Le parole della comunicazione
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Le parole della comunicazione

Carlo Sorrentino

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Le parole della comunicazione

Carlo Sorrentino

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In un mondo denso di informazioni è necessaria una seconda alfabetizzazione. Così, come in passato leggere e scrivere sono serviti ad acquisire cittadinanza, cioè a pensare con la propria testa, analogamente nell'odierno, affollato mondo digitale dobbiamo acquisire consapevolezza comunicativa, per non subire i flussi informativi e distinguere il vero dal verosimile, disvelando il falso.
Le parole della comunicazione vuole essere un piccolo vademecum per orientarsi nel sempre più denso e articolato sovraccarico informativo che chiunque si trova a dover gestire. Per facilitare la conoscenza delle logiche dei media e gestirle al meglio presentiamo 20 parole chiave, con l'obiettivo d'accrescere le competenze del lettore.
Attraverso una sintetica descrizione si tratteggiano requisiti, contesti, pratiche e mezzi attraverso cui sempre più entriamo in relazione con gli altri. Una sorta di abbecedario per una nuova educazione civica, affinché ci si possa muovere fra termini e significati spesso dati per scontati e che, invece, non lo sono per niente.

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Información

Año
2019
ISBN
9788869955235

Introduzione

Carlo Sorrentino
Comunicazione è parola usata e abusata e – come spesso capita ai termini inflazionati – rischia di perdere consistenza e significato. Quante volte negli ultimi anni ci è capitato di sentirla pronunciare come soluzione per ogni situazione, sia in ambito privato – relativo alla nostra vita familiare o amicale – sia in ambito pubblico, per gestire processi politici o economici: “con mia moglie non c’è più comunicazione”, “con i figli ho stabilito un ottimo feeling, basato sulla comunicazione, ci diciamo tutto!”, “per garantire il successo ai nostri nuovi prodotti dovremo investire in comunicazione”, “il nostro programma politico era valido, non siamo stati bravi a comunicarlo!”.
Insomma, sembra sia sempre e soltanto questione di comunicazione. Giusto! Ma, spesso, dietro questa convinzione si celano alcune pericolose semplificazioni.
Innanzitutto, credere che a comunicare sia soltanto l’emittente, che si rivolge a destinatari che – come recipienti vuoti – si riempiono di tutto ciò che gli viene detto, esattamente attribuendogli il significato voluto dall’emittente. Un errore alla base del principale equivoco esistente sulla comunicazione: pensare che comunicare sia dire, mostrare, apparire. Ne consegue la convinzione che per comunicare non si debba necessariamente stabilire una coerenza fra il dire e il fare, fra l’apparire e l’essere. Una buffa conferma di tale convinzione la ritroviamo nelle espressioni più ricorrenti quando si parla di competenze professionali nel campo comunicativo: “guru della comunicazione”, “mago dei media”. Come se in questo ambito si sospendesse l’esigenza di normali qualificazioni, come accade per tutte le professioni, e si richiedessero capacità taumaturgiche, basate sul tumultuoso estro di qualche genio creativo. Non è un caso se nel nostro Paese la logica conseguenza di questa convinzione abbia portato fino a qualche anno fa a non prevedere percorsi formativi istituzionalizzati nei settori della comunicazione, nella convinzione che si basassero sul “fiuto”, sull’innatismo, su una sorta di “chiamata”, propria delle vocazioni. Una disgiunzione pericolosa - quella tra il dire e il fare - anche in termini di efficacia. Infatti, la comunicazione è una pratica complessa che richiede, innanzitutto, coerenza da parte di chi la mette in atto; poi, comprensione dei propri interlocutori, quindi, del contesto dove il processo comunicativo si instaura. Insomma, la comunicazione inerisce soprattutto l’identità degli attori che vi partecipano. Sia chiaro, coerenza non vuol dire onestà, trasparenza, adesione al sistema valoriale vigente. Possiamo dire che sia Totò Riina che Madre Teresa di Calcutta nella loro vita abbiano praticato coerenza comunicativa; infatti, a noi sono arrivate ben chiare le loro idee e visioni del mondo, nonché le azioni adoperate per metterle in pratica. La coerenza, dunque, non è un’esigenza morale, etica, bensì un prerequisito per il successo comunicativo.
Comunicare, pertanto, vuol dire sapere chi si è, dove si è e con chi si ha a che fare. Detto così sembra lapalissiano e anche facile da mettere in pratica. Eppure, è raro trovare buona comunicazione, sia per l’equivoco descritto - che porta molto spesso a non misurare le proprie azioni comunicative in base all’interlocutore e al contesto - sia per la ridondanza delle comunicazioni circolanti; soprattutto con le nuove tecnologie digitali, che ci hanno immerso in un mare sempre più largo e densamente popolato di informazioni, news, dichiarazioni, opinioni, contestazioni e via discorrendo.
