I.
La condizionale francese
alla riunificazione tedesca
Dopo la caduta del Muro di Berlino, nel novembre 1989, e lâepilogo della Guerra fredda, sembrava che dovesse avverarsi una prospettiva suggestiva: la formazione degli «Stati Uniti dâEuropa». Ossia, lâavvento di unâentitĂ politica sovranazionale, che sarebbe giunta a comprendere man mano gran parte dei paesi del Vecchio Continente.
I primi a esserne convinti erano naturalmente i militanti del movimento federalista, di cui Altiero Spinelli (uno dei firmatari nel 1941 del famoso Manifesto di Ventotene) era stato sino alla sua scomparsa, nel 1986, il piĂč strenuo e tenace animatore. Ma adesso anche numerosi osservatori da sempre scettici non consideravano piĂč lâistituzione di una federazione europea una mĂšta utopica, vagheggiata e perseguita da alcune «anime belle» con vigorosa passione ideale.
In effetti, la ComunitĂ europea, dopo aver costituito sino ad allora unâarea di mercato imperniata sulla liberalizzazione degli scambi e un antemurale sotto lâombrello della Nato al blocco sovietico dei paesi dellâEst, avrebbe potuto adesso puntare alla realizzazione di una compagine politica unitaria con propri tratti distintivi e una concreta autonomia nello scacchiere internazionale, non avendo piĂč bisogno della protezione degli Stati Uniti allo stesso modo che in passato. Inoltre, nellâagenda di Bruxelles figuravano da tempo sia la creazione di uno «spazio giuridico europeo» sia lâadozione di una politica comune in materia di sicurezza.
Tuttavia, con la riunificazione tedesca, la Germania sarebbe tornata a essere il piĂč grande e popoloso paese dâEuropa, nel cuore del Vecchio Continente. Sâera perciĂČ riaffacciato un problema cruciale, di portata storica, denso di interrogativi per il futuro. Ci si chiedeva infatti, alla luce del passato e con lâapertura di nuovi orizzonti, quale ruolo avrebbe svolto la Germania. Dâaltronde, proprio in ragione delle tragiche vicende della seconda guerra mondiale scatenata dal Terzo Reich, e nellâintento di chiudere definitivamente unâepoca drammatica come quella della prima metĂ del Novecento, era stato concepito, dopo la fine del conflitto, il progetto di dare vita alla ComunitĂ europea.
Erano pertanto piĂč che comprensibili le forti preoccupazioni che assillavano il mondo politico e lâopinione pubblica francese, per la ricostituzione, al di lĂ del Reno, di uno Stato tedesco territorialmente consistente ed economicamente vigoroso. Nella memoria collettiva i retaggi del passato non sâerano dissolti del tutto, ed era perciĂČ inevitabile che ricomparissero gli spettri angosciosi del 1914 e del 1939.
CosĂŹ pure era accaduto in Gran Bretagna, date le apprensioni suscitate dal ritorno in vita, al di lĂ della Manica, di un megastato, con oltre ottanta milioni di abitanti e un considerevole potenziale industriale. PerciĂČ il governo inglese aveva badato a riesumare dal cassetto una formula pregiudiziale, contemplata nel trattato di pace, come quella del «quattro piĂč due», secondo cui la soluzione della «questione tedesca» non avrebbe potuto prescindere da una risoluzione unanime delle quattro potenze vincitrici dellâultima guerra mondiale: al di lĂ , perciĂČ, di qualsiasi decisione fossero giunti a prendere in comune i dirigenti di Bonn e di Pankow.
Da parte loro, nĂ© lâItalia nĂ© il Belgio avevano visto di buon occhio una riunificazione dâemblĂ©e della Germania, in considerazione delle incognite che avrebbe potuto generare in un sistema di equilibri internazionali ancora fragile e incerto. Del resto, alla Casa Bianca non si era dellâavviso che Bonn dovesse premere sul pedale. Câera infatti in America anche chi temeva che la Germania potesse un giorno sottrarre a Washington lâinfluenza che esercitava sul Vecchio Continente. PerciĂČ, il premier italiano Giulio Andreotti, essendosi consultato con il presidente americano George Bush, aveva ritenuto che Kohl non si sarebbe spinto a negoziare direttamente con GorbaÄĂ«v il «via libera» di Mosca a un ricongiungimento delle due Germanie, ma avrebbe sondato preventivamente i suoi partner europei.
