Mafia
PREMESSA
Qualche parola per misurare la distanza tra il presente e il passato, cioè per rimettere nel loro contesto storico i due miei interventi sulla mafia, comparsi in origine (rispettivamente) nel 1996 e nel 2007, che sono qui ripubblicati senza correzioni o integrazioni. Mentre scrivevo il primo, ancora si sentiva lâeco tremenda della stagione delle stragi intestine di mafia, della sequenza degli assassinii âeccellentiâ culminata in quelli di Falcone e Borsellino, della minaccia terroristica fatta pesare non solo sulla Sicilia ma sulla stessa democrazia italiana. Lâidea della mafia come residuo feudale, costume tipico di una societĂ arretrata e periferica, mi sembrava inadeguata, e fuorviante. Nel passato cercavo le tracce di un fenomeno politico-criminale ben compatibile con la modernitĂ , consapevole della propria identitĂ . Tracce che potessero portare a quella mafia presentatasi drammaticamente sulla scena del presente col proprio volto di poderosa organizzazione, col proprio nome: âCosa nostraâ. Il secondo intervento ripercorreva la drammatica escalation del 1979-1993, ma anche sottolineava quanto dieci anni prima soltanto si intravedeva: che per Riina & C. la sfida terroristica non aveva pagato. Lâultimo boss corleonese, Provenzano, era appena andato a raggiungere in prigione tanti suoi compagni. Cosa nostra era stata colpita da una repressione senza precedenti (anche se ci riferiamo a quella, tanto celebrata, di periodo fascista).
E arriviamo a oggi, 2022, a trentâanni dalla fine della stagione o era âcorleoneseâ. Qualcuno può pensare che siamo tornati alla norma: quella di una mafia che trama nellâombra, fornisce protezione agli uomini dâaffari e servizi elettorali ai politici; i cui affiliati sono essi stessi commercianti e affaristi impegnati in settori sia legali che semi-legali. Se non che, per questo come per qualsiasi oggetto storico, non possiamo parlare di norma (orribile parola, visto lâargomento) e di eccezione, ma al contrario di una dialettica tra continuitĂ e mutamento. Consideriamo il secolo scorso nel suo insieme. Ci sono state fasi in cui la mafia si è in effetti mantenuta al coperto, altre in cui è uscita in superficie. Per il ciclico esplodere delle guerre per bande. Per i conflitti sociali, quelli ad esempio dei due dopoguerra, le lotte contadine che costrinsero la mafia a prendere posto nella battaglia politica, seppure come minor partner in fronti piĂš ampi e compositi. Per le lusinghe del narcotraffico, settore redditizio quanto difficilmente conciliabile con lâimmagine tradizionalista che i mafiosi amano proiettare di sĂŠ, e foriero di irrisolvibili conflitti interni. Da qui arriviamo appunto alla congiuntura drammatica del 1979-1993, in cui Cosa nostra provò ad assurgere al ruolo di protagonista, su scala regionale e non soltanto.
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Mi risulta oggi piÚ chiaro, appunto in questa nostra prospettiva 2022, che della mafia non può farsi storia se non in stretta connessione con quella del suo antagonista. Parliamo di un soggetto che rimane nascosto nelle pieghe sociali quando nessuno lo cerca, che si vede quando qualcuno adopera gli occhiali giusti; che è forte quando viene tollerato, ed è debole quando viene contrastato.
Va detto che, nel Novecento, per tre volte la mafia ha incontrato un antagonista. Negli anni del regime fascista, le autoritĂ per la prima volta ne indicarono con decisione la natura di associazione a delinquere. Al passaggio tra anni Quaranta e anni Cinquanta, i partiti comunista e socialista, nonchĂŠ il quotidiano âLâOraâ e una pugnace pattuglia di intellettuali (Dolci, Pantaleone, Sciascia), ne enfatizzarono la vocazione filo-borghese e filogovernativa. Nella prima stagione, però, la mobilitazione istituzionale non poteva, per definizione, coincidere con un moto dal basso, e con una piĂš generale rivendicazione di libertĂ ; mentre, nella seconda stagione, fu appannaggio (di una parte) dellâopinione pubblica, essendo le istituzioni come paralizzate da un patto di non belligeranza con la mafia. Solo successivamente, attraverso la falsa partenza degli anni Sessanta, sino al culmine della prima metĂ degli anni Novanta, si creò il movimento che possiamo chiamare antimafia, con la sua capacitĂ di attestarsi su tre fronti: quello dellâopinione pubblica, quello del discorso politico, quello istituzionale.
