Medea
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Medea

La condizione femminile

Giuseppe Pucci, AA.VV., Giuseppe Pucci

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Medea

La condizione femminile

Giuseppe Pucci, AA.VV., Giuseppe Pucci

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Medea viene da un mondo arcaico e selvaggio, la Colchide, da dove porta conoscenze magiche che risalgono a tempi antichissimi, per questo infatti è – insieme a Circe – la maga per eccellenza della mitologia greca. La sua storia a noi è nota soprattutto attraverso Euripide e Apollonio Rodio – e i loro emuli latini – che la raccontano in momenti diversi: il primo trasmette alla cultura europea l'immagine di Medea assassina, il secondo la descrive come una fanciulla innamorata. Due facce di un'unica medaglia che hanno contribuito a innervare poderosamente il mito di Medea prima nella cultura antica e poi in quella moderna.

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Información

Editorial
Pelago
Año
2021
ISBN
9791280714527

Il racconto del mito

Lo scultore francese Paul Gasq scelse di rappresentare l’atto estremo di Medea per questo gruppo scultoreo conservato nel Jardin des Tuileries a Parigi.
Lo scultore francese Paul Gasq scelse di rappresentare l’atto estremo di Medea per questo gruppo scultoreo conservato nel Jardin des Tuileries a Parigi.
In una strada dell’antica Corinto un uomo, in preda a una grande agitazione, batte alla porta di una casa. Chiede a gran voce che gli siano resi i suoi figli. Ma la porta resta chiusa. Finalmente sul tetto compare una donna. Ha accanto a sé due corpicini esanimi, lordi di sangue. «Eccoli, i tuoi figli!», gli dice. «Ebbene sì, li ho ammazzati. Con queste mani. Ma il vero colpevole sei solo tu: tu che hai tradito tutti i giuramenti, tu che mi hai abbandonato per un’altra donna più giovane. Credevi davvero che avrei accettato di essere trattata così? Come potevo lasciarti impunito e farmi ridere dietro da tutti? Dovevo colpirti in quello a cui tenevi di più: prima ho fatto morire la tua nuova mogliettina, poi ti ho ucciso i figli. Ora davvero non ti resta più nulla. Soffrirai finché vivrai. Addio».
È così che si conclude, in un crescendo di inaudite atrocità, la storia di Giasone e di Medea. Nella mitologia greca troviamo nefandezze di ogni tipo (incesti, parricidii, matricidii, antropofagia e altro ancora), ma nulla ci appare tanto mostruoso e inaccettabile quanto il figlicidio perpetrato da una moglie per vendicarsi del proprio compagno.
Come si è arrivati a questo epilogo? Chi sono i protagonisti di questa tragica vicenda mitica e come si sono intrecciate le loro esistenze? Com’è possibile che Medea sia giunta a fare violenza al più forte dei sentimenti, comune a tutte le specie animali, l’amore di una madre per i figli? Cosa l’ha portata a cristallizzarsi per sempre nel nostro immaginario in quel gesto estremo?

L’antefatto: la storia del vello d’oro

Tutto ha inizio con la storia del vello d’oro. Il re di Orcomeno, Atamante, aveva avuto dalla prima moglie due figli, Frisso ed Elle. Poi si era risposato con Ino, ma le matrigne, si sa, spesso si dimostrano ostili nei confronti dei figliastri, e anche Ino aveva cercato di eliminare i figli di primo letto a vantaggio dei propri. Prima aveva subdolamente provocato una terribile carestia, poi aveva convinto il marito che l’unico rimedio fosse sacrificare il suo primogenito. Ma proprio mentre Atamante era sul punto di sgozzare Frisso, ecco comparire un ariete volante dal vello in filamenti d’oro. Frisso e la sorella ci montano in groppa e si eclissano in cielo. Elle durante la fuga cade nel tratto di mare che da lei prenderà il nome – l’Ellesponto – mentre il fratello viene trasportato dal prodigioso animale nella Colchide, all’estremo limite orientale del mondo allora conosciuto. Regnava su quella terra Eeta, figlio del Sole. Frisso, per ringraziarlo dell’asilo ricevuto, dopo aver sacrificato l’ariete a Zeus, ne donò il vello al sovrano.
Oltre che per il suo valore intrinseco, il vello d’oro era prezioso per un altro motivo: un oracolo aveva predetto a Eeta che avrebbe conservato il potere regale fino a quando esso fosse rimasto in suo possesso. Il re lo aveva perciò nascosto nel folto di un bosco, affidandolo alla custodia di un drago sempre insonne.
È a questo punto che entra in scena Giasone. Questi era figlio di Esone, re di Iolco, che però era stato detronizzato dal malvagio fratellastro Pelia. Il padre, per proteggere il bambino, lo aveva affidato al sapiente centauro Chirone perché lo nascondesse e lo educasse. Una volta cresciuto, Giasone si dirige a Iolco per reclamare il trono che gli spetta. Per strada incontra una vecchia – in realtà la dea Hera sotto mentite spoglie – e la aiuta ad attraversare un fiume, guadagnandosi la sua riconoscenza. Perde però un sandalo nel guado, sicché compare davanti a Pelia con un piede scalzo. Ora, un oracolo aveva predetto al re di guardarsi da un uomo con un solo sandalo. Pelia, per sbarazzarsi di Giasone, si dice disposto a rendergli il regno, ma a una condizione: che gli porti il favoloso vello d’oro.

