Il racconto del mito
Lâeroe della provvidenza
Dopo il celebre Diluvio, molte cose cambiano, in cielo e in terra. Dâora in avanti, infatti, Zeus si dedica, quasi a tempo pieno, a unâattivitĂ non ignota agli altri dĂši, ma nella quale egli li sopravanzerĂ tutti: la seduzione di donne mortali. Zeus adocchia le piĂč belle, poi, per riuscire piĂč facilmente nel suo intento e nella speranza di sfuggire alla sorveglianza della gelosissima moglie Hera (Giunone), muta aspetto, avvicina la prescelta di turno e la possiede. Per amore assume via via sembianze di Satiro, aquila, serpente, pioggia dâoro, fiamma, toro, cigno, pastore e, come ultima metamorfosi (nella storia della nascita di Ercole), lâaspetto del marito legittimo (Anfitrione) della donna sedotta (Alcmena). PoichĂ© ogni gesto di Zeus ha un senso e uno scopo, questa sfrenata attivitĂ erotica non si risolve in puro appagamento personale, ma assolve anche un compito molto piĂč alto: popolare la terra di uomini semidivini capaci di emulare le imprese del figlio prediletto, Apollo, e liberare i comuni mortali dai molti e terribili mostri che ancora infestavano mari e monti, laghi e selve, gorghi e caverne.
Mentre Ercole e Teseo riempivano i quattro quadranti del mondo conosciuto con la fama delle loro imprese e il saggio Priamo si godeva a Troia gli ultimi anni felici del suo potere, dei cinquanta figli e delle cinquanta figlie, delle sue infinite ricchezze, finalmente accadde. Sin dallâinizio nessuno, nemmeno tra gli immortali numi del Cielo, maschio o femmina che fosse, aveva potuto resistere alla forza di Afrodite e conservare la castitĂ . Solo tre dee facevano eccezione: Atena dagli occhi scintillanti, figlia di Zeus, amante della guerra, che ha insegnato agli uomini lâarte di costruire navi e carri, alle donne lâarte di tessere e filare; Artemide dalle frecce dâoro, figlia di Zeus, sorella di Apollo, amante della caccia e della danza; infine Estia, la vergine augusta, figlia di Crono, che risiedeva al centro della casa e vi era onorata con ricche offerte, e aveva un suo posto nel tempio dâogni altro dio. La forza di Afrodite era tale che persino Zeus, come si Ăš detto, era stato spinto tra le braccia di donne mortali del tutto dimentico di Hera (Giunone) sua sposa celeste â Hera dai grandi occhi bovini e dalle candide braccia, che pure era la piĂč bella tra le dee immortali. CosĂŹ Zeus â dicono â un bel giorno decise di vendicarsi (o di far credere, con simulato sdegno, che intendeva vendicarsi), inducendo la stessa Afrodite, dea dellâamore, allâamore per e con un uomo mortale.
PerchĂ© ciĂČ accadesse andava perĂČ scelto, pena un completo insuccesso, un partner di bellezza adeguata, e Zeus guardĂČ subito a Oriente, proprio verso la Troade, sulle cime del monte Ida, luogo famoso per lâinarrivabile bellezza dei pastori che lo abitavano. Due generazioni prima uno di loro, il giovinetto Ganimede, giudicato âil piĂč bello tra i mortaliâ, era stato rapito dallo stesso Zeus, che ne aveva fatto il coppiere dellâOlimpo. Un nipote di Ganimede e figlio di Priamo, Paride, che il re di Troia aveva inutilmente relegato a pascolare sullâIda nella speranza di rendere innocuo un sogno fatto dalla moglie Ecuba in prossimitĂ del parto e le disgrazie châesso presagiva, fu prima chiamato a decidere, come tutti sanno, una gara di bellezza tra Hera, Atena e Afrodite, dopo di che la stessa Afrodite, cui aveva assegnato la vittoria, lo aveva contraccambiato (almeno lei cosĂŹ sosteneva) favorendo la seduzione e il rapimento di Elena, splendida moglie di Menelao, re di Sparta: ciĂČ che avrebbe finito per arrecare di fatto ai Troiani tutti i grandi mali contenuti nel sogno di Ecuba, distruzione della cittĂ compresa. PoichĂ© il Fato Ăš immutabile, e dunque inevitabile.
Questa volta il prescelto Ăš Anchise, âsimile nella figura agli immortaliâ, e cugino di Priamo. La storia Ăš narrata nel V Inno omerico. Zeus fa innamorare la dea del bellissimo Anchise «che allora, sulle alte vette dellâIda ricca di fