Il racconto del mito
LâAde
Scendere allâAde è un bellâimpegno. Certo non è cosa da tutti. I miti e i poeti antichi lo sanno dire in molti modi. Ă un luogo altro nel cosmo, il piĂš lontano possibile da tutto ciò che conosciamo. Sta in un altrove per definizione, con tante potenzialitĂ che resteranno, perfino egualitarie e democratiche. Lo chiamiamo per questo lâaltro mondo, che per noi suona, ovviamente, abbastanza sinistro. Ma era cosĂŹ anche per gli antichi, non è un gran bel posto. Ci incuriosisce, ci affascina, ma soprattutto ci spaventa.
La geografia mitica lâaltro mondo lo colloca agli estremi margini della terra, allâultimo confine dellâOceano: è il luogo dove ci sono le porte famose sulle quali si incontrano il giorno e la notte. In tutte le nostre rappresentazioni, senza preoccupazioni di contraddirci, può stare però piĂš facilmente anche sotto terra e piĂš in lĂ ancora, nel profondo dellâabisso: qui si arriva giĂš giĂš fino al Tartaro, che, come lo chiama qualche amico filologo, è la prigione di massima sicurezza di Crono e dei Titani, fatta apposta per i nemici di Zeus e degli dèi olimpi. Da qui non si esce proprio piĂš. Il viaggio è ancora piĂš impegnativo: unâincudine che precipitasse nel vuoto ci impiegherebbe nove giorni e nove notti per arrivarci. Insomma, questo è il regno dei morti, il grande dominio di Plutone o Aidoneo, o noi diciamo piĂš semplicemente di Ade. Qui è la sua reggia, che non è da meno di quella del fratello Zeus. E anche il suo potere non è meno temibile. Con questo mondo non câè da scherzare.
Per noi mortali arrivare qui è sicuramente il viaggio piĂš difficile, o meglio quello piĂš brutto. Lo dice proprio Eracle, quando vede arrivare Ulisse, nei celebri versi di Omero che rappresentano lâinvestitura, il riconoscimento del piĂš grande di tutti gli eroi greci per il protagonista di una nuova catabasi. Tra tutte le sue fatiche non câè stato mai nulla di piĂš duro di questo, della discesa agli inferi. E poi lo ripete spesso, in ogni occasione, magari per vantarsi. Questa è lâimpresa per gli eroi piĂš grandi, nel curriculum non manca mai se si vuole essere qualcuno.
Chiaramente è lâAde il luogo dove tutti dobbiamo finire, e, almeno come sappiamo dai paradossi dellâimpresa eroica di Dioniso e di Xantia nelle Rane di Aristofane, arrivarci in sĂŠ potrebbe essere facile. Le vie sono innumerevoli, ma quello che conta è che basta morire: per far prima, cosĂŹ recita beffardamente la commedia, si può usare uno sgabello e una corda. Certo sembra di soffocare. Oppure una via piuttosto rapida e ben battuta è quella del mortaio per pestare la cicuta. Ti viene freddo alle gambe, ma funziona. AndrĂ bene anche per i filosofi. O ancora, una buona via in discesa è quella di buttarsi giĂš da una torre, anche se ti riduci in polpette. Naturalmente bisogna avere un doppio obolo per pagare il traghetto. Altrimenti dicono che non si passa. Potrebbe essere un vantaggio.
Il difficile è, però, andarci da vivi, e soprattutto poi bisogna trovare la via del ritorno. Per arrivare tra i morti Ulisse, che è il nostro primo e piĂš importante testimone, deve compiere un viaggio per mare, fino alle estreme correnti dellâOceano, verso lâignoto. Ci vollero le utili istruzioni di Circe, una dea, soprattutto una maga molto esperta, per arrivarci. E poi ci vuole di solito anche una guida. Perfino Ulisse ne sente il bisogno. Ă costretto a farne a meno, ma rimane poi tra le dotazioni dei viaggiatori futuri.
La geografia mitica lâaltro mondo lo colloca agli estremi margini della terra, allâultimo confine dellâOceano: è il luogo dove ci sono le porte famose sulle quali si incontrano il giorno e la notte. In tutte le nostre rappresentazioni, senza preoccupazioni di contraddirci, può stare però piĂš facilmente anche sotto terra e piĂš in lĂ ancora, nel profondo dellâabisso: qui si arriva giĂš giĂš fino al Tartaro, che, come lo chiama qualche amico filologo, è la prigione di massima sicurezza di Crono e dei Titani, fatta apposta per i nemici di Zeus e degli dèi olimpi.
Facile tutto sommato è scendere. Lâabbiamo detto. Ma il problema è ritornare alla luce. PerchĂŠ questo è un paese senza ritorno, di qui non câè nessun nostos. Ecco quello che succede. LâAde allâarrivo ha delle porte grandi, larghissime, ma diventa immediatamente pylartes, ovvero âche tiene le porte ben serrateâ, giusto una volta che sei entrato: lo dice perfino Zeus, che non ha problemi come noi, non câè nulla di piĂš odioso delle porte di Ade. Una volta che le hai superate si chiudono per sempre. Cioè sei morto. E poi câè Cerbero, che agisce secondo lo stesso principio e lo rende piĂš vero: il cane mostruoso scodinzola quando arrivi, ti fa quasi le feste, ma se tenti di fare il percorso in senso contrario si scatena con le sue tre, cinquanta, cento bocche, coi suoi latrati spaventosi, che rimbombano piĂš terribili negli antri vuoti e neri dellâaltro mondo.
Ă successo qualche rara volta che qualcuno sia tornato. Magari per un solo giorno come Protesilao, che vuole rivedere la giovane sposa Laodamia: è morto a Troia, appena sbarcato. Non ha fatto in tempo nemmeno a capire che cosâera la guerra. Orfeo con il potere straordinario della sua musica prova a riportare alla vita Euridice. Ma poi fallisce come un principiante. Câè riuscito bene Eracle, per la storia di Cerbero. E poi gli va bene anche con Alcesti, per fare un favore allâamico Admeto. Ulisse e Teseo, ormai lo possiamo dire, ci riescono seguendo le tracce di Eracle. Anche lâEnea di Virgilio non manca di fare tappa tra i morti, per poi trovare una nuova patria. Infine câè il caso speciale di Castore e Polluce, che vanno e vengono a giorni alterni, come sa spiegare Pindaro. Ma câè anche il mito platonico di Er, e poi ci sono i racconti satirici di Luciano di Samosata, tra i Dialoghi dei morti, il Cataplus e la Negromanzia. Menippo fa la sua esplorazione mettendo insieme le virtĂš di Eracle, Orfeo e Ulisse, e, meglio di tutti, con un banale espediente, ritorna senza troppi problemi sulla terra. Gli effetti li vediamo e sono notevoli. Ma lâidea fondamentale è che dallâAde di regola non vi è ritorno alla vita. Il confine tra i morti e i vivi è naturalmente inviolabile. Anzi, dellâAldilĂ â nonostante le molte credenze in proposito â nessuno può neppure avere notizia. In sostanza non ne sappiamo niente, quello che raccontiamo sono probabilmente solo invenzioni dei poeti.
A questo punto immaginiamoci una scenografia dellâAde. Ulisse attraversa lâOceano. Naviga sulle correnti finchĂŠ la luce del sole scompare: tutto è buio nella terra dei Cimmeri, dove si trova uno degli accessi per lâAldilĂ . Ogni cosa è avvolta di caligine e di nuvole. Qui il sole non sorge e non tramonta, ma vi è una perenne notte funesta. Come se Omero avesse visto le terre dellâestremo nord quando non si leva mai la luce. Il buio del regno dei morti fa impressione, ma poi in fin dei conti tornerĂ utile. Ha anche qualcosa di utopico nella sua dimensione egualitaria.
Chi vuole intraprendere la catabasi dovrĂ arrivare al lido basso e desolato, dove subito si viene invasi da una sensazione di tristezza e di nostalgia: lĂ câè il bosco pallido di Persefone, con gli alti pioppi bianchi e i salici che perdono i frutti. Si aprono qui gli antri senza fondo delle dimore di Ade. Scorrono i fiumi infernali, lâAcheronte, il Piriflegetonte, il Cocito, che è un ramo dellâacqua sacra dello Stige. Si leva una rupe dove si scontrano tuonando le correnti nere e tumultuose.
Nellâimmaginario, sullâAcheronte o sulla piĂš ampia e placida palude, melmosa e putrida, sta il traghetto di Caronte, naturalmente con lâimbarcadero e con tutte le fermate, per dirla con Aristofane, tra il Ristoro dagli affanni, la Piana del Lete, Tosalasino, Cerberii, la stazione della Malora, il Tenaro. Poi una volta sbarcati ci sono i giudici, Eaco, Radamanti, Minosse, con il corteggio delle Erinni e di altri mostri utili a sbrigare le questioni della giustizia. E naturalmente ci sono i sovrani di tutto il regno, Ade e Persefone.
Col tempo le cose cambiano un poâ, ma altre rimangono. Almeno lâimmagine dei grandi dannati resterĂ sempre la stessa. PerchĂŠ la loro figura, le loro pene sono il simbolo stesso dellâAldilĂ .
Va detto, câè anche il luogo dei beati. A volte è un altrove collocato ben lontano da qui. Fin dai versi di Esiodo si parla delle Isole dei Beati. O anche di un Elisio. Tutti coloro che in vita sono stati pii e giusti vengono premiati e stanno in un luogo felice. Vâè tutto quello che può fare la felicitĂ . Le belle stagioni portano frutti di ogni sorta e in grande abbondanza. Vi sono sorgenti dâacqua pura. Bellissimi prati perennemente primaverili. Non ci sono gli eccessi del freddo e del caldo, non câè inverno, non câè estate, ma spira una dolce brezza e ovunque una tenue gradevole luce. Si passa il tempo tra le conversazioni dei filosofi, gli spettacoli dei poeti, le danze circolari, le musiche dolcissime, i canti e i banchetti armoniosi, le vivande che da sole, automata, si imbandiscono sulle tavole, senza fatica e senza spesa. Non ci sono dolori e sofferenze, ma solo piacere e gioia.
Ma a noi interessa il luogo degli empi. Può essere piĂš o meno affollato. Per Omero senza troppe distinzioni di spazio e di ordine rispetto agli altri eroi, ci sono nella parte dei dannati solo Tizio, Tantalo e Sisifo. Poi spesso la scena si arricchisce di Issione e delle Danaidi. PiĂš tardi, con Virgilio e la catabasi di Enea, il luogo degli empi diviene piuttosto affollato. Ă comprensibile. Certo con la folla si perde un poâ il senso del paradigma, ha bisogno sempre piĂš di essere dichiarato, ma lo spettacolo è notevole. A cominciare dai suoni: gemiti strazianti, che fanno paura piĂš che compassione, perchĂŠ ormai non hanno piĂš niente di umano, crudeli percosse, stridore di ferro, catene trascinate che lasciano intuire le macchine della tortura. Il carcere e i tormenti li dirige Tisifone.
Ma veniamo alle motivazioni. PerchĂŠ scendere nellâaltro mondo da vivi? Eroi, poeti e anche qualche filosofo, tutti devono fare i conti con questa domanda. Ci sono di mezzo la veritĂ , la conoscenza, e il nostro paradigma spettacolare, i grandi dannati câentrano da vicino con questa domanda. Forse si scende nellâAldilĂ proprio per vedere lo spettacolo delle loro torture. Spiegano in maniera chiara qualche veritĂ che sulla terra non riusciamo a capire. Insomma, abbiamo bisogno di sapere.
Per Omero senza troppe distinzioni di spazio e di ordine rispetto agli altri eroi, ci sono nella parte dei dannati solo Tizio, Tantalo e Sisifo. Poi spesso la scena si arricchisce di Issione e delle Danaidi. PiĂš tardi, con Virgilio e la catabasi di Enea, il luogo degli empi diviene piuttosto affollato.
La causa del viaggio, ragione della grande impresa sta sempre allora in questo: si arriva allâAde alla ricerca di una risposta a un dubbio, a una aporia. La parola Aletheia, ossia la veritĂ , è presente dappertutto. SullâAde e sullâacqua dello Stige giurano gli dèi e gli uomini. Si sa, a questo giuramento non si può sfuggire. La menzogna qui è bandita. Quando si superano lâAcheronte e il Cocito si giunge nella pianura della veritĂ . Se ci fosse un cartello sarebbe scritto Pian del Vero. Ă il luogo del giudizio. Qui ci sono i giudici Minosse e Radamanti, e non è assolutamente possibile sfuggire al loro esame, vedono tutto. Neppure le arti retoriche servono a qualcosa, sebbene non siano cosa disprezzabile neanche qui.
