamente ottimista ricavando profitti elevati; se improvvisamente la situazione fosse cambiata, i governi sarebbero accorsi a salvarle. Ormai le banche sanno con certezza che i governi sono pronti a salvarle e che per finanziare i salvataggi sono disposti anche a tagliare i servizi pubblici: il risultato è che correranno più rischi di prima. L’unico caso importante in cui un governo ha cercato di respingere questo implicito ricatto – quando gli Stati Uniti hanno scelto di lasciar fallire Lehman Brothers – ha prodotto sui mercati una reazione talmente scioccante che da allora non si è fatto altro che offrire a piene mani salvataggi. Ulteriormente rassicurate sul fatto che i governi correranno a salvarle, le banche finiranno per alzare ancora di più la posta. Per giustificare i compensi ai banchieri si dice che producono profitti e creano ricchezza, e che l’aumento della ricchezza va a vantaggio di tutti. Ma questi profitti sono possibili solo grazie al sostegno pubblico, che tuttavia, non facendo parte dell’economia basata sul profitto, non è considerato creatore di ricchezza. Perciò né il governo né i contribuenti devono essere compensati per le ingenti somme pagate alle banche per aiutarle a sottrarsi alle conseguenze di un mercato davvero libero.
Una quarta implicazione di questo sistema smentisce la tesi secondo cui il modello di condivisione dei rischi promuoveva l’innovazione e lo spirito di iniziativa. Le aziende dell’economia reale – quelle cioè che fabbricano beni e vendono servizi non a chi li acquista per rivenderli, ma ai clienti finali – hanno bisogno di tempo e denaro per portare a compimento i nuovi progetti. Per sviluppare una nuova idea di prodotto, valutarne le potenzialità di mercato, effettuare l’investimento necessario a produrre e poi vendere il prodotto ai clienti ci vuole un certo tempo. Per i dirigenti dell’azienda che innova è importante che gli azionisti non abbiano troppa fretta di raccogliere i dividendi: se il nuovo prodotto avrà successo, i rendimenti futuri dell’azienda miglioreranno. Questa disponibilità degli azionisti dipende dall’esistenza di un mercato azionario vivace che consenta loro di uscire rapidamente dall’azienda se si ha sentore che il nuovo prodotto possa avere scarso successo: la sensazione di non avere via di fuga, infatti, sarebbe un serio deterrente per chi si espone a un rischio. I mercati azionari, perciò, non sono necessariamente ostili all’innovazione. Ma all’inizio del ventunesimo secolo gli sviluppi sui mercati secondari hanno creato una situazione in cui l’unica cosa che interessava agli azionisti era scambiare titoli derivati basandosi su aspettative di profitto a brevissimo termine che dipendevano da credenze su credenze su credenze, sempre più distanti dall’economia reale. Un’evoluzione ancora più sofisticata ha visto le banche sviluppare tecnologie informatiche che consentono di vendere e acquistare azioni in poche frazioni di secondo attraverso un processo gestito esclusivamente dai computer.

