1.
Lâeconomia europea va male
perchĂ© câĂš lâeuro
Le faccende umane si trovano,
per unanime consenso, in uno stato deplorevole. Questa peraltro non Ăš
una novitĂ . Per quanto indietro si riesca
a guardare, esse sono state sempre
in uno stato deplorevole.
Carlo M. Cipolla
Un grande successo?
Il 2 giugno del 2008 â 105 giorni prima che, col collasso di Lehman Brothers, si aprisse ufficialmente la piĂč lunga crisi economica europea dopo la seconda guerra mondiale â lâallora presidente della Commissione, JosĂ© Manuel Barroso, celebrava il decimo anniversario della nascita della Banca centrale europea (BCE) con autentico entusiasmo. «La creaÂzione dellâeuro â affermava â Ăš stata un evento straordinario». Molte Cassandre avevano previsto che lâunione monetaria sarebbe stata un fallimento. Invece, scriveva Barroso, «un decennio piĂč tardi possiamo dichiarare orgogliosamente che lâeuro Ăš stato un grande successo».
E Barroso andava avanti elencando i benefici prodotti dallâeuro, capace di inaugurare un decennio di stabilitĂ nellâUnione Europea, di promuovere lâintegrazione finanziaria ed economica e la crescita dei commerci tra i paesi membri, con tassi di inflazione e di interesse bassi come non mai da almeno una generazione. Lâeuro, secondo il Barroso del giugno 2008, aveva contribuito a proteggere le economie europee da una serie di shock economici globali. Proprio agli inizi, gli shock erano arrivati dallo scoppio, nel corso del 2000, della bolla delle «dot.com», cioĂš la caduta improvvisa dei prezzi azionari delle imprese operanti nel settore internet, prezzi che erano saliti enormemente nei due anni precedenti. Poi câerano stati gli attacchi terroristici dellâ11 settembre 2001 negli Stati Uniti e gli aumenti dei prezzi del petrolio. Grazie alla stabilitĂ garantita dallâeuro, concludeva Barroso, nel primo decennio dellâUnione monetaria «Ú stato creato lo stupefacente numero di 16 milioni di posti di lavoro nellâArea euro. CioĂš 2 milioni piĂč che negli Stati Uniti e il triplo di quelli che erano stati creati nei dieci anni precedenti».
Alcuni puntini potrebbero essere messi sulle «i» del trionfalistico discorso di Barroso del 2008. Per esempio, Ăš vero che negli USA il tasso di crescita era sceso dal 4% del 2000 allo 0,9% del 2001 (lâanno degli attacchi), e nellâArea euro (Eurozona, EZ) la caduta era stata dal 3,9% al 2%. In altri termini, il tasso di crescita negli USA era crollato del 75% mentre nellâEZ si era «solo» dimezzato. Negli anni successivi, perĂČ, la crescita americana era rimbalzata oltre il 3% nel 2004 e nel 2005, mentre quella dellâEurozona era scesa nel 2002 e 2003 (0,9% e 0,6% rispettivamente), per poi stagnare intorno o sotto il 2% nel 2004 e 2005. Insomma, che lo shock delle Torri gemelle colpisse piĂč gli Stati Uniti dellâEuropa era abbastanza scontato, ma il fatto che negli anni successivi sembra averne risentito piĂč lâArea euro degli USA non puĂČ essere taciuto.
Qualche altro «puntino sulle i» riguarda la qualitĂ e la distribuzione tra paesi di quei 16 milioni di posti di lavoro creaÂti. Che rappresentano un piĂč 11,5% rispetto al 1999. Quasi 5,5 milioni di posti di lavoro (il 38% del totale) erano stati creati nella sola Spagna, il paese dellâEZ capace di crescere di piĂč tra 1999 e 2007 (quasi del 4% medio allâanno, contro un 2,3% dellâArea). Non stupisce che in quel periodo la Spagna abbia visto crescere di piĂč i posti di lavoro. Semmai stupisce la dimensione della crescita (34% in otto anni, oltre il 4% allâanno). Ma oggi sappiamo che la crescita spagnola di quegli anni era gonfiata da una eccezionale bolla immobiliare e che il settore delle costruzioni edili ha, ovunque, una elevata intensitĂ di lavoro.