La spedizione degli Argonauti

Giasone accetta la sfida. Per prima cosa si procura una nave adatta ad affrontare il mare aperto (fino a quel momento non ne esistevano): l’Argo. Giasone sa bene che non può compiere l’impresa da solo, pertanto lancia una specie di bando alla meglio gioventù del tempo e recluta una cinquantina di compagni – gli Argonauti – con i quali farà rotta verso la Colchide. Il viaggio è lungo e pieno di insidie, e una volta giunti alla meta il re accoglie gli stranieri con malcelata ostilità. Se Giasone vuole il vello d’oro – gli fa sapere – dovrà prima superare delle prove. E si tratta di prove terribili, dalle quali Giasone, per quanto coraggioso, non avrebbe mai potuto uscire vivo. Ma il giovane eroe è fortunato: lassù qualcuno lo ama. Hera, la sua protettrice, si rivolge ad Afrodite e questa a sua volta ordina al figlio Eros di colpire con una delle sue frecce una figlia di Eeta in modo che si innamori di Giasone. Costei è Medea. Dalla Teogonia di Esiodo sappiamo che Eeta la generò con Idia, una figlia di Oceano, e che sua zia paterna è Circe, anch’essa figlia del Sole. Medea è dunque una mortale, ma ha ascendenze divine. Appena raggiunta dalla freccia di Eros, la donna avvampa di incontenibile passione per lo straniero e da quel momento il suo destino si lega indissolubilmente a quello di Giasone.