Sono gli stessi su cui tuttâoggi troviamo attestata lâantimafia. Abbiamo un movimento di opinione pubblica e tante associazioni, tra cui spicca la rete di Libera, periodici (anche specializzati) e trasmissioni televisive che tornano sul tema, iniziative scolastiche e corsi universitari che provano ad approfondirlo. Forniscono grandi contributi di memoria, di analisi e di passione i parenti dei caduti, i sacerdoti come don Ciotti, gli intellettuali come Saviano. Non dimentichiamo i docenti e gli studiosi (come chi scrive queste note, potrebbe osservare qualcuno). E ovviamente ci sono i magistrati che intervengono nella discussione pubblica: quelli che â come Giancarlo Caselli â si sono valorosamente spesi nel momento piĂš terribile; quelli che appartengono a generazioni successive, ma che ugualmente si richiamano a quel passato. Qui siamo al fronte istituzionale, di cui indico un poâ schematicamente, da non giurista, le componenti-base. Ci sono istituzioni statali ad hoc, investigative e giudiziarie, nonchĂŠ politiche, come la Commissione parlamentare antimafia e quelle regionali. Câè una legislazione che definisce come reato lâorganizzazione di tipo mafioso, punisce questo reato molto severamente, premia il contributo fornito alle indagini e ai procedimenti penali dagli affiliati stessi, si impegna a individuare e a sequestrare i patrimoni mafiosi, stabilisce per i detenuti di mafia metodi di carcerazione speciale, e nega agli âirriducibiliâ i normali benefici di legge. Si pone anche un problema assai complesso: come punire il âconcorso esternoâ, ovvero chi consapevolmente favorisce le organizzazioni mafiose, pur non facendone parte?
Quello dellâantimafia è uno scenario affollato, che potrebbe giustificare qualche contro-polemica âalla Sciasciaâ, qualche accusa di âgiustizialismoâ. Tra gli altri, infatti, ospita quelli che protestano indignati ogni volta che un tribunale assolve un imputato, e respingono lâidea stessa che il diritto penale debba distinguere diverse responsabilitĂ individuali, e dosare le pene. E ci sono quelli che plaudono entusiasti ai PM che passano disinvoltamente dallâagone giudiziario a quello mediatico a quello politico, magari presentandosi alle elezioni il momento dopo aver lasciato la toga. Però, nel complesso, io penso che lâantimafia rappresenti una grande risorsa civile e istituzionale del paese, il lascito positivo di un drammatico passato.
Sia pure tra mille incertezze e in un tempo esasperatamente lungo, sia pure a prezzo di sangue e di tante sofferenze, sono stati raggiunti in Sicilia risultati che, io confido, non saranno messi in dubbio nemmeno domani. Sul fronte dellâopinione pubblica, e un poâ anche su quello politico, la mafia non può piĂš contare su quel tanto di tolleranza di cui godeva prima. Nessuno piĂš dice che non esiste, facendo uso e abuso dellâapologetica sicilianista; e nessuno dice (variante culturalmente piĂš raffinata, alla Pitrè) che si tratta di un costume sostanzialmente innocuo di quel popolo arretrato che sono i siciliani. E veniamo alla risposta istituzionale, se volete alla repressione. Se dopo il 1993 la mafia-Cosa nostra ha abbandonato il terreno della strage, se si è ritirata al coperto, non lâha fatto sua sponte, per un astuto tatticismo, come sostiene chi continua a coltivare â contro ogni evidenza â il mito paralizzante della sua invincibilitĂ . Sono stati i successi dellâantagonista a obbligarla a una simile ritirata.