Che Kohl avrebbe agito di conseguenza era stata dunque lâimpressione emersa dopo quanto il Cancelliere aveva affermato, il 22 novembre, nel Parlamento di Strasburgo di fronte agli altri rappresentanti della ComunitĂ europea, sorpresi e disorientati in seguito alla svolta determinata dallâimprovviso smantellamento della frontiera che per quasi trentâanni aveva diviso le due sezioni dellâex capitale tedesca. Dâaltro canto, al fine di risultare piĂč convincente, Kohl aveva voluto che accanto a lui, durante il suo intervento, ci fosse il presidente francese François Mitterrand.
SenonchĂ© il Cancelliere, una volta assicuratosi un placet di Washington, concessogli dalla Casa Bianca purchĂ© sâimpegnasse a portare la Germania riunificata nellâambito della Nato, era riuscito nel settembre 1990 a ottenere rapidamente il consenso di Mosca allâincorporazione della Ddr nella Repubblica federale tedesca in cambio di un piano di massicci aiuti finanziari al governo sovietico da parte di Bonn. Aveva anche promesso, in realtĂ , che la Germania orientale non sarebbe stata inclusa nella Nato per non compromettere la distensione con lâUrss. Tanto che sarĂ successivamente Bush a dover sciogliere questo nodo nel giugno 1991, nel corso di un incontro a quattrâocchi con GorbaÄĂ«v.
Non era rimasto perciĂČ alla Francia e alla Gran Bretagna che far valere il loro «diritto di riserva» sulla «Germania come tutta», previsto dal trattato di pace stilato a suo tempo, per cercare di alzare il prezzo del loro riconoscimento al ritorno sulla scena di uno Stato unitario tedesco. Non poteva infatti bastare a Parigi e a Londra che Kohl avesse provveduto a dichiarare, sulla scia di quanto aveva espresso a suo tempo Thomas Mann, che non voleva assolutamente «unâEuropa tedesca» bensĂŹ «una Germania europea».
In questo complesso gioco delle parti Mitterrand aveva dalla sua piĂč attitudini personali e carte diplomatiche per trattare direttamente con Kohl, rispetto a Margaret Thatcher, a cui interessava soprattutto il mantenimento dei tradizionali «rapporti speciali» fra Londra e Washington (anche perchĂ© dava per scontato che lâEuropa sarebbe divenuta alla lunga «tedesca»). Del resto, per il presidente francese si trattava, se non voleva appunto che la Germania, una volta riunificata, alterasse i precedenti rapporti di forza con Parigi e finisse prima o poi per acquisire una posizione preminente, di legarla piĂč strettamente, e per tempo, al carro delle istituzioni europee: senza che per questo si dovesse modificare la configurazione a carattere intergovernativo della ComunitĂ .
In pratica, al punto in cui stavano le cose, era parso allâinquilino dellâEliseo che lâunica soluzione realistica, e insieme avveduta e conveniente in relazione agli specifici interessi francesi, consistesse nella rinuncia di Bonn al suo tanto amato deutsche mark, a favore di una costituenda moneta unica europea, quale contropartita per la riunificazione tedesca.
Dâaltronde Mitterrand aveva ben presente come la Francia avesse agito in base a un calcolo sostanzialmente analogo, quando sâera trattato di creare nel 1951 la ComunitĂ europea del carbone e dellâacciaio, antesignana della Cee. A quel tempo lâintento precipuo di Parigi era di far sĂŹ che la Germania non tornasse ad avvalersi in pieno dei giacimenti minerari della Ruhr, di quella ricca parte della Renania Vestfalia la cui sorte definitiva era rimasta in bilico dopo la cessazione delle ostilitĂ , in quanto Parigi aveva seguitato a chiedere, sino al dicembre 1948, di acquisirne metĂ del territorio. Di fatto, grazie alla creazione di un pool di produzione franco-tedesco, sotto lâegida di unâAlta AutoritĂ comune (ossia di unâistituzione fondata «non sulle parole ma sugli interessi», come aveva detto il ministro degli Esteri Robert Schuman), le imprese francesi avevano potuto avere libero accesso allâutilizzo delle risorse locali, in condizioni paritetiche a quelle delle aziende tedesche.