Muoversi in questo ambiente saturo è per tutti molto difficile. Per cercare di facilitare l’arduo quanto irrinunciabile compito di conoscere le logiche della comunicazione e gestirle al meglio presentiamo questo agile volume. Attraverso 20 parole chiave si offre al lettore qualche strumento in più per comprendere i percorsi dei processi comunicativi. Comprensione necessaria per acquisire adeguate competenze comunicative. Già sento le obiezioni! Ma io non ho niente da comunicare. Non devo vendere niente, né ho ambizioni politiche oppure di muovermi sulla scena pubblica.
Obiezione respinta. Tutti noi dobbiamo gestire la nostra presenza in questo complesso ambiente comunicativo. Non soltanto per interagire con parenti e amici, con i vicini di casa così come i colleghi al lavoro; ma soprattutto perché quotidianamente siamo chiamati a scegliere, decidere e agire in molti e distinti ambienti sociali, dai quali dobbiamo assumere tutte le informazioni opportune per muoverci con destrezza, non compiendo gaffe, né sottovalutazioni, affinché siano soddisfatti gli obiettivi stabiliti.
In altri termini, in un mondo densissimo di informazioni in circolazione, popolato da sempre nuovi attori, ognuno di essi portatore di differenti punti di vista, posizioni, attribuzioni di significato, è più che mai necessario una seconda alfabetizzazione. Così come nei passati decenni imparare a leggere e a scrivere è servito ad acquisire cittadinanza, cioè a pensare con la propria testa, e scongiurare che una ristretta élite imponesse le proprie idee; analogamente nell’affollato mondo digitale dobbiamo acquisire cittadinanza digitale, che vuol dire permettere al più ampio numero di individui di agire con consapevolezza in tale ricchezza, per non subirla, imparando a scernere il vero dal verosimile e, soprattutto, disvelare l’inverosimile.
La ricchezza comunicativa descritta richiede a tutti una maggiore tensione proattiva nel selezionare i contenuti. Mentre fino a ieri bastava aprire il giornale, ascoltare il telegiornale e affidarsi più o meno completamente a tali intermediari, oggi il lavoro di selezione lo facciamo direttamente noi; spesso senza nemmeno accorgercene, in base agli interessi predefiniti sui nostri profili social, oppure stimolati dai suggerimenti che ci appaiono sugli schermi dei nostri supporti, casomai senza nemmeno conoscere i meccanismi che c’inducono ad approfondire l’informazione sportiva piuttosto che quella economica, le qualità di certi siti piuttosto che di determinati generi narrativi.
A tirarci dentro questa logica è il cosiddetto processo di disintermediazione, che ci consente il confronto diretto con un numero indefinito di fonti. È bene, allora, apprendere i criteri esistenti dietro tali processi, anche per dotare di senso le nostre selezioni attraverso una soddisfacente gestione dell’altra prerogativa tradizionalmente appartenente ai professionisti della comunicazione: la verifica. Verificare le informazioni a cui accediamo richiede effettuare riscontri, imparare a riconoscere affidabilità, accuratezza, credibilità di una fonte, sapere come misurare la sua reputazione in rete. Insomma, così come con l’alfabetizzazione gli individui hanno iniziato a decidere in proprio le informazioni da acquisire e le conseguenti idee da sviluppare; oggi attraverso l’alfabetizzazione digitale è necessario compiere dei passi in avanti per stabilire come gestire la nuova potenziale risorsa a disposizione. Più o meno la stessa differenza esistente fra imparare a camminare e decidere di correre o fare trekking per tenersi in forma.
Questa più complessa alfabetizzazione è necessaria anche perché le evoluzioni descritte non modificano soltanto il nostro ruolo di destinatari d’informazioni, ma le forme della produzione comunicativa. Quando analizziamo quali foto delle vacanze pubblicare sui nostri profili social oppure se e come rispondere ai post arrivati, quando decidiamo di reindirizzare un contenuto informativo che ci è giunto, nonché le motivazioni per indurre alla sua fruizione, di fatto stiamo producendo comunicazione. E quasi sempre queste azioni le decidiamo ragionando in termini identitari: come vogliamo renderci visibili agli altri? Sottolineare quanto ci siamo divertiti durante le vacanze oppure che abbiamo fatto esperienze interessanti? Nei commenti vogliamo usare un tono misurato, adducendo adeguate argomentazioni, oppure violento, basato soprattutto sull’istinto? Che tipo di contenuti preferiamo condividere, quelli di accordo con le politiche governative oppure di contrarietà?