Un altro problema viene fuori se si guarda alla produttivitĂ . Ci sono tanti modi per misurarla; uno dei piĂč utilizzati Ăš il prodotto interno lordo (PIL) per occupato, cioĂš quanto produce ogni individuo che effettivamente lavora. Guardando a questa misura, scopriamo che la produttivitĂ Ăš aumentata nellâEurozona dellâ8,6% tra il 1999 e il 2007, circa lâ1% allâanno. In Spagna perĂČ solo dello 0,5% annuo. Insomma, la produttivitĂ Ăš cresciuta molto poco nellâArea euro e in Spagna ancora di meno della media, proprio perchĂ© i posti di lavoro in quel paese sono stati creati soprattutto nellâedilizia. Nel complesso dellâEurozona, poi, la produttivitĂ era cresciuta molto meno che negli USA, rimasti il motore dellâinnovazione tecnologica e finanziaria.
Tirando le somme, lâeuro sembra non sia stato decisivo per la crescita dellâeconomia del gruppo di paesi che lo avevano adottato come moneta comune, nĂ© in senso positivo nĂ© in senso negativo. Se lâItalia ha rallentato la crescita in concomitanza con lâingresso nellâeuro non Ăš colpa dellâeuro, visto che altri paesi non hanno rallentato o addirittura hanno accelerato. Si Ăš detto che la produttivitĂ era cresciuta poco, meno che negli USA. Ma ci si dovrebbe chiedere cosa câentri la moneta con la crescita della produttivitĂ . Sarebbe cresciuta di piĂč se avessimo ancora utilizzato lire, franchi, marchi e pesetas?
Non câĂš motivo, perchĂ© sono il progresso tecnico, i miglioramenti organizzativi e il peso crescente di settori ad elevata tecnologia a fare aumentare la produttivitĂ : nulla di tutto ciĂČ dipende dal fatto che circoli una valuta comune o tante valute nazionali. In Italia, per esempio, lâindustria informatica era sparita tra 1996 e 1997, con lâuscita dellâOlivetti dalla produzione di computer. Lo sgretolamento delle grandi imprese chimiche italiane era iniziato verso la metĂ degli anni Sessanta; nel 2002 erano quasi scomparse. Nellâelettronica di consumo, di cui gli italiani sono vigorosi acquirenti, le imprese italiane sono praticamente assenti giĂ dalla metĂ degli anni Ottanta del secolo scorso. E la presenza di imprese italiane nellâhi-tech si era andata assottigliando negli anni Ottanta e Novanta. Quindi lâindebolimento dellâItalia nei settori a piĂč alta intensitĂ di tecnologia e di innovazione era avvenuto ben prima dellâadozione dellâeuro. Nel primo decennio dellâeuro, in Italia sono cresciuti sia il capitale che il lavoro (come normale), ma Ăš lâefficienza con cui questi due fattori produttivi vengono utilizzati ad essere diminuita. Si Ăš avuta e perpetuata, insomma, una cattiva allocazione del capitale e del lavoro tra i diversi possibili usi. Non si tratta di una conseguenza della scarsa flessibilitĂ del mercato del lavoro (come pure alcuni hanno pensato e scritto), dal momento che tutti gli indicatori ci dicono che la flessibilitĂ del lavoro Ăš aumentata notevolmente nei primi anni Duemila, proprio mentre la produttivitĂ cominciava a stagnare o addirittura a diminuire. Approfondiremo la questione nel capitolo 4.