L’eroe e la fanciulla innamorata: il poema di Apollonio Rodio

Gli avvenimenti che hanno luogo in Colchide ci sono stati raccontati in dettaglio da Apollonio Rodio (III secolo a.C.) in un poema epico in quattro canti intitolato Le storie argonautiche. Il primo e il secondo canto descrivono il viaggio degli Argonauti verso la Colchide. Medea compare solo negli ultimi due canti. Dopo il primo fatale incontro, la donna ha un sogno: in esso Giasone non è venuto per il vello ma per lei, per portarla via e farla sua sposa. La fanciulla si desta sgomenta, combattuta tra il suo pudore verginale, la pietà filiale e l’amore da cui è posseduta. Infine decide: aiuterà Giasone, ma subito dopo, per espiare il tradimento, metterà fine ai suoi giorni. È già scritto però che le cose andranno diversamente. La mattina seguente Giasone la raggiunge nel tempio di Hecate, di cui è sacerdotessa, e le chiede di aiutarlo. Le parole che le rivolge sono «simili a carezze». Si fa umile, si appella alla sua bontà, la lusinga con la promessa della fama che gliene verrà tra i Greci. Medea, che teme di non poter ottenere l’amore di Giasone senza legarlo con un debito di riconoscenza, acconsente, anche perché lui le promette solennemente che se lo seguirà la sposerà e niente potrà mai separarli. Medea, che come la zia Circe conosce tutti i segreti delle erbe, gli dà un unguento che lo rende invulnerabile e quando si separano, «per la felicità la sua anima – dice Apollonio – volava alta fra le nuvole». Grazie a Medea, Giasone, ottemperando ai comandi di Eeta, aggioga senza danno dei mostruosi tori spiranti fiamme, ara con essi un campo, dove semina dei denti di drago, e quindi neutralizza i giganti armati nati per incanto da questi ultimi. Anche per la cattura del vello Giasone si limita a eseguire le direttive di Medea; dopodiché fugge con i compagni portandosi dietro la ragazza, sempre più innamorata.
Subito l’idillio comincia a scontrarsi con la realtà: Assirto, il fratello di Medea, si lancia al loro inseguimento e Giasone, cominciando a rivelarsi per quello che è, le fa capire che bisognerebbe trovare il modo di liberarsene. Medea, ormai schiava d’amore, non si tira indietro: attira il fratello in un agguato e lascia che Giasone lo uccida. Apollonio aggiunge che Giasone compie poi sul cadavere il maschalismós, un rito apotropaico noto anche presso altre culture di interesse etnografico, che consiste nel tagliare mani e piedi di una persona uccisa, sistemandoli sotto la sua ascella (in greco maschále), allo scopo di impedirgli di tornare a vendicarsi. Altre fonti riportano una versione ancora più raccapricciante: Medea stessa uccide il fratello, lo smembra e ne getta i pezzi uno a uno lungo la strada, in modo che gli inseguitori, per raccoglierli, rallentino la loro corsa (è uno stratagemma ricorrente nei racconti folclorici: ci si disfa di qualcosa di prezioso perché i nemici perdano tempo a raccoglierla). Come che sia, questo disumano assassinio è un cupo preludio alle vicende ancora più orribili che seguiranno.
Dopo molto altro vagare gli Argonauti sbarcano sull’isola dei Feaci, dove sono accolti dal re Alcinoo. Ma un pericolo imprevisto li minaccia. Sono stati preceduti da un contingente di Colchi che pretendono la consegna di Medea. Alcinoo però, su insistenza della regina Arete, risponde che non la consegnerà se essa risulterà già sposata con Giasone. Gli amanti allora si affrettano a celebrare lo sposalizio quella stessa notte. Il talamo nuziale è il vello d’oro. Molte altre peripezie devono affrontare gli Argonauti, e sempre l’aiuto di Medea risulta determinante. Il poema di Apollonio si conclude quando, dopo ulteriori peregrinazioni, l’Argo approda a Pagase, il porto da cui era partita. La storia degli Argonauti è finita, così non è per quella di Medea.
La Medea che ci presenta Apollonio è una fanciulla ancora inesperta dell’amore, trascinata da una forza più grande di lei e con gravi sensi di colpa. Se fugge con Giasone è anche per paura di essere punita dal padre, di cui conosce la crudeltà, ed è per questo che si trasforma in una creatura negativa, arrivando a rendersi responsabile (o complice, a seconda delle versioni) dell’assassinio del fratello. Questa Medea tuttavia non è incompatibile con la vergine innamorata e trepida; è l’esito di una personalità abituata a sottostare alla violenza e che per sottrarvisi non vede altra via che la violenza stessa. Quanto a Giasone, per lui l’amore è chiaramente un mezzo per ottenere i propri scopi: fa grandi giuramenti di fedeltà, ma quando i suoi compagni propongono di restituire Medea al padre non la difende con la fermezza che ci si sarebbe aspettata. In definitiva è una figura scialba, che né poeticamente né drammaticamente è al pari di Medea.
Anche Pindaro, che nella quarta Ode Pitica (462 a.C.) rievocò la saga argonautica, attribuisce le azioni di Medea a un irresistibile condizionamento esterno. Afrodite fa infatti dono a Giasone di un’arma singolare: «l’uccello che fa impazzire», legato ai quattro raggi di una ruota. Questo uccello, che Pindaro chiama íynx, è lo stesso volatile descritto da Aristotele e da Plinio il Vecchio, e corrisponde al nostro “Torcicollo” (Jynx Torqilla L.), così chiamato perché è in grado di allungare il collo e ruotarlo all’indietro. Dato che con il termine íynx in greco si intende anche il rombo, ossia un oggetto che, fatto ruotare velocemente per mezzo di cordicelle, produce un sibilo acuto (è uno strumento usato ancora oggi da popolazioni di interesse etnografico in vari rituali magici), probabilmente anche la ruota su cui era legato l’uccello andava fatta ruotare vorticosamente. Lo scopo era quello di “far girare la testa” per magia simpatica alla persona amata. L’incantesimo funzionò, e Medea acconsentì a partire con Giasone.
La Medea che ci presenta Apollonio è una fanciulla ancora inesperta dell’amore, trascinata da una forza più grande di lei e con gravi sensi di colpa. Se fugge con Giasone è anche per paura di essere punita dal padre, di cui conosce la crudeltà, ed è per questo che si trasforma in una creatura negativa, arrivando a rendersi responsabile (o complice, a seconda delle versioni) dell’assassinio del fratello. Questa Medea tuttavia non è incompatibile con la vergine innamorata e trepida; è l’esito di una personalità abituata a sottostare alla violenza e che per sottrarvisi non vede altra via che la violenza stessa.