Ogni scelta presuppone un ragionamento su di noi, sui nostri interlocutori, sul registro comunicativo scelto, sul contesto comunicativo in cui ci troviamo. Benché spesso l’informalità caratterizzante questi atti – anche per la frequenza con cui li compiamo – non ce lo faccia cogliere appieno, tutte queste operazioni mostrano come spesso diventi centrale - nelle motivazioni addotte per spiegare le nostre azioni - il ruolo degli altri, l’interdipendenza con le loro decisioni, con i loro stili di vita, con gli esempi che ci mostrano. Come spesso mi capita di ricordare, questo intreccio lo si ritrova anche nell’educazione dei propri figli - apparentemente il più privato degli ambiti – in cui influiscono le agenzie di socializzazione a cui li esponiamo – dalla scuola al campetto di calcio, dai giardini alle amicizie; le letture oppure le fruizioni televisive a cui li esponiamo; i luoghi dove abitiamo. Insomma, anche questa pratica è svolta insieme a tanti altri – più o meno significativi – che diventano fonti d’ispirazione – in positivo in negativo; elementi di comparazione – dal prossimo anno gli farò fare lo stesso tipo di vacanze proposto ai propri figli dalla mia collega di lavoro; supporto decisionale: seguirò i consigli datemi dal vicino di casa oppure dall’allenatore di basket.
Dunque, se non si considerano le identità di emittenti e riceventi, le peculiarità dei contesti, le modalità attraverso cui l’opinione pubblica impone un tema piuttosto che un altro all’attenzione collettiva si banalizza la comunicazione in un insieme di pratiche trasmissive, sterilmente indirizzate a soddisfare uno specifico obiettivo, con la conseguenza di vederne mortificati i risultati. Bisogna, piuttosto, avere una visione d’insieme di tali processi, comprendere perché diventano centrali in un mondo denso di soggettività, opinioni e possibilità. Saper comunicare non vuol dire, quindi, convincere gli altri, ma riuscire a comprendere bene la natura dei nostri interlocutori, per capire meglio cosa vogliamo fare e chi vogliamo essere. Le pagine che seguono vogliono essere una piccola guida per un grande obiettivo. Una sorta di abbecedario per muoversi fra termini e significati che spesso diamo per scontato e che, invece, non lo sono per niente. Le 20 parole scelte si possono suddividere in 4 differenti categorie:
parole tese a fornire un perimetro definitorio più chiaro entro cui si muovono i processi di comunicazione: comunicazione, interazione, media, mediatizzazione, disintermediazione, sfera pubblica;
parole utili per approfondire quanto sintetizzato in questa introduzione: la comunicazione è il sistema nervoso delle attuali società complesse, dove la fiducia necessaria per raggiungere l’intesa ha sempre bisogno di conferme, di responsabilità, indispensabile per far acquisire cittadinanza agli individui, in uno spazio pubblico più ampio e interdipendente: visibilità, cittadinanza, fiducia, responsabilità, memoria;
parole con cui si indicano specifiche funzioni, generi o pratiche della comunicazione: giornalista, fact-checking, public engagement, comunicazione istituzionale, cronaca nera;
infine, termini meno conosciuti ma che iniziano a essere adoperati sempre più di frequente per raccontare la cosiddetta rivoluzione digitale, scelte per fornire una più chiara definizione delle stesse a un pubblico che potrebbe essere rimasto frastornato dalla reiterazione con cui sono richiamate senza aver avuto il tempo di chiarirsi il loro significato: web, seo, fake news, post verità.
Come sempre quando si stabiliscono gli ingredienti di qualsiasi ricetta, anche quelle che dovrebbero nutrire lo spirito (come un libro!), le scelte presentano un elevato grado d’arbitrarietà. Altri “Chef” che non fossero stati il curatore e gli autori di questo volume probabilmente ne avrebbero indicate altre, eliminandone alcune. Ovviamente, ogni responsabilità per le scelte compiute e per le omissioni riscontrabili sono da imputare agli autori e al curatore. Soprattutto a quest’ultimo.
Laura, Emiliano e io abbiamo cercato di essere chiari e diretti, correndo consapevolmente il rischio di qualche semplificazione oppure di affermazioni apodittiche. Ma ci siamo imposti di contenere tutte le voci in massimo 1500 parole, al fine di rendere più immediata la fruizione di ciascuna. Nelle varie voci si trova qualche ripetizione dei principali concetti che fanno da filo rosso al nostro ragionamento; tuttavia, abbiamo ritenuto opportuno lasciarle per consentire a ciascun lettore di selezionare soltanto le voci di maggior interesse, anche se - come è l’auspicio di ogni autore – ci auguriamo che – favorevolmente colpiti – il lettore allarghi poi il suo interesse a tutte le 20 voci presentate. Sempre per una migliore scorrevolezza, non vi sono citazioni, né indicazioni bibliografiche. Abbiamo sopperito riportando nei riferimenti bibliografici soltanto le opere a cui facciamo esplicito riferimento nei testi.
Firenze, settembre 2018
C.S.