Nel presente, abbiamo una quantitĂ ben inferiore di cadaveri nelle strade e nessun cadavere eccellente, però, certo, la pericolositĂ delle organizzazioni mafiose non si misura solo dal sangue versato (anche da quello, certo), ma pure dalla loro capacitĂ di gestire affari e di inserirsi in un piĂš generale malaffare. Ed è possibile che i vecchi gruppi si stiano rinnovando, o che se ne stiano formando di nuovi. Câè poi da considerare il contesto. La promessa di nuova democrazia che si accompagnava alla svolta del 1992-1993 non si è inverata, i partiti leggeri nati allora non si sono rivelati piĂš impermeabili alla corruzione di quanto fossero stati quelli pesanti â la Dc, il Pci, il Psi â allora morti. La (cosiddetta) Seconda Repubblica non è stata affatto immune dalla corruzione che affliggeva la Prima, e non câè ragione di credere che le cose saranno cambiate dai vaghi annunci della Terza. Non in Sicilia, non nelle altre regioni del Mezzogiorno, non generalmente in Italia.
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Abbiamo parlato sinora della mafia siciliana, ma ormai è usuale il ricorso al plurale mafie. Ne accennavo giĂ alla fine del mio intervento del 2007. La stessa legge italiana, a partire dal 1982, raccoglie sotto la categoria generale dellâassociazione di tipo mafioso le diverse forme regionali di criminalitĂ organizzata, indicate nella discussione pubblica, nonchĂŠ dalle fonti ufficiali, come Cosa nostra (appunto, Sicilia), camorra (Campania), ândrangheta (Calabria), Sacra corona unita (Puglia). E teniamo conto di quanto, tra queste mafie, siano cambiati i rapporti di forza. La crisi relativa di Cosa nostra coincide col comprovato protagonismo di una ândrangheta che è calabrese sĂŹ, ma che si va anche espandendo sia nella parte settentrionale del nostro paese sia allâestero, con i suoi affiliati e imprenditori, le sue reti di relazioni e di traffici, il suo stesso sistema di organizzazioni territoriali, o locali. Su scala internazionale, poi, giĂ da tempo il termine mafia non viene piĂš riferito necessariamente a gruppi criminali di origine italiana. Viene usato, con varie qualificazioni etniche (mafia cinese, albanese, cecena, colombiana, messicana ecc.), per indicare gruppi criminali di base etnica, spesso originati in societĂ sottosviluppate o periferiche, che vanno a gestire il loro malaffare in societĂ piĂš ricche, sostenendosi su flussi migratori e traffici illeciti (a cominciare dai soliti stupefacenti). E che contano dunque su legami di solidarietĂ (appunto etnica) tra compaesani o connazionali, tra criminali, area grigia e anche persone oneste.
Scriveva Giovanni Falcone nel 1990: ÂŤNon mi va piĂš bene che si continui a parlare di mafia in termini descrittivi e onnicomprensivi, perchĂŠ si affastellano fenomeni che sono sĂŹ di criminalitĂ organizzata ma che con la mafia hanno poco o nulla da spartireÂť (âSegnoâ, 1990, n. 116, p. 10). Per molto tempo ho anchâio condiviso questo tipo di diffidenza, questo timore di un annacquamento, di una sottovalutazione della specifica pervasivitĂ /pericolositĂ della mafia siciliana. E ancora in parte lo condivido perchĂŠ la mafia non è mai stata solamente, propriamente criminalitĂ organizzata, e neanche un anti-Stato: ma piuttosto una struttura vicaria dello Stato, storicamente radicata in certi territori, forte del sostegno di classi intermedie e superiori, dotata di una legittimazione sociale e culturale.
Devo comunque convenire che su ogni argomento di studio, su questo quanto e piĂš che sugli altri, lâapproccio comparativo non manca di motivazioni e offre una quantitĂ di possibilitĂ interpretative. Ogni dibattito (storiografico, socio-antropologico, criminologico e anche politologico) che voglia aspirare a essere âscientificoâ, dovrĂ tenerlo in conto. Il discorso vale anche per lâapproccio internazionalista, tanto piĂš necessario per Cosa nostra siciliana, che ha sempre avuto una consorella, la Cosa nostra americana, che poi è stata una mafia etnica degli Stati Uniti con qualche tratto comparabile con quelle messicane o colombiane. Credo anzi sia giusto dire che, mettendo insieme i due versanti, Cosa nostra sia stata una mafia di dimensione transoceanica e transcontinentale, che non avrebbe potuto raggiungere successo e fama universale se non avesse potuto contare sulle risorse di due, diversissime societĂ : una delle quali è sempre stata la piĂš ricca e moderna del m...