Implicazioni per il modello del valore per gli azionisti

L’ascesa della forma di capitalismo finanziario sopra descritta è legata al concetto anglosassone di impresa orientato alla massimizzazione del valore per gli azionisti. Questo concetto non richiede l’esistenza di mercati secondari del rischio, ma storicamente la simultanea comparsa di quel concetto di impresa e dei mercati secondari ha avuto importanti conseguenze. Nel modello basato sugli azionisti, l’unico scopo di un’azienda è di massimizzare il valore per gli azionisti stessi: tutti gli altri interessi appaiono non già subordinati all’interesse degli azionisti, ma addirittura conglobati in esso. Un’idea, questa, che sembrerebbe contraddire lo slogan secondo cui nell’economia capitalista “il cliente è re”. Come fanno clienti e azionisti a regnare contemporaneamente? Il ragionamento è il seguente. In un mercato a concorrenza perfetta, le imprese possono massimizzare il valore per gli azionisti solo attraverso la soddisfazione dei clienti: un’azienda che delude un cliente lo perderà a beneficio di una impresa rivale che metta i clienti al primo posto, e di conseguenza avrà (e offrirà agli azionisti) risultati inferiori a quelli ottimali. Perciò la massimizzazione del valore per gli azionisti garantisce al tempo stesso la sovranità del consumatore. Se invece il mercato non è perfetto – perché ad esempio le imprese sono avvantaggiate dalla difficoltà per i clienti di procurarsi informazioni sui prodotti –, la Scuola di Chicago può sempre rispondere, come si è visto, che massimizzando il valore per gli azionisti si massimizza anche la ricchezza totale della società (e con essa il benessere dei consumatori).
La massimizzazione del valore per gli azionisti non è l’unico approccio alla governance aziendale sperimentato dal capitalismo moderno. Il capitalismo di Francia, Germania e Giappone, ad esempio, aveva sviluppato la concezione di una varietà di soggetti partecipi degli interessi dell’azienda (stakeholders) come i clienti, i dipendenti, i possessori di obbligazioni e a volte le comunità locali o l’interesse nazionale, cui l’azienda doveva rispondere direttamente, e non attraverso la soddisfazione degli azionisti. Questi modelli furono generalmente accantonati negli anni Novanta, quando si affermò la superiorità del modello angloamericano come perfetta espressione degli ideali neoliberisti. Questa idea si basava in parte sulla presunta superiorità delle economie britannica e americana in termini di risultati: risultati favoriti, come abbiamo visto, dall’approccio al risk trading, oggi ampiamente screditato. Più importante ancora era che le economie imperniate sugli stakeholders dipendevano da idee locali ed esperienze condivise secondo cui l’impresa era parte integrante della società, consentendo ai membri di quest’ultima di confidare (a torto o a ragione) nelle acrobazie volte a bilanciare i vari interessi riconosciuti dal modello. Il modello orientato agli azionisti era più in linea con l’impersonalità dell’economia globale, in cui si può (e si deve) avere a che fare con estranei, senza alcun coinvolgimento o fiducia personale. Il modello angloamericano richiede un solo tipo di fiducia: che il mercato sia puro. Rispetto ad esso, l’approccio orientato agli stakeholders si rivelò troppo locale, e poco adatto a essere esportato. Fu il trionfo del modello basato sulla massimizzazione del valore per gli azionisti, e con esso dell’idea secondo cui la massimizzazione dei benefici per gli azionisti assicura la soddisfazione di ogni altro interesse rilevante.
Nella storia del capitalismo americano l’ascesa del modello orientato agli azionisti fu una reazione al cosiddetto capitalismo manageriale. A partire dagli anni Trenta, sulla scia del grande crollo del 1929, l’economia americana finì per essere dominata da imprese di grandi dimensioni e complessità. Gli azionisti – all’epoca soprattutto gruppi di famiglie abbienti ma non necessariamente informate – non capivano granché delle loro aziende e tendevano a lasciare ampia delega ai manager. Questi ultimi finirono per essere sospettati di creare organizzazioni troppo grandi, utili solo ad accrescere i loro stipendi e a soddisfare la loro vanità. Negli anni Settanta gli economisti avevano messo all’ordine del giorno il cosiddetto “problema principale-agente”: a quali condizioni un principale (ad esempio un azionista) poteva confidare che i suoi agenti (i manager) non perseguissero i propri interessi a spese dei suoi? La risposta fu una riforma della governance aziendale che portò al primo posto gli interessi degli azionisti. In realtà, per il diritto angloamericano una società di capitali non è altro che un pacchetto di azioni, mentre ad esempio per la legge tedesca essa “appartiene” a una vasta gamma di stakeholders.
Un esempio di come questo approccio possa influenzare le modalità di funzionamento delle aziende si ritrova in un noto contributo di Michael Jensen (2001), docente alla Harvard Business School e tra i principali fautori della massimizzazione del valore per gli azionisti. Come molti economisti neoclassici, Jensen era perplesso di fronte all’ascesa del concetto di responsabilità sociale dell’impresa che, come esamineremo in modo più approfondito nel prossimo capitolo, consiste nell’accettazione volontaria, da parte di un’impresa, di una serie di obblighi che vanno al di là delle sue attività di mercato e sono diretti ai clienti, ai dipendenti e soprattutto alla comunità più ampia. Le decisioni su queste politiche, che si possono considerare contrarie alla massimizzazione del profitto, sono prese generalmente al massimo livello dirigenziale dell’azienda. Immaginiamo, ad esempio, una multinazionale che subappalti la produzione di capi d’abbigliamento a fabbriche asiatiche che utilizzano manodopera minorile e impongono orari di lavoro molto pesanti senza che il governo nazionale o locale faccia qualcosa per impedirlo. Ipotizziamo anche che i dirigenti della nostra impresa, inorriditi di fronte a queste prassi, decidano di vietare ai fornitori di utilizzare lavoro minorile. Il risultato sarà che i prezzi delle magliette e dei jeans prodotti da quest’azienda aumenteranno rispetto a quelli dei concorrenti che continuano imperterriti a far lavorare i bambini. Se si assume che i prodotti delle varie aziende competono soprattutto sul prezzo, la nostra azienda vedrà calare le vendite, e con esse gli utili. Dal punto di vista di Jensen, e in generale della teoria principale-agente, i dirigenti sono venuti meno agli obblighi verso il proprio principale. Inoltre, poiché un assioma della teoria economica è che i consumatori siano interessati soprattutto a una riduzione dei prezzi, quei dirigenti hanno tradito i clienti, i cui interessi, secondo la dottrina di Chicago, coincidono con quelli degli azionisti.
Ma a Jensen non piace l’implicazione che le imprese debbano sempre essere amorali, e perciò sostiene che qualcuno (non è chiaro chi) debba educare gli azionisti ad accettare un approccio morale al business. Nel ruolo di principale, gli azionisti sono liberi di rinunciare a massimizzare i profitti per una motivazione socialmente buona. Il problema di questa posizione è che essa attribuisce unicamente ai proprietari la capacità di essere agenti morali, almeno nella sfera economica (ma, come abbiamo visto, la strategia neoliberista prevede che l’approccio economico venga esteso a tutte le parti della società, privandoci di qualsiasi altro ambito in cui esistano valori differenti). Tutti noi non siamo che automi amorali, agenti dei nostri principali: gli azionisti. Vale la pena osservare che il dibattito verte sui diritti e i doveri morali degli azionisti e dei vertici manageriali di un’impresa. Si dà per scontato che tutti gli altri collaboratori dell’impresa siano privi di qualsiasi dir...

