Enea
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Enea

La bellezza che genera la guerra

Gioachino Chiarini,Luigi Marfé, AA.VV., Gioachino Chiarini

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Enea

La bellezza che genera la guerra

Gioachino Chiarini,Luigi Marfé, AA.VV., Gioachino Chiarini

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Eroe straordinariamente moderno, Enea, personaggio omerico prima ancora che virgiliano, abbandona la sua terra natia, fugge da Troia distrutta per arrivare sulle sponde italiche, alla foce del Tevere, là dove sorgerà Roma. Così ci racconta Virgilio nel suo poema capolavoro, l' Eneide, di cui Enea è il protagonista: un nome destinato a segnare la storia dell'Italia e dell'Europa. Il poeta, critico e drammaturgo T.S. Eliot, in occasione della conferenza del 1944 alla Virgil Society, definì Virgilio il «nostro classico, il classico di tutta l'Europa». Esule e fuggiasco, Enea affronta il mare, conosce nuove terre e nuovi amori – quello di Didone, indimenticata regina che soccomberà alla passione amorosa –, affronta la guerra e l'ira divina, ed è tra i pochissimi eroi del mito a sperimentare da vivo l'avventura della discesa nell'Ade, dove incontra non solo coloro che lo hanno preceduto, ma anche la lunga schiera dei suoi discendenti, stirpe gloriosa.

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Información

Editorial
Pelago
Año
2021
ISBN
9791280714626

Il racconto del mito

Una delle opere giovanili di Gian Lorenzo Bernini – realizzata quando era ventiduenne – che scelse di rappresentare Enea nel momento della fuga da Troia, con il padre Anchise caricato sulle spalle e il figlio Ascanio al seguito. Tre generazioni che diventano elemento scultoreo.
Una delle opere giovanili di Gian Lorenzo Bernini – realizzata quando era ventiduenne – che scelse di rappresentare Enea nel momento della fuga da Troia, con il padre Anchise caricato sulle spalle e il figlio Ascanio al seguito. Tre generazioni che diventano elemento scultoreo.

