IX. Ancora Crispi: dalla Sicilia ad Adua (1894-1896)
«Lâimpotenza e gli ardori»
La caduta del governo Giolitti fece risaltare ancora di piĂč il quadro di depressione economica e sociale in cui da tempo si dibatteva il paese. Il sistema del credito a pezzi, una grave crisi monetaria, il commercio e lâindustria stagnanti, i prezzi agricoli in caduta libera, la disoccupazione dilagante, i moti sociali che in Sicilia per la prima volta avevano assunto una sorta di connotazione politica di massa: tutti questi fattori avevano prodotto un diffuso allarme nella classe dirigente circa la tenuta del sistema nel suo complesso. Nel colloquio avuto con il Re Crispi tratteggiĂČ un quadro particolarmente fosco: «il paese Ăš scontento, scontento Ăš lâesercito [...]. Tutti vedono avvicinarsi la rivoluzione. A Milano parlano di repubblica cispadana, cioĂš di un governo locale, che sarebbe la rottura dellâunitĂ . A Torino non si discorre altrimenti».
Erano in molti a ritenere che il momento eccezionale richiedesse una risposta eccezionale, una risposta che non poteva fare affidamento sul Parlamento, ma sulle istituzioni non elettive e in particolare sul Re, che era responsabile «innanzi al Paese e [...] verso la sua dinastia. Ă una responsabilitĂ morale, la sua, ma che porta anchâessa le sue conseguenze». Su Umberto dunque si concentravano le aspettative di chi riteneva indispensabile uscire dalla crisi in tutti i modi, anche a discapito della correttezza costituzionale. GiĂ in altra occasione, secondo Farini, Crispi aveva definito il Re «un minchione che si lascia guidare da falsi scrupoli di costituzionalismo che andrebbero trascurati in un paese in formazione come il nostro».
Per rispettare questi scrupoli e le caratteristiche della maggioranza giolittiana alla Camera il Sovrano, ispirato da Sonnino, decise di affidare a Zanardelli lâincarico di formare il nuovo governo con lâintenzione tuttavia di renderne impossibile la concretizzazione. La maggior parte delle personalitĂ politiche contattate per la formazione del ministero si resero, su pressioni provenienti dalla corte, indisponibili. Non poteva essere infatti il deputato bresciano, con le sue tendenze liberali e le sue prospettive di riformismo avanzato, lâuomo incaricato di reprimere i disordini sociali e contemporaneamente introdurre nuovi indilazionabili prelievi fiscali. Alla difficoltĂ oggettiva di formare un equilibrato, e in quel frangente indispensabile, governo di coalizione, si aggiunse dunque la palese ostilitĂ della corte, che tra lâaltro non vedeva di buon occhio i sentimenti irredentisti che avevano ispirato lâindicazione del generale trentino Oreste Baratieri a ministro degli Esteri. «Riassumendo â scrisse sul suo diario lâaiutante di campo del Re, che aveva assistito ai convulsi andirivieni di quei giorni â il Re, data la situazione parlamentare, era stato obbligato ad offrire a Zanardelli la composizione di un nuovo Ministero ma fece di tutto perchĂ© non vi riuscisse: 1° PerchĂ© Zanardelli avrebbe fatto delle economie nellâesercito, ciĂČ che il Re non voleva. 2° PerchĂ© il Re voleva un gabinetto Crispi. PerciĂČ il Re di sottomano ostacolĂČ la formazione del gabinetto Zanardelli, facendo in modo che Baratieri non accettasse di essere Ministro degli Esteri [...]. Zanardelli capĂŹ la manovra del Re e quindi la sua riluttanza a deporre il mandato». Dopo aver costretto Zanardelli a rassegnare le dimissioni, Umberto potĂ© dunque incaricare formalmente Crispi: una scelta non solo imposta al Parlamento, ma dallâevidente connotazione anti-parlamentare.