La Francia sâera cosĂŹ assicurata una leva indispensabile non solo per lo sviluppo della propria siderurgia, ma anche per impedire che la Krupp e la Thyssen riconquistassero una posizione dominante su scala europea in un settore industriale strategico. Inoltre, Parigi avrebbe avuto modo di tenere sotto osservazione le modalitĂ della ricostruzione economica tedesca, senza dare lâimpressione di una sua esplicita ingerenza. Tanto meglio perciĂČ, secondo il Quai dâOrsay, se altri paesi europei avessero partecipato a questâiniziativa (come avvenne con lâadesione di Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo), in quanto sarebbe stata pur sempre la Francia a fare da regista, dato che la Gran Bretagna aveva deciso di autoescludersi da tale intesa.
A quarantâanni di distanza dallâistituzione della Ceca, che aveva avuto per protagonista Jean Monnet, Mitterrand aveva perciĂČ provveduto a far valere soprattutto gli interessi nazionali francesi, in virtĂč di quello che era stato poi definito un «onesto baratto» fra lui e Kohl: ossia, lâabbandono obtorto collo, da parte della Germania, del suo «supermarco» in cambio del benestare di Parigi alla riunificazione tedesca. Da un lato, la Francia avrebbe potuto cosĂŹ registrare con sollievo il progressivo superamento di un sistema europeo di cambi fluttuanti, ovvero di un regime monetario ruotante intorno al marco e dominato dalla Bundesbank; dallâaltro, avrebbe continuato in pratica ad esercitare una funzione politica preminente nel quadro della ComunitĂ europea. Anche perchĂ© Londra, da quando sâera associata nel 1973 alla Cee, aveva sempre ritenuto che dovesse costituire soprattutto unâarea di libero scambio e non aveva comunque alcuna intenzione di far ingresso in unâunione monetaria immolando a tal fine la propria sterlina.
Che Mitterrand intendesse ribadire fin da subito la leadership della Francia, lo aveva confermato lâiniziativa da lui concepita per il varo di una «Confederazione europea» che avrebbe dovuto includere alcuni paesi ex comunisti dellâEst e avere Parigi quale loro interlocutore primario. Questo progetto non trovĂČ poi lâappoggio del presidente cecoslovacco VĂĄclav Havel, che Mitterrand aveva incontrato a Praga nel giugno 1991; mentre la Germania era stata pronta in quello stesso periodo a riconoscere per prima, e quindi ad avvantaggiarsene, i nuovi Stati sloveno e croato costituitisi in seguito allâincipiente disgregazione della Jugoslavia (che invece, secondo Bush, avrebbero dovuto entrare in unâarea di specifica influenza dellâItalia nella penisola balcanica).
A ogni modo, si era convinti a Parigi di avere in mano assai piĂč chances politiche e diplomatiche di qualsiasi altro partner per stabilire come e quando includere nella Ue alcuni paesi ex satelliti dellâUnione Sovietica. Senza peraltro che si dovesse modificare lâassetto di unâEuropa ancorchĂ© piĂč larga e articolata, in quanto restava fuori dalla visuale della classe dirigente francese la formazione di unâentitĂ politica di carattere federale. Tantomeno Mitterrand era dellâopinione, dopo la firma nel febbraio 1992 del Trattato di Maastricht, che lâunificazione monetaria, da tenere a battesimo nel giro di un quinquennio, dovesse costituire il preludio dellâunificazione politica, fra i paesi che avrebbero adottato lâeuro, attraverso una sequenza di tappe sempre piĂč ravvicinate.
Lâipoteca di Parigi sulla presidenza della Bce
AllâEliseo si era comunque preoccupati del fatto che il governo tedesco, per rivalersi del sacrificio del marco sullâaltare della riunificazione, intendesse dettare (tramite la Bundesbank) le regole del nuovo sistema monetario europeo. E che la Germania trovasse cosĂŹ il modo di acquisire un ruolo determinante.
Ă vero che il leader socialista francese era rimasto dello stesso avviso del generale de Gaulle: ossia, che lâeconomia avrebbe agito in conformitĂ alle direttive della politica, come una sorta di fureria nei riguardi dello stato maggiore dellâesercito. Ed era certo comprensibile che i tedeschi fossero pervasi, per via di quanto era avvenuto in Germania negli anni Trenta, dallâossessione di una reviviscenza dellâinflazione: tanto piĂč di fronte al notevole dispendio di risorse che richiedevano necessariamente il risanamento e lâintegrazione dei LĂ€nder tedesco-orientali.