L’eroe della provvidenza

Dopo il celebre Diluvio, molte cose cambiano, in cielo e in terra. D’ora in avanti, infatti, Zeus si dedica, quasi a tempo pieno, a un’attività non ignota agli altri dèi, ma nella quale egli li sopravanzerà tutti: la seduzione di donne mortali. Zeus adocchia le più belle, poi, per riuscire più facilmente nel suo intento e nella speranza di sfuggire alla sorveglianza della gelosissima moglie Hera (Giunone), muta aspetto, avvicina la prescelta di turno e la possiede. Per amore assume via via sembianze di Satiro, aquila, serpente, pioggia d’oro, fiamma, toro, cigno, pastore e, come ultima metamorfosi (nella storia della nascita di Ercole), l’aspetto del marito legittimo (Anfitrione) della donna sedotta (Alcmena). Poiché ogni gesto di Zeus ha un senso e uno scopo, questa sfrenata attività erotica non si risolve in puro appagamento personale, ma assolve anche un compito molto più alto: popolare la terra di uomini semidivini capaci di emulare le imprese del figlio prediletto, Apollo, e liberare i comuni mortali dai molti e terribili mostri che ancora infestavano mari e monti, laghi e selve, gorghi e caverne.
Mentre Ercole e Teseo riempivano i quattro quadranti del mondo conosciuto con la fama delle loro imprese e il saggio Priamo si godeva a Troia gli ultimi anni felici del suo potere, dei cinquanta figli e delle cinquanta figlie, delle sue infinite ricchezze, finalmente accadde. Sin dall’inizio nessuno, nemmeno tra gli immortali numi del Cielo, maschio o femmina che fosse, aveva potuto resistere alla forza di Afrodite e conservare la castità. Solo tre dee facevano eccezione: Atena dagli occhi scintillanti, figlia di Zeus, amante della guerra, che ha insegnato agli uomini l’arte di costruire navi e carri, alle donne l’arte di tessere e filare; Artemide dalle frecce d’oro, figlia di Zeus, sorella di Apollo, amante della caccia e della danza; infine Estia, la vergine augusta, figlia di Crono, che risiedeva al centro della casa e vi era onorata con ricche offerte, e aveva un suo posto nel tempio d’ogni altro dio. La forza di Afrodite era tale che persino Zeus, come si è detto, era stato spinto tra le braccia di donne mortali del tutto dimentico di Hera (Giunone) sua sposa celeste – Hera dai grandi occhi bovini e dalle candide braccia, che pure era la più bella tra le dee immortali. Così Zeus – dicono – un bel giorno decise di vendicarsi (o di far credere, con simulato sdegno, che intendeva vendicarsi), inducendo la stessa Afrodite, dea dell’amore, all’amore per e con un uomo mortale.
Perché ciò accadesse andava però scelto, pena un completo insuccesso, un partner di bellezza adeguata, e Zeus guardò subito a Oriente, proprio verso la Troade, sulle cime del monte Ida, luogo famoso per l’inarrivabile bellezza dei pastori che lo abitavano. Due generazioni prima uno di loro, il giovinetto Ganimede, giudicato “il più bello tra i mortali”, era stato rapito dallo stesso Zeus, che ne aveva fatto il coppiere dell’Olimpo. Un nipote di Ganimede e figlio di Priamo, Paride, che il re di Troia aveva inutilmente relegato a pascolare sull’Ida nella speranza di rendere innocuo un sogno fatto dalla moglie Ecuba in prossimità del parto e le disgrazie ch’esso presagiva, fu prima chiamato a decidere, come tutti sanno, una gara di bellezza tra Hera, Atena e Afrodite, dopo di che la stessa Afrodite, cui aveva assegnato la vittoria, lo aveva contraccambiato (almeno lei così sosteneva) favorendo la seduzione e il rapimento di Elena, splendida moglie di Menelao, re di Sparta: ciò che avrebbe finito per arrecare di fatto ai Troiani tutti i grandi mali contenuti nel sogno di Ecuba, distruzione della città compresa. Poiché il Fato è immutabile, e dunque inevitabile.