COMUNICAZIONE

Laura Solito
Molte sono le definizioni possibili quando si parla di comunicazione. Quindi un primo, opportuno lavoro da fare è circoscriverne il significato rispetto ai tanti impiegati nel variegato uso da parte del nostro linguaggio comune.
Possiamo ricondurre le tante accezioni del termine a tre concetti: trasmettere un messaggio; elaborare e condividere significati; costruire relazioni.
La prima definizione è quella più intuitiva. Comunicare consiste indubbiamente nel far arrivare un messaggio da un emittente a uno o più riceventi. Ma se si approfondisce questo banale concetto si può facilmente osservare come l’efficacia della comunicazione non possa prescindere da un’azione preventiva, consistente proprio nella costruzione della dimensione relazionale. Di fatto, non riesco a comunicare se non ho alcuna informazione sui miei possibili interlocutori. Facciamo l’esempio di situazioni in cui ci troviamo davanti ad estranei. Se questa compresenza si prolunga, il silenzio può diventare imbarazzante; eppure non riusciamo a trovare argomentazioni giuste, proprio perché non sappiamo niente di loro. Spesso usciamo da questo impaccio attivando discorsi di carattere generale: ad esempio sul tempo, “bella giornata, vero!”. Siamo consapevoli che il concetto di bella giornata è universale e, quindi, facilmente condivisibile. Dunque, la trasmissione “funziona” nella misura in cui conosciamo gli interlocutori e in base a tale conoscenza attiviamo una determinata relazione. Così, se siamo davanti allo sportello di un ufficio postale, il nostro interlocutore – l’impiegato delle poste – si aspetta che la nostra comunicazione sia focalizzata sul suo ruolo pubblico e abbia a che fare con le sue competenze lavorative. Resterebbe esterrefatto se noi iniziassimo a parlare di cosa abbiamo visto in TV la sera precedente, oppure facessimo apprezzamenti sul suo abbigliamento. Tranne che precedenti frequentazioni dello stesso impiegato non abbia definito una conoscenza maggiore, tanto da permettere deroghe alla nostra comunicazione. Anche in questo caso, comunque, la digressione sulla programmazione televisiva oppure sull’abbigliamento sarebbe soltanto una parentesi introduttiva al motivo per cui ci si reca all’ufficio postale. Insomma, la trasmissione del messaggio comunica effettivamente qualcosa se c’è una relazione fra emittente e ricevente. Tale relazione comunicativa “funziona” nella misura in cui si condividono dei significati: nel banale esempio fatto in precedenza, si deve sapere cosa sia un ufficio postale, perché ci si va e a fare cosa, chi sia un impiegato delle Poste e quali siano le sue competenze. Dunque, comunicare significa stabilire una relazione sulla base della condivisione di significati. Condivisione di significati non vuol dire pensarla allo stesso modo. Posso parlare di politica oppure di calcio con un interlocutore anche pensandola in modo diametralmente opposto; l’importante è sapere cosa sia la politica oppure conoscere le regole del gioco del calcio.
Se gli esempi scelti fanno apparire molto semplice e lineare la relazione comunicativa, basta salire soltanto leggermente nel livello d’astrazione per capire come molto spesso sia difficile definire efficacemente la specifica struttura di una relazione comunicativa, casomai per la difficoltà nel precisare le specifiche situazioni e i peculiari contesti.
Nella relazione comunicativa si evidenziano, quindi, la centralità sia dell’emittente che del ricevente. Ma, soprattutto, è rilevante il contesto in cui tale relazione comunicativa si attiva. Nell’esempio prima enunciato dell’ufficio postale la relazione comunicativa è strettamente condizionata dal contesto in cui avviene, che da una parte favorisce la comunicazione fra estranei, ma dall’altra la canalizza, restringendo i possibili ambiti discorsivi.
Quest’approccio supera quanto in dottrina ha prevalso a lungo, e spesso continua a prevalere nel senso comune: il netto primato dell’emittente, che trasmette contenuti a un ricevente passivo. Un primato che riscontriamo, ad esempio, in tanta attività comunicativa in cui gli emittenti cercano di acquisire consenso e attenzione dai riceventi, ma senza preoccuparsi minimamente di coinvolgerli nella relazione, oppure di considerare le peculiarità del contesto in cui si pone la relazione comunicativa. Sono le tante situazioni che poi si traducono in espressioni del tipo: “non sono stato capito”, “abbiamo avuto un difetto di comunicazione”, “siamo stati fraintesi”. Dietro queste difficoltà si cela l’errore di fondo di ritenere il ricevente passivo e, di conseguenza, di credere di poter uniformare il proprio messaggio a tutti i riceventi potenziali, perché – se sono dei contenitori vuoti – arriverà a tutti lo stesso contenuto. Invece, la relazione comunicativa ha sempre una bi-direzionalità. Ogni ricevente partecipa alla relazione attivando le proprie competenze comunicative, derivate dalla rilevanza data a quella relazione, dalla conoscenza che ha dello specifico ambito comunicativo, dei significati che vi attribuisce, forgiati dalla sua cultura, dalle sue precedenti esperienze e così via. Dunque, ogni ricevente attiva un feedback. Se l’emittente non è consapevole di ciò, il suo messaggio è destinato a diventare inefficace. Analogamente, come già accennato, anche il contesto in cui avviene la comunicazione rappresenta una dimensione costitutiva della relazione comunicativa. Come ben specifica Goffman, ogni atto comunicativo è suddivisibile in due distinti livelli: il micro contesto che regola la specifica situazione comunicativa – io e l’impiegato che interagiamo nell’ufficio postale – e il macro contesto che stabilisce a livello linguistico, sociale e culturale le regole della nostra interazione: io e l’impiegato delle poste siamo due persone ciascuna con la propria identità, definita dalla biografia, dal processo di socializzazione, dalle competenze linguistiche ecc. ecc.; ma siamo dentro due ben definit...