Ripensiamo a Ulisse, e con lui a tutti gli altri che sono arrivati quaggiĂš. Proprio questo è il senso del viaggio, lâeroe deve conoscere la veritĂ sul suo destino. E anche qualcosa di piĂš. Chi sulla terra vuole capire, chi vuole sapere il senso delle cose, deve percorrere altre vie, altri sentieri. Ă lâalteritĂ che è importante. LâAde è il luogo per imparare qualcosa della veritĂ . Questa, allora, è lâinchiesta che rimane a Ulisse per poter finalmente tornare in patria. Se ne ricorderĂ il Menippo di Luciano per la veritĂ della satira. Per Tiresia, il celebre indovino che nellâAldilĂ ti dice quello che ti serve, si insiste proprio su questo: è la persona giusta, che ha i pensieri a posto, ben saldi anche dopo la morte, è lâunico in grado di dire la veritĂ . Solo lui può dare a Ulisse, come a qualsiasi altro, le risposte alle domande che contano: egli è lâeroe del nostos, ciò che gli serve conoscere è la via, la lunghezza del viaggio, come riuscirĂ a ritornare. VerrĂ a sapere anche di piĂš di quello che cercava.
Allora si scende nellâAldilĂ per vedere, per conoscere e per poi raccontare. Questo lo dice bene giĂ Omero. Quelli che vengono dopo imparano. Come per Ulisse, anche per il filosofo Parmenide è la ricerca della veritĂ ciò che interessa. Vale lo stesso per il mito di Er, a nome di Socrate e di Platone. Il soldato che tutti credevano morto ha visto la piana della veritĂ , ha visto quello che succede agli uomini, alle loro anime, alle loro vite. E anche il Menippo di Luciano, secoli dopo, scenderĂ nellâAldilĂ per trovare le risposte alle sue aporie insolubili sulla terra. Se ne torna con qualche veritĂ semplice e preziosa, che serve per la vita.
A spiegare comâè fatto questo luogo di veritĂ si può allora riprendere lâetimologia fantasiosa, ma per lâappunto a suo modo veritiera, del Cratilo di Platone. Il nome di Ade non viene dallâinvisibile (aides), ma dalla possibilitĂ di vedere e di conoscere (eidenai). Questo è proprio il senso dello spettacolo. La lunga teoria dei morti, la serie straordinaria degli incontri diviene esperienza, diviene il fondamento della conoscenza. Come possibilitĂ eccezionale che in altro modo non è data. Per questo, come potremo verificare anche nel buio dellâAldilĂ , il verbo del vedere, il bellâaoristo di eidon, si trasforma in modulo formulare che dĂ il senso a tutto il percorso. Ă in sĂŠ un paradosso, ma è cosĂŹ. Uno schema che ritorna nella storia millenaria delle discese agli inferi. Lâobiettivo fondamentale del viaggio sembra essere proprio lo spettacolo eccezionale dei grandi dannati. Bastano anche i tre di Omero. Intanto riconosci il luogo e sai subito dove ti trovi. Ma soprattutto è il monito che funziona, è la potenza della metonimia: anche con la semplice immagine di un supplizio si impara subito e, per sempre, cosa significa vivere sulla terra, quello che si può fare e quello che è meglio non fare.
Sisifo. Una pena spettacolare
La storia comincia per noi da Omero. Ma è sicuramente piÚ antica.
Sono paradigmi. I grandi dannati sono lĂŹ per sempre. Sono lo spettacolo ultimo dellâultimo viaggio. GiĂ forse nelle mitologie dâoriente: anche Gilgamesh li aveva visti molto tempo prima. Al fondo del viaggio nellâAldilĂ Ulisse, che qui fa da esploratore per tutti, vede lui: Sisifo.