Nonostante fosse implicato nelle vicende degli scandali bancari, Crispi tornava al potere con lâaureola del salvatore della patria e il suo esecutivo appariva a molti come lâunica possibilitĂ di investire il governo parlamentare dellâautoritĂ e del prestigio delle istituzioni «forti». Dal punto di vista politico si trattava di un governo composto prevalentemente da elementi di Centro e di Destra, con unâapertura allâEstrema (Maggiorino Ferraris alle Poste). Per sĂ© Crispi aveva riservato il ministero dellâInterno, affidando a Sonnino le Finanze e lâinterim del Tesoro.
Il Senato gli fu decisamente favorevole. Il suo ingresso, in occasione dellâesposizione del programma, il 20 dicembre, fu salutato da un applauso. «Parevano â commentĂČ Farini â degli impotenti che volessero tentare gli ardori della gioventĂč». Anche alla Camera, dâaltronde, aveva incontrato pochi ostacoli. Ottenuta unâampia fiducia, Crispi si mise al lavoro per realizzare unâopera di risanamento politico nazionale che avrebbe richiesto la cessazione di ogni conflitto politico intorno a lui.
Un segno eloquente veniva anche dal programma, sfrondato da ogni aspetto, compresa la politica estera, non strettamente connesso alle due grandi emergenze. La prima era quella del risanamento finanziario, che doveva proseguire su quei binari da cui, secondo Crispi, la Camera aveva improvvidamente distolto il suo precedente governo, cioĂš un aumento del prelievo fiscale. Il secondo nodo da sciogliere, su cui Crispi contava per imporre nuove tasse, era rappresentato dalla pericolosa evoluzione della «questione siciliana». Il problema delle dure condizioni dei contadini siciliani aveva prodotto unâesplosione sociale che non sorprese nessuno, se Ăš vero che Crispi, alla notizia dei moti scoppiati nellâisola, disse al Re che «i contadini in Sicilia non hanno tutto il torto». Tutto ciĂČ comunque, per il presidente del Consiglio, non doveva avere nulla a che fare con la formazione di organizzazioni politiche e di conseguenza, per quanto riguardava i Fasci, riteneva che le autorità «non dovevano farli costituire».
Crispi si preparava dunque ad un drastico regolamento di conti, chiedendo al Consiglio dei ministri, in caso di necessitĂ , lâautorizzazione a proclamare lo stato dâassedio in Sicilia. Da quel momento i disordini si moltiplicarono, divenendo sempre piĂč cruenti. Dalla seconda metĂ di dicembre ai primi giorni di gennaio si contarono tra i manifestanti ben 59 vittime e diverse decine di feriti, mentre tra i militari si ebbe un caduto. Nonostante il comitato centrale dei Fasci si pronunciasse contro lâinsurrezione invitando i lavoratori alla calma, la spirale delle violenze, cercata o meno dal governo («lo sappiamo tutti â disse Cavallotti alla Camera il 3 marzo 1894 â in che modi i governi possono far nascere tumulti, quando fanno loro bisogno per avere a disposizione leggi repressive»), facilitĂČ il disegno crispino di istituzionalizzare lâemergenza repressiva.
Il 2 gennaio 1894 il presidente del Consiglio fece firmare al Re il decreto di stato dâassedio, che implicava la soppressione delle garanzie statutarie e lâapplicazione del solo codice penale militare. Vennero sospese le libertĂ di stampa, riunione e associazione e sciolte le organizzazioni dei lavoratori. Furono inoltre spiccati 1962 mandati di cattura per gli ammoniti e per le persone indiziate di idee sovversive, a cui seguirono le condanne al domicilio coatto senza possibilitĂ di difesa. La maggior parte dei capi dei Fasci (compreso il deputato De Felice Giuffrida) venne arrestata e deferita ai tre tribunali di guerra. Il generale Morra, commissario con pieni poteri, dovette tuttavia riconoscere che il malcontento isolano era dovuto, piĂč che alla propaganda dei Fasci, alle condizioni di vita dei contadini. Nel frattempo nella Lunigiana un consistente nucleo di anarchici si era messo alla testa di violente dimostrazioni di solidarietĂ con i Fasci siciliani. Crispi considerĂČ questi ulteriori disordini, in cui ci furono morti e feriti, la riprova dellâesistenza di un piĂč vasto piano di insurrezione nazionale e dunque fece proclamare il 16 gennaio lo stato dâassedio anche per la zona di Massa Carrara.