Índice

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. PREMESSA
  6. INTRODUZIONE
  7. COMUNICAZIONE
  8. INTERAZIONE
  9. MEDIA
  10. MEDIATIZZAZIONE
  11. DISINTERMEDIAZIONE
  12. SFERA PUBBLICA
  13. VISIBILITÀ
  14. CITTADINANZA
  15. FIDUCIA
  16. RESPONSABILITÀ
  17. GIORNALISTA
  18. FACT-CHECKING
  19. PUBLIC ENGAGEMENT
  20. COMUNICAZIONE ISTITUZIONALE
  21. CRONACA NERA
  22. WORLD WIDE WEB (WWW)
  23. SEO (SEARCH ENGINE OPTIMIZATION)
  24. FAKE NEWS
  25. POST VERITÀ
  26. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  27. GLI AUTORI
Estilos de citas para Le parole della comunicazione

APA 6 Citation

Sorrentino, C. (2019). Le parole della comunicazione ([edition unavailable]). Pacini Editore. Retrieved from https://www.perlego.com/book/1086641/le-parole-della-comunicazione-pdf (Original work published 2019)

Chicago Citation

Sorrentino, Carlo. (2019) 2019. Le Parole Della Comunicazione. [Edition unavailable]. Pacini Editore. https://www.perlego.com/book/1086641/le-parole-della-comunicazione-pdf.

Harvard Citation

Sorrentino, C. (2019) Le parole della comunicazione. [edition unavailable]. Pacini Editore. Available at: https://www.perlego.com/book/1086641/le-parole-della-comunicazione-pdf (Accessed: 14 October 2022).

MLA 7 Citation

Sorrentino, Carlo. Le Parole Della Comunicazione. [edition unavailable]. Pacini Editore, 2019. Web. 14 Oct. 2022.