Questa volta il prescelto è Anchise, “simile nella figura agli immortali”, e cugino di Priamo. La storia è narrata nel V Inno omerico. Zeus fa innamorare la dea del bellissimo Anchise «che allora, sulle alte vette dell’Ida ricca di fonti, soleva pascere gli armenti»: «Quando lo vide, Afrodite che ama il sorriso lo desiderò, la passione prese il suo animo a fondo». Per far colpo sul giovane si era recata nel profumato tempio a lei dedicato nella città di Pafo sull’isola di Cipro e, assistita dalle Grazie, si era sottoposta a un’accurata toeletta: «Esse la detersero con l’unguento sovrumano che cosparge gli dèi che vivono in eterno, da lei stessa profumato. Dopo aver bene indossato le sue belle vesti, adornatasi d’oro, Afrodite che ama il sorriso si affrettò verso Troia, lasciando il giardino fragrante, e compì celermente il suo viaggio, in alto, fra le nubi». Atterrata sul monte Ida, la dea con la sua scia profumata attira un corteo di lupi, leoni, orsi, pantere che, dimentichi delle prede, a coppie, tutt’insieme, prendono ad amarsi «nelle vallate ombrose». Giunge finalmente al recinto dove, quel giorno, gli altri pastori, recandosi al pascolo, hanno lasciato il solitario Anchise ad aggirarsi «levando dalla lira note sonore» (l’amore, cioè la seduzione, e l’armonia sono sempre in qualche modo collegati). Qui avviene l’incontro. Afrodite ha assunto aspetto di fanciulla, e subito fa colpo, migliorando ulteriormente il suo aspetto con adeguate vesti e ricercati monili: «Ella indossava un peplo più lucente della vampa del fuoco; portava fermagli ricurvi, a spirale, e orecchini splendenti; intorno al tenero collo erano stupende collane, belle, d’oro, riccamente lavorate: e come la Luna brillavano, prodigio a vedersi, sul tenero petto».
Anchise se ne innamora, ma non è cieco e non perde tempo. Le rivolge infatti impeccabili parole di saluto, subito lanciandosi in supposizioni ad alta voce: Chi sarà costei? Artemide? Latona? Temi? Atena? Una delle Grazie? Una Ninfa? Promette di dedicarle comunque un altare su una vetta del monte, ben visibile da ogni parte, a patto che lo renda “glorioso tra i Troiani” concedendogli in futuro “una stirpe fiorente” e lunga vita – niente di meno. Rispondendo, la dea si finge figlia di Otreo, re di Frigia. Mentre era impegnata, dice, con altre fanciulle e un seguito di Ninfe in danze in onore di Artemide (proprio lei!), è stata rapita da Hermes e costà trasportata attraverso terre lavorate dall’uomo e terre selvagge (dalla cultura alla natura) per esservi detta legittima moglie di Anchise: «Il dio dal caduceo d’oro mi assicurava che sarei stata chiamata legittima moglie di Anchise, presso di lui, nel suo letto, e ti avrei generato splendidi figli. [...] Ecco, io sono venuta da te, mi ha costretto l’inflessibile Necessità».
Anchise è a tal punto affascinato da quello che vede e che sente, da dichiararsi pronto ad amarla e poi subito, se Necessità vuole, a morire. Prende per mano la fanciulla che pudicamente «abbassa i begli occhi» ma pur lo segue cedevole «verso il soffice letto», che a sua volta è già bello e pronto, coperto di morbide coltri e con sopra distese pelli di orsi e di leoni uccisi personalmente da Anchise «sulle montagne sublimi». La svestizione di tutti quei monili e poi delle «fulgide vesti» non è affare dappoco, ma alla fine è compiuta, lasciando spazio all’amore: «Infine, per volere del Fato e degli dèi, giacque, lui