I veri meriti dellâeuro
La moneta unica era stata fondata con gli obiettivi della bassa inflazione e dellâintegrazione finanziaria. Lâobiettivo di unâinflazione inferiore ma vicina al 2% se lo Ăš dato la BCE, ma certo era stato iscritto nei geni dellâeuro fin dalla definizione dei criteri di accesso alla moneta unica, con il Trattato di Maastricht. La stessa indipendenza della BCE â garantita dai trattati â Ăš finalizzata a isolare la Banca centrale dalla «domanda di inflazione» che potrebbero esercitare i governi nazionali, interessati a ridurre il valore reale del loro debito pubblico. Dâaltra parte, una bassa inflazione era ritenuta necessaria a mantenere o aumentare la competitivitĂ delle merci europee sui mercati internazionali, senza indebolire la valuta (se il pane costa 1 euro in Eurolandia e 1 dollaro negli USA e il tasso di cambio Ăš e rimane 1 dollaro per un euro, con unâinflazione annua del 2% in EZ e del 3% negli USA, il pane europeo dopo un anno costerĂ meno del pane americano).
Nel suo primo decennio di vita, lâUnione monetaria ha mantenuto la promessa di inflazione media intorno al 2%, con una significativa riduzione della sua variabilitĂ tra i paesi aderenti. Tuttavia, va ricordato che lâinflazione nellâEurozona si era giĂ molto ridotta negli anni Novanta, anche per lo sforzo messo in campo dai paesi a piĂč alta inflazione (come Italia, Portogallo, Spagna e Grecia) di soddisfare i criteri di Maastricht ed entrare nellâeuro. E va detto anche che, tra 1999 e 2008, la stabilitĂ dei prezzi non Ăš stata una prerogativa dellâEZ. Solo pochi decimi di punto in piĂč o in meno separavano lâinflazione dellâEurozona da quella degli Stati Uniti o di altri paesi dellâUnione Europea che non avevano adottato lâeuro. Dunque, non Ăš scontato attribuire alla moneta unica il merito di aver ridotto lâinflazione. Anche perchĂ©, se guardiamo allâinterno dellâEurozona, fino al 2007 i vari paesi rivelano tassi di inflazione abbastanza differenziati, con i paesi del Nord (Germania, Austria, Olanda, Finlandia, ecc.) che hanno prezzi crescenti molto piĂč lentamente rispetto ai paesi del Sud (Spagna, Portogallo, Grecia, in misura minore Italia) e ai paesi dellâEst (Slovacchia, Estonia, Slovenia). E, come diremo tra poco, questi divari hanno avuto conseguenze sulla competitivitĂ e sui conti con lâestero dei diversi paesi dellâArea.
Fino allo scoppio della crisi nel 2008, lâintegrazione finanziaria Ăš stata certamente il maggior successo seguito allâintroduzione dellâeuro. Uno degli obiettivi della creazione di una moneta unica in Europa era la mobilitĂ delle risorse finanziarie, grazie alla scomparsa dei rischi connessi ai tassi di cambio tra le valute. Al venir meno di questo rischio si sarebbe dovuta accompagnare una drastica riduzione del differenziale (spread) tra i tassi di interesse pagati dalle imprese (e dagli Stati) in diversi paesi. Il che doveva garantire una corretta e uniforme trasmissione della politica monetaria comune in tutti i paesi dellâArea. In poche parole, la politica monetaria consiste nel fissare il tasso di interesse che la Banca centrale fa pagare alle banche di tutti i paesi per fornire loro la liquiditĂ . Non si puĂČ parlare di vera politica monetaria comune se allâunico tasso di interesse di policy corrisponde un ventaglio ampio di tassi sui prestiti a medio e lungo termine nei vari paesi e se, a fronte di variazioni del tasso fissato dalla Banca centrale, le variazioni dei tassi di mercato nei vari paesi sono molto differenziate. Ă come se, a un colpo di acceleratore o di freno, le ruote di unâauto cambiassero velocitĂ in modo diverso: lâauto sbanderebbe pericolosamente. Inoltre, grazie allâintegrazione finanziaria, i capitali dovrebbero muoversi facilmente da dove ce nâĂš in eccesso (e quindi rendono poco) a dove mancano (e perciĂČ rendono di piĂč). Questi movimenti dovrebbero consentire una maggiore e piĂč equilibrata crescita economica per tutti i paesi dellâUnione monetaria.