Table des matières

  1. Prefazione
  2. I. Il cammino del neoliberismo fino alla crisi attuale
  3. II. Il mercato e i suoi limiti
  4. III. Le imprese e la scalata al mercato
  5. IV. Imprese private e affari pubblici
  6. V. La privatizzazione nel modello keynesiano: dalla disciplina al debito
  7. VI. Dall’intreccio politica-imprese alla “corporate social responsibility”
  8. VI. Valori e società civile
  9. VIII. Che cosa rimane della destra, della sinistra e dei valori?
  10. Bibliografia
  11. Ringraziamenti
Normes de citation pour Il potere dei giganti

APA 6 Citation

Crouch, C. (2014). Il potere dei giganti ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3460051/il-potere-dei-giganti-perch-la-crisi-non-ha-sconfitto-il-neoliberismo-pdf (Original work published 2014)

Chicago Citation

Crouch, Colin. (2014) 2014. Il Potere Dei Giganti. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3460051/il-potere-dei-giganti-perch-la-crisi-non-ha-sconfitto-il-neoliberismo-pdf.

Harvard Citation

Crouch, C. (2014) Il potere dei giganti. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3460051/il-potere-dei-giganti-perch-la-crisi-non-ha-sconfitto-il-neoliberismo-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Crouch, Colin. Il Potere Dei Giganti. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2014. Web. 15 Oct. 2022.