mortale con una dea immortale – senza saperlo». Verso sera, quando si avvicina l’ora del rientro dei pastori, Afrodite versa su Anchise un dolce sonno sereno, si riveste di tutte le vesti e i monili che con ritmo frenetico l’amante umano aveva tolto a lei consenziente e meticolosamente ripiegato sull’apposito seggio, e riassume finalmente aspetto e dimensioni (cioè una statura assai maggiore) da «divina fra le dee». «Il suo capo toccava il tetto ben costruito, e raggiava dal volto la bellezza immortale che si addice a Citerea coronata di viole».
Ridestato bruscamente dal sonno Anchise, al vedere «il collo e i begli occhi» di Afrodite in persona ne è atterrito, nasconde lo sguardo, la supplica di avere pietà di lui. La dea risponde con la profezia: «Tu avrai un figlio che regnerà sui Troiani, e dai suoi figli nasceranno senza fine altri figli; il suo nome sarà Enea, “il Tremendo”, perché un tremendo dolore mi ha colta per esser discesa nel letto di un uomo mortale. E tutti saranno bellissimi, maestosi, quasi divini». Gli rivela quindi da chi sarà allevato il loro figlio nei primi quattro anni di vita, fino a che lei stessa non provvederà a consegnarglielo: «Non appena egli vedrà la luce del Sole, lo alleveranno le Ninfe dei monti dal florido seno, che abitano questa alta, divina montagna».
Chi sono queste Ninfe? Esse «vivono a lungo, e mangiano il cibo degli dèi; amano la bella danza con gli immortali. Quando esse nascono, abeti o querce dall’alta chioma germogliano con loro sulla terra nutrice di uomini belli, fiorenti sulle montagne sublimi. Si ergono inaccessibili, e li chiamano sedi sacre degli immortali, né mai gli uomini li tagliano col ferro. Ma quando incombe su di loro il destino di morte, dapprima i begli alberi si disseccano sulla terra, la corteccia intorno inaridisce, cadono i rami: e insieme l’anima delle Ninfe lascia la luce del Sole».
Per quattro anni, i primi quattro della sua vita, Enea vivrà in un mondo incantato, conoscerà un’infanzia dorata: ma potrà avere un primo contatto con lo scacco della mortalità. Le Naiadi sono infatti creature divinamente meravigliose, ma la durata della loro vita è sintonizzata – perfino legata a un unico destino – con quella della pianta gemella. Quando, terminato il fatidico quadriennio, gli avrà affidato il loro figlio «davvero simile a un dio», conclude Afrodite, Anchise dovrà portarlo a Troia, e a chi gli chiederà chi ne sia la madre, dovrà dire che è «una Ninfa dal roseo volto»: se si lascerà scappare la verità, vantandosi di essersi unito in amore «con Citera dalla bella corona», Zeus lo punirà folgorandolo – consueta punizione per l’empio.
Ma minacce e precauzioni non servirono. Già nell’Iliade tutti sanno chi è la vera madre di Enea. Nel Catalogo del Libro II viene detto che «era capo dei Dardani il nobile figlio d’Anchise, Enea, che partorì ad Anchise la divina Afrodite, in mezzo alle gole dell’Ida, dea unita di letto a un mortale» (Canto II). Afrodite stessa, del resto, nel corso del poema, interviene sollecita a salvare il figlio colpito alla coscia da un gigantesco macigno scagliato dalla furia di Diomede: «Tese le bianche braccia intorno al figlio e lo nascose stendendo il peplo ampio, splendente, a riparo dei dardi, perché nessuno dei Danai veloci cavalli conficcandogli il bronzo nel petto potesse rapirgli la vita» (Canto V).
La dea risponde con la profezia: «Tu avrai un figlio che regnerà sui Troiani, e dai suoi figli nasceranno senza fine altri figli; il suo nome sarà Enea, “il Tremendo”, perché un tremendo dolore mi ha colta per esser discesa nel letto di un uomo mortale. E tutti saranno bellissimi, maestosi, quasi divini». Gli rivela quindi da chi sarà allevato il loro figlio nei primi quattro anni di vita, fino a che lei stessa non provvederà a consegnarglielo.