Il successo dellâintegrazione finanziaria cominciĂČ a manifestarsi subito, pochi giorni dopo lâavvio della moneta unica. Ci fu una rapida convergenza tra i tassi ai quali le banche dei diversi paesi si prestano soldi tra loro a breve o brevissimo termine (i cosiddetti tassi interbancari). Convergenza che si estese presto ai tassi sui titoli di Stato a scadenze piĂč lunghe, tanto che si parlĂČ dellâavvio di un mercato unico dei titoli di Stato, che pure continuavano ad essere emessi autonomamente dai diversi paesi. Oltre al rischio di cambio, sembrava essere destinato a scomparire anche il rischio di credito legato alla sostenibilitĂ del debito pubblico dei diversi paesi. Tanto che si arrivĂČ a dire, sempre piĂč frequentemente, che i titoli pubblici erano da considerarsi tutti privi di rischio, indipendentemente dal paese che li aveva emessi. E ciĂČ nonostante il livello del debito pubblico in rapporto al PIL (che misura la capacitĂ di ripagare il debito di ogni singolo paese) fosse assai diverso in Germania, in Italia o in Grecia e a Cipro. Addirittura, nel 2007, i tassi sui titoli pubblici decennali erano compresi tra il minimo tedesco del 4,15% e il massimo cipriota del 4,47%: 30 punti base (ovvero lo 0,3%) di differenza. E poi câera stato il progressivo sviluppo di un mercato europeo delle obbligazioni e lâintegrazione di alcune «infrastrutture» che sorreggono i mercati azionari (acquisizione di Borsa italiana da parte del London Stock Exchange, sviluppo di Deutsche Bourse, ecc.). Tuttavia non câera (e ancora non câĂš) una vera «piazza» borsistica europea come Ăš New York per gli Stati Uniti. E la piĂč importante Borsa europea sta a Londra, la capitale di un paese fuori dallâEurozona e che ha scelto anche di uscire dallâUnione.
Il settore bancario Ăš rimasto molto piĂč indietro nellâintegrazione, soprattutto la sua parte squisitamente commerciale, piĂč legata al territorio. Inoltre, le banche erano sottoposte a vigilanza nazionale (fino al 2014) e a condizionamenti politici anchâessi nazionali, quando non locali. In altri termini, allâunione monetaria non si era accompagnata lâunione bancaria, con conseguenze molto gravi, quando nel 2007-2008 scoppiĂČ la crisi. Ma qualche passo era stato compiuto. Tra 1999 e 2008, vi sono state parecchie fusioni tra banche di diversa «nazionalità », specialmente nel Nord Europa e nel Benelux, e acquisizioni di banche estere (specie dellâEst Europa) da parte di grandi gruppi come lâitaliano Unicredit e lo spagnolo Santander. Le banche tedesche e francesi avevano investito parecchi capitali nellâacquisto di titoli pubblici di altri paesi (Grecia, Spagna, Portogallo, Italia) che rendevano marginalmente di piĂč di quelli nazionali e avevano prestato molti soldi alle banche dei paesi del Sud Europa che, a loro volta, finanziavano i loro boom immobiliari nazionali. E questo doveva diventare il tallone dâAchille dellâeuro.