Ă uno spettacolo, inquietante, tremendo, faticoso anche alla vista, che si impone nelle formule come sulla pietra calcarea dellâHeraion del Sele. Ă lĂŹ per sempre. Sappiamo che quella di Sisifo è una storia che parla delle cose piĂš importanti e difficili, ci ricorda qualcosa che vale per tutti: è lo scontro destinato alla sconfitta per ogni uomo, quello con la morte. Ma quello che vediamo con gli occhi di Ulisse è altro. Ă tutta forza visiva ed esemplare nellâiterazione che sta in quel verbo degli occhi che rimarrĂ per sempre in questa esperienza del viaggio oltremondano. Nella frase epica è lâoggetto del vedere che conta, subito lui, Sisifo, e poi câè la formula che conclude il verso e resta lĂŹ nel suo ritmo della chiusa. Sono le sofferenze dure, atroci, fatte per imporre una reazione, per una resistenza che è proporzionale al supplizio e alla forza degli eroi.
Questa sofferenza Sisifo ce lâha addosso, diventa la sua essenza. Sisifo rimane fissato in quel gesto, in quello sforzo perenne, come ci siamo accorti da Omero in poi. E quel che conta è anche nella potenza aspettuale, per la quale vale la pena conoscere il greco antico anche tremila anni dopo. Ă lâazione che continua, che si ripete, che si estende nel tempo e nello spazio, che non sembra avere la possibilitĂ di una fine. Qui non la può piĂš avere. In effetti la morte è un tempo senza tempo, infinito. Sono degli emata panta, ÂŤtutti i giorniÂť, in una totalitĂ senza conclusione. Qualsiasi esistenza oltre il confine della morte non può avere che questi tratti.
à un macigno enorme già nel suono della parola che lo annunzia, che schiaccia e opprime questo dannato eroico, il quale si oppone a questa oppressione, resiste con tutta la tensione del suo corpo, con le sue due braccia e le mani protese sostiene il peso mostruoso. SÏ, proprio mostruoso, ciò che è oltre la normale possibilità di comprensione della natura umana. Supera le nostre categorie, eppure Sisifo deve farci fronte. Vuole farci fronte. E non è lo scontro di un momento, come di solito è nelle imprese degli eroi. Anche se noi non lo possiamo capire, è un ergon senza fine, un paradosso logico.
Contro il macigno della sua pena eterna si puntella, e si aggrappa, con le mani e con i piedi. Tutta la sua figura, tutto il disegno completo del suo essere si mette in gioco senza requie. Spinge verso lâalto la pietra, nelle sillabe e nei suffissi aspri ripetuti si percepisce lo sviluppo dellâatto, che comincia, continua, e continua ancora. Il quadro dellâazione è un colle, una china in salita, ripida quanto basta. Lo spazio ha una forma, ha apparentemente un termine. Câè una cima, sulla quale nella normalitĂ ha termine la fatica che da mortali conosciamo. Che ogni cosa sulla terra abbia una fine è forse un bene. Ti lascia comunque una speranza. Dovrebbe valere almeno il pensiero che una volta morti non câè piĂš nulla che ti possa fare del male, neppure un mostro come Cerbero può spaventarti con le tre teste e con i suoi latrati assordanti.
Sappiamo che quella di Sisifo è una storia che parla delle cose piĂš importanti e difficili, ci ricorda qualcosa che vale per tutti: è lo scontro destinato alla sconfitta per ogni uomo, quello con la morte. Ma quello che vediamo con gli occhi di Ulisse è altro. Ă tutta forza visiva ed esemplare nellâiterazione che sta in quel verbo degli occhi che rimarrĂ per sempre in questa esperienza del viaggio oltremondano.
Ma qui è diverso. Sisifo può arrivare a questo culmine, è un vertice e oltre non si può andare. CosÏ appare, cosÏ lo immaginiamo. Ma il dramma sta proprio qui. Nello stesso attimo in cui Sisifo sembra sovrastare la logica del suo supplizio, quando arriva al colmo di quel pendio, quando sembrerebbe aver pagato il suo riscatto, succede qualcosa che è inconcepibile, che non si può spiegare, perchÊ viola ogni regola del nostro pensiero.
à qualcosa per il quale non abbiamo gli strumenti intellettuali adeguati, almeno per trovarne il senso. Un demone orribile è lÏ pronto in agguato, per sempre, con una parola indicibile, Krataiis, se questo è davvero il suo nome, che nei miti vale anche per la madre spaventosa di Scilla: è la personificazione di una violenza contro la quale non ci può es...