Anche nel campo dei Danai, cioè dei Greci, ne sono bene informati. Lo sa, per esempio, e ne trema Stenelo («Enea, nobilissimo figlio di Anchise, si gloria di essere nato avendo per madre Afrodite», Canto V). Com’è ovvio, fonte diretta sulla propria genealogia è Enea stesso, che perfino con Achille (un altro «nato da dea») non manca di vantarsi quando questi, balzando in avanti «come leone assassino», gli intima di desistere da uno scontro già perso in partenza: «Dicono che sei stirpe di Peleo senza macchia, e madre ti è Teti belle trecce», replica Enea, «figlia del Mare. Ma io, figlio del magnanimo Anchise mi vanto di essere nato, e mia madre è Afrodite». Poi, rincarando la dose, gli snocciola l’intera sua stirpe a partire da Dardano il fondatore, e continuando con Erittonio, Troo figlio di Erittonio, e i tre figli di Troo: Ilo, Assaraco e Ganimede (che, come sappiamo, «fu il più bello tra gli uomini mortali»), e i figli di Ilo: Priamo e i suoi quattro fratelli, e il figlio di Assaraco, Capi, e il figlio di questi, Anchise. Dopo aver dedicato un ulteriore fiume di parole a condannare chi si ripara o perde tempo dietro bimbeschi o peggio femminei fiumi di vuote parole (insulti, minacce), Enea conclude: «Me, avido di lotta, non allontanerai con le parole prima d’aver combattuto col bronzo. Su presto, cimentiamoci l’un l’altro con le armi di bronzo» (Canto XX).
Subito Enea scaglia la sua lancia mortale contro Achille, ma il quinto strato, d’oro, del nuovo scudo forgiatogli da Efesto salva Achille, il quale a sua volta replica attraversandogli con la lancia lo scudo rotondo “nell’ultimo giro”. La lancia di Achille conclude il suo tragitto conficcandosi in terra a pochissimo da Enea. Vedendolo atterrito, Achille sguaina la spada e gli si lancia contro. Enea trova la forza di sollevare una pietra che uomini d’oggigiorno non sarebbero capaci. La spada ucciderà Enea o il masso ucciderà Achille? Poseidone se ne accorge, teme per Enea ed esorta gli altri dèi a intervenire, affinché con Enea non si estingua la stirpe di Dardano – Dardano «che Zeus amò sopra tutti i suoi figli»: Poseidone, che un tempo aveva persino ricostruito con le sue mani, al suono della cetra di Apollo, le mura della città, quelle stesse che ancora incombono e resistono alla coalizione dei Greci, sa bene che per Priamo e i suoi figli il destino è segnato – che almeno Enea sopravviva! (Canto XX).
Il figlio di Dardano, Erittonio, è stato il più ricco dei mortali (e la storia delle cavalle fecondate da Borea, che generano a loro volta dodici cavalle capaci di volare magicamente sulla Terra sfiorando le spighe e sul Mare sfiorando le onde, stabilisce una precisa equazione tra ricchezza e fecondità), ma ora, arrivata la discendenza di Dardano alla settima generazione, a causa della guerra non i più prestigiosi figli di Priamo, a cominciare dal grande Ettore, potranno perpetuare la stirpe, ma lo potrà, per volere del fato, Enea, figlio del cugino di Priamo, Anchise. Qui infatti Poseidone può intervenire lui stesso, velare gli occhi di Achille con una nebbia miracolosa, indurre Enea a desistere. Dunque, il potere troiano passerà a Enea. Profezie più tarde saranno molto meno generiche, seppur alquanto discordanti tra loro. La più importante è quella di Alessandra (alias Cassandra: nell’Iliade «la più bella delle figlie di Priamo»).