Gli squilibri dietro le quinte
Si Ăš detto che uno dei piĂč importanti «dividendi» dellâeuro Ăš stata la sostanziale riduzione dei tassi di interesse sia a breve che a lungo nei paesi che venivano da una storia di inflazione alta e di elevato debito pubblico. Per un paese come lâItalia, in cui il rapporto tra debito e PIL era sĂŹ sceso di oltre 20 punti dal 1994 al 2004, ma era comunque rimasto sopra al 100% (99,7% solo nel 2004 e 2007), si Ăš trattato di un beneficio notevole. Il deficit primario di bilancio Ăš la differenza tra entrate pubbliche e spese, una volta tolta la spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico esistente. Per ottenere una riduzione del rapporto debito/PIL, a paritĂ di altre condizioni, Ăš necessario un avanzo primario di bilancio (ovvero lâopposto di un deficit) tanto piĂč grande quanto piĂč alto Ăš il tasso di interesse che lo Stato deve pagare sul debito contratto. Con la riduzione dei tassi permessa dallâavvio dellâeuro, gli avanzi primari necessari a proseguire sulla strada della riduzione del rapporto debito/PIL diventavano quindi piĂč piccoli; il che voleva dire che sarebbe stato possibile ridurre la pressione fiscale e/o aumentare la qualitĂ e la quantitĂ dei servizi offerti ai cittadini tramite la spesa pubblica. Se ciĂČ non Ăš avvenuto o non Ăš avvenuto a sufficienza, tra il 2002 e il 2007, non Ăš certo colpa dellâeuro o di Bruxelles. Un altro beneficio atteso dalla riduzione dei tassi era il rilancio della spesa per investimenti privati, per lâinnovazione e, quindi, lâammodernamento dellâindustria e dei servizi, soprattutto nei paesi del Sud Europa, Italia compresa (piĂč bassi sono i tassi e minore Ăš il costo da sostenere per finanziare gli investimenti). In effetti, un aumento della spesa per investimenti câĂš stata fino al 2007, ma proprio nei paesi del Sud Europa ha preso principalmente la strada degli investimenti immobiliari, dove i tassi bassi alimentavano la domanda e questa faceva crescere i valori, il che attirava nuovi investimenti, in una spirale molto simile a una tipica «bolla». I soldi vanno dove rendono di piĂč e in quegli anni, nel Sud Europa e in Irlanda, il mattone rendeva molto bene.
Lâaccresciuta integrazione finanziaria ha consentito, nel primo decennio dellâeuro, di finanziare i crescenti deficit di partite correnti dei paesi del Sud Europa. Quello delle partite correnti Ăš un bilancio che registra importazioni ed esportazioni di beni e servizi e movimenti di reddito come i trasferimenti dei migranti. Tutte le somme che entrano nel paese (per esportazioni e redditi dallâestero) compaiono nel conto col segno piĂč; quelle che escono (per importazioni e trasferimenti allâestero) compaiono col segno meno. Se le somme che escono sono maggiori di quelle che entrano câĂš un deficit. E i deficit dei paesi del Sud EZ si ampliarono notevolmente proprio dopo lâavvio dellâeuro e fino al 2008. I paesi del Nord dellâEurozona â qualche volta chiamati core, a indicare che sono il nucleo, il nocciolo duro dellâArea â avevano, tutti insieme, un surplus di partite correnti di 14,5 miliardi nel 2000, arrivato a 311 miliardi nel 2007 (236 nel 2008). I paesi del Sud â che nel gergo comune includono lâIrlanda e per i quali Ăš invalso lâuso dellâacronimo PIIGS â nel frattempo passavano da un passivo complessivo di 51 miliardi nel 2000 a uno di 317 miliardi nel 2008.
Ogni deficit di parte corrente significa che il paese spende (per consumi, per investimenti, per opere e servizi pubblici) piĂč di quanto produca allâinterno. Questo eccesso della spesa sulle risorse disponibili allâinterno di un paese Ăš possibile solo se quel che manca arriva dallâestero. A fornire le risorse mancanti non possono che essere i paesi che spendono meno rispetto alle risorse che producono, quindi i paesi con surplus di partite correnti. E cosĂŹ Ăš successo in Europa e, in particolare, nellâEurozona. I risparmi dei paesi del Nord, in surplus di partite correnti, hanno finanziato le spese «in eccesso» dei paesi del Sud. Gli squilibri di partite correnti lasciano anche una pesante ereditĂ , dal momento che ad ogni passivo corrisponde un aumento dellâindebitamento finanziario v...