Cresciuto alla scuola delle cospirazioni settarie, Crispi non poteva interpretare questi disordini come conflitti di classe, ma li riteneva essenzialmente attentati allâunitĂ del paese, ispirati dal Vaticano e alimentati da agenti francesi e russi. I deputati dellâEstrema furono gli unici ad attaccare il governo, non tanto, come disse Cavallotti, per lo «stato dâassedio in sĂ© e per sĂ© stesso», quanto per il fatto che «nelle circostanze e nel modo in cui fu adottato» esso si era trasformato in «qualche cosa di assolutamente nuovo nel diritto pubblico nostro», assumendo evidenti caratteristiche antiparlamentari. Uno degli attacchi piĂč veementi fu portato da Bovio: «Voi [...] cercate aprirvi la via sino alla domanda dei pieni poteri [...]. In voi câĂš tutto lâideale della libertĂ con tutta la tirannide dei mezzi».
Anche in Parlamento Crispi aveva dunque scelto di difendere la via a lui piĂč congeniale, quella della repressione, identificandosi in quel ruolo di uomo energico e autoritario a cui unicamente doveva ormai il ritorno sulla scena politica. Per lâaltro ruolo che Crispi si illudeva di poter giocare â quello del democratico dotato di carisma patriottico, nel cui nome chiedeva, senza ottenerla, la concessione di poteri straordinari per riordinare lâamministrazione pubblica â non câerano piĂč margini di manovra. Infatti se da una parte della barricata, come ricordĂČ Farini, câera «gente nuova [...] su cui non puĂČ esercitare influsso e che vuole quello che egli non vuole», dallâaltra parte la grande proprietĂ terriera respingeva quella riforma dei latifondi che Crispi pensava di poter far seguire alle repressioni, a riprova della sua volontĂ di completare la «rivoluzione borghese» cominciata con il Risorgimento. Furono infatti avanzati propositi di riforma dei patti agrari e progetti di legge che intendevano rispolverare la pratica dellâ«eversione» antifeudale mediante la parziale espropriazione dei latifondi, a favore di unâauspicata piccola proprietĂ contadina. Lâopposizione a tale riforma vide dalla stessa parte, sia pure con motivazioni diverse, la Destra rudiniana e lombarda, i radicali settentrionali e i socialisti (contrari alla piccola proprietĂ contadina) accomunati dallâostilitĂ al «feudalesimo statalista» e autoritario del presidente del Consiglio. Le resistenze manifestate in Parlamento contro il progetto di legge furono alla fine tali da farlo arenare, mentre la successiva prolungata stagione di chiusura del Parlamento gli diede il definitivo colpo di grazia.
La questione sociale continuava a rimanere per Crispi un problema sorto tra le pieghe del grandioso ma incompiuto processo risorgimentale, da risolversi con energici interventi dallâalto, che oltre a colpire le piĂč patenti sperequazioni sociali, come nel caso siciliano, dovevano supplire alle colpevoli disattenzioni della borghesia. Crispi era convinto di avere, «col riordinamento delle opere di beneficenza, preparata la soluzione del problema sociale». Turati, nellâaprile 1894, commentava che «in nessuna questione egli ha mai detto, allâinfuori dei luoghi comuni piĂč quarantotteschi, una parola che rivelasse una competenza qualsiasi; da tempo immemorabile non ha letto un libro scientifico»; sulla questione sociale in particolare, non faceva altro che proporre «come soluzioni le cucine economiche, i presepii, i catechismi ebdomadarii ed altre cosiffatte quisquilie».
Gran parte della classe dirigente sembrava comunque essersi aggrappata a Crispi come ad una scialuppa di salvataggio, su cui nessuno, perĂČ, era intenzionato a proseguire il viaggio una volta superato lo scoglio dellâemergenza. Per la Destra il piglio riformatore, il fiscalismo e il militarismo esasperati rappresentavano pericoli da scongiurare, mentre per i radicali e una parte della Sinistra le eventuali riforme non potevano essere disgiunte dalla difesa delle libertĂ costituzionali e parlamentari. In realtĂ il continuo riferimento, in Parlamento come nel paese, al tema della questione sociale e alla sua possibile «deg...