La profezia di Alessandra

Col lungo monologo in trimetri giambici (il verso dei recitativi nella tragedia classica) dell’Alessandra non siamo più in età arcaica: l’autore, Licofrone, altrimenti ignoto, è collocato dai critici tra gli inizi del III e quelli del II secolo a.C. Vi si immagina che, all’arrivo dei Greci davanti Troia, un servo riferisca a Priamo le profezie della figlia Cassandra. Tra queste, ve n’è una che riguarda Enea e i suoi discendenti romani. Si inizia con la prefigurazione di un futuro nuovamente glorioso: «Un giorno i nostri discendenti renderanno nuovamente illimitata la gloria dei miei avi conquistando potere e signoria sulla terra e sul mare». E preannuncia l’avvento di «due leoncini, cuccioli gemelli», discendenti «della dea Castnia», Afrodite. Il linguaggio è oracolare. I “leoncini” sono Romolo e Remo, discendenti del figlio di Afrodite, Enea.
A questo punto la profetessa disegna il percorso che porterà Enea nel Lazio: prima tappa sarà Recelo, nel golfo Termaico, ai piedi del monte Cisso (penisola Calcidica); poi, passando da Almopia, città della Macedonia, attraverserà il mare Adriatico, e dalla costa adriatica, muovendo ancora verso Occidente, raggiungerà l’Etruria e le acque termali del fiume Lingeo (cioè l’Arno), in particolare la città di Pisa e, scendendo più a Sud, di Agilla (Cere). Colà giunto Enea, il suo destino «si mescolerà» a quello di un altro eroe: «uno che gli era nemico, Nano, che ha esplorato, girovagando, ogni anfratto della terra e del mare»: «prostrato ai suoi piedi [Enea] implorerà (con successo) pace e unità».
Nano: i commentatori antichi ci dicono che si tratta di Ulisse, che una tradizione voleva fosse ucciso per errore da Telegono, il figlio avuto da Circe, e fosse sepolto nell’etrusca Cortona (Gortina): Nanos in etrusco vuol dire “errante” – quasi fosse un pianeta: vedremo come entrambi, Ulisse ed Enea, abbiano essenziali punti in comune proprio sul piano astrale.
Quanto allo spirito di quel profetizzato rappacificamento tra nemici mortali ritorna, con ribaltamento delle parti e variazione dei personaggi, nell’Eneide di Virgilio, lì dove un compagno inavvertitamente abbandonato da Ulisse sulla riva dei Ciclopi, in Sicilia, si inginocchia disperato e lacrimante ai piedi di Enea, che subito si mostra pronto ad accoglierlo a braccia aperte (Libro III).
Di quanto segue nella profezia di Cassandra, interessano qui ancora solo due riferimenti. Il primo riguarda il fatto che, giunto nel Lazio, Enea vi ritroverà «una mensa imbandita di vivande, che poi sarà mangiata dai compagni e avrà memoria degli antichi oracoli»: un antico oracolo, l’ennesimo, aveva infatti previsto che, quando la fame li avesse costretti a “divorare le mense”, solo allora i fuggiaschi avrebbero potuto fermarsi e fondare la nuova patria – il portento, consistente nel mangiare delle specie di focacce rotonde, o pizze, che fungevano anche da piatto per le vivande e dette perciò “mense”, sarà narrato nel Libro VII dell’Eneide. Il secondo riferimento riguarda il parto e l’allattamento, da parte di una «scrofa nera», proveniente dal monte Ida, di trenta lattonzoli che a Enea avrebbe presagito la fondazione di un paese «dalle trenta torri», cioè dalle trenta roccaforti, o città fortificate: Virgilio riprenderà il motivo con sostanziali ritocchi: la scrofa sarà “bianca” e non “nera”, sarà trovata sul luogo e non portata fuggendo da Troia come vorrebbe la profetessa di Licofrone, e infine i trenta lattonzoli significheranno non «trenta città fortificate», bensì i trenta anni che passeranno tra quel momento e la fondazione di Alba Longa da parte del figlio Ascanio (secondo la profezia formulata dal dio Tevere nel Libro VIII).
L’Alessandra segue una variante della tradizione secondo cui Enea, tenuto prigioniero in Epiro dal figlio di Achille, Neottolemo, viene preso con sé da Ulisse e portato in Italia. Un aspetto interessante sembra legare, in questa prospettiva, l’eroe greco e quello troiano: non solo il desiderio di dimenticare le antiche rivalità per costruire insieme qualcosa di nuovo, ma anche il tratto comune dell’avvedutezza, che in Ulisse è scaltr...

Índice

  1. Collana
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione di Giulio Guidorizzi
  6. Il racconto del mito di Gioachino Chiarini
  7. Genealogia
  8. Variazioni sul mito di Luigi Marfé
  9. Antologia
  10. Per saperne di più
  11. Piano dell’opera
Estilos de citas para Enea

APA 6 Citation

Chiarini, G., & Marfé, L. (2021). Enea ([edition unavailable]). Pelago. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3165650/enea-la-bellezza-che-genera-la-guerra-pdf (Original work published 2021)

Chicago Citation

Chiarini, Gioachino, and Luigi Marfé. (2021) 2021. Enea. [Edition unavailable]. Pelago. https://www.perlego.com/book/3165650/enea-la-bellezza-che-genera-la-guerra-pdf.

Harvard Citation

Chiarini, G. and Marfé, L. (2021) Enea. [edition unavailable]. Pelago. Available at: https://www.perlego.com/book/3165650/enea-la-bellezza-che-genera-la-guerra-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Chiarini, Gioachino, and Luigi Marfé. Enea. [edition unavailable]. Pelago, 2021. Web. 15 Oct. 2022.