Ma in Germania e altrove erano in molti a ritenere che lâunificazione monetaria fosse senzâaltro il prologo dellâunificazione politica: anche perchĂ© non esisteva da nessuna parte del mondo una banca centrale a cui non corrispondesse un soggetto politico statuale. A ogni modo, mentre il governo tedesco aveva rassicurato quello francese che lâunificazione monetaria avrebbe dovuto avere come suo focus precipuo la stabilitĂ dei prezzi, Mitterrand aveva continuato, per il resto, a non deflettere in alcun modo dallâindirizzo tradizionale dellâEliseo. PerciĂČ lâassetto della nuova Europa avrebbe dovuto restare imperniato su strutture intergovernative, rispetto a unâarchitettura di carattere federale.
Tantomeno sâera posto il problema di cambiare registro il suo successore, il neogaullista Jacques Chirac. Eletto di stretta misura nelle presidenziali del maggio 1995, era per di piĂč considerato da sempre un euroscettico. Comunque, dovendo tenere a bada entro le mura domestiche una sinistra in fase dâascesa e contraria alle misure finanziarie restrittive imposte dalla severa politica di bilancio contemplata dal Trattato di Maastricht, e allo stesso tempo non volendo lasciare del tutto mano libera alla Bundesbank nel percorso di marcia verso la moneta unica, il neo-presidente francese decise di porre sul tappeto a Bruxelles lâesigenza che si tenessero in debito conto determinate finalitĂ di carattere sociale.
Sebbene questa richiesta di Parigi, pur accolta in linea di massima da Kohl, non avesse poi trovato concreto riscontro (per le remore opposte dal ministro delle Finanze tedesco Theo Weigel) in un apposito «Patto per la crescita e lâoccupazione», da affiancare al «Patto di stabilità », Chirac non era rimasto a mani vuote. La sua sortita aveva fatto capire che la Francia non intendeva affatto disarmare. Del resto, anche Jacques Delors, che pure passava per uno strenuo fautore dellâintegrazione politica, in un suo scritto del 1988 aveva affermato che la creazione dellâEuropa era «un modo per recuperare lo spazio di manovra di cui ha bisogno una certa idea della Francia».
Sta di fatto che, al vertice di Dublino del dicembre 1996, i rappresentanti francesi, dando per sicuro che Parigi avrebbe centrato per prima (al pari di Berlino) i parametri di Maastricht, proposero che si sarebbe potuto consentire ai paesi membri in linea con tali clausole di sviluppare delle «cooperazioni rafforzate». Ma non giĂ perchĂ© agissero da apripista verso il traguardo dellâunificazione politica, bensĂŹ in funzione di un percorso a due velocitĂ , alla testa del quale procedessero la Francia e la Germania. E su questa ipotesi (che escludeva in pratica lâItalia, in quanto la sua ammissione alla moneta unica era ancora in forse) Chirac aveva trovato Kohl sostanzialmente dâaccordo.
SenonchĂ© il presidente francese aveva le sue brave gatte da pelare, dato che, in vista delle elezioni politiche in agenda nella primavera del 1997, doveva vedersela con una ripresa in forze del Partito socialista di Lionel Jospin (che in effetti sarebbe riuscito ad avere la meglio). Inoltre, a Parigi, numerosi osservatori ritenevano che i ministri economici tedeschi si comportassero da «primi della classe». E ciĂČ per la loro ostentata supponenza nei confronti degli orientamenti del governo Jospin (di cui facevano parte anche i comunisti di Robert Hue), che a Berlino venivano considerati il parto di un vetusto dirigismo, congenito peraltro a una tradizionale vocazione «étatiste» condivisa da larga parte della classe politica francese.
Si spiega pertanto come Chirac e Jospin volessero spiazzare la Bundesbank, puntando a insediare, quale primo presidente della Banca centrale europea, il governatore della Banca di Francia ed ex direttore del Tesoro Jean-Claude Trichet. Di qui la recisa opposizione di Berlino, schierata a favore della candidatura dellâolandese Wim Duisenberg. Ma se questi (giĂ a capo della Banca dei Regolamenti Internazionali), sostenuto dal presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer, era riuscito alla fine a spuntarla, era avvenuto in virtĂč di una soluzione propos...