Uno sguardo antropologico

Fermiamoci un momento ad analizzare il mito per come fin qui lo abbiamo riassunto.
Benché i primi riferimenti scritti alla storia di Giasone e di Medea si trovino in tavolette di età micenea (XIII secolo a.C.), l’origine del mito risale verosimilmente a un’epoca più antica, forse al IV millennio a.C., quando si stabilirono regolari contatti tra il bacino dell’Egeo e le coste del Mar Nero. L’oro di cui erano ricche alcune regioni asiatiche, fra cui la misteriosa Colchide (corrispondente all’incirca all’attuale Georgia), esercitava una forte attrattiva sull’Occidente. Il vello d’oro è con tutta probabilità la trasposizione mitica delle pelli di montone che le popolazioni locali immergevano nei fiumi del Caucaso per recuperare le pagliuzze d’oro che vi restavano impigliate (lo riferisce il geografo Strabone); e la spedizione degli Argonauti adombra quelle dei primi viaggiatori in cerca di quell’oro. Ma vi entrano in gioco anche altri temi di interesse antropologico, quali il viaggio come esperienza iniziatica che consente all’eroe di assumere, passando attraverso delle prove, la sua piena identità, e la culturalizzazione dello spazio inesplorato, conseguenza dell’invenzione della navigazione in mare aperto. Quest’ultima acquisizione, se da un lato rappresenta un progresso, dall’altro è per la mentalità antica una trasgressione gravida di conseguenze negative. Lo spiega bene Seneca: «I nostri antenati conobbero un’età di innocenza [...]. Ciascuno pigramente costeggiando i propri lidi, e invecchiando nel campo avito, ricco del poco, non conosceva altre risorse che quelle che produceva il suolo natio. Ma la nave tessala fece un tutt’uno di quelle parti del mondo che una saggia norma aveva disgiunto, e obbligò il pelago a sopportare le frustate dei remi [...]». Si tratta in sostanza di un crimine (nefas) che viola non tanto le leggi di natura quanto quel patto tra gli uomini e la divinità sul quale riposava l’ordine primigenio dell’universo. Quell’atto aberrante aveva aperto la via a quella che oggi chiameremmo la “globalizzazione”. La facilità delle comunicazioni alimentava la brama di appropriazione delle risorse straniere (dalle materie prime ai generi di lusso) a scapito dell’antica frugalità e corrompeva la società.
L’impresa di Giasone si configura come la tipica quest (ricerca): l’eroe si mette in viaggio verso un paese lontano e sconosciuto, o addirittura verso l’aldilà – e la Colchide è appunto al di là di tutto quanto ricadeva fino a quel momento nell’esperienza dell’uomo greco – per riportarne un talismano che conferisce prestigio e potere al suo possessore. Come in tutti i racconti del genere, è assistito da un personaggio che viene definito adiuvante (o donatore), dal quale riceve qualcosa di magico che gli facilita il compito. Medea è l’adiuvante principale di Giasone: è lei che, disobbedendo al padre, consente allo straniero di superare tutte le prove, fino a quella più difficile (la terza soglia): la conquista del talismano (il vello d’oro).
Come in tutti i grandi racconti mitologici, anche nella saga argonautica ricorrono situazioni e schemi narrativi comuni al folclore di vari paesi e culture. C’è innanzi tutto la separazione forzata dell’eroe dal suo contesto per l’ostilità di una persona a lui vicina (Giasone è costretto a lasciare Iolco per l’ostilità dello zio Pelia), e quindi un periodo di segregazione (la sua formazione sotto la guida del centauro Chirone, che lo educa lontano dal consorzio degli uomini). Segue il ritorno, necessario per sanare una mancanza (Giasone deve riottenere per sé il trono ingiustamente sottratto al padre). L’inizio della nuova vita coincide con il passaggio di una prima soglia (il fiume che Giasone deve attraversare per recarsi da Pelia) e l’ottenimento di un contrassegno speciale (la perdita di un sandalo). L’uomo con un solo sandalo era nell’immaginario popolare qualcuno che proveniva dal mondo dei morti, dove aveva dovuto lasciare un sandalo a garanzia del suo ritorno. Si capisce perciò perché la comparsa di Giasone in quella tenuta sia per Pelia un presagio funesto, tanto ...

Índice

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione di Giulio Guidorizzi
  6. Il racconto del mito di Giuseppe Pucci
  7. Genealogia
  8. Variazioni sul mito di Giuseppe Pucci
  9. Antologia
  10. Per saperne di più
  11. Piano dell’opera
Estilos de citas para Medea

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Pucci, G. (2021). Medea ([edition unavailable]). Pelago. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3165640/medea-la-condizione-femminile-pdf (Original work published 2021)

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Pucci, Giuseppe. (2021) 2021. Medea. [Edition unavailable]. Pelago. https://www.perlego.com/book/3165640/medea-la-condizione-femminile-pdf.

Harvard Citation

Pucci, G. (2021) Medea. [edition unavailable]. Pelago. Available at: https://www.perlego.com/book/3165640/medea-la-condizione-femminile-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Pucci, Giuseppe. Medea. [edition unavailable]. Pelago, 2021. Web. 15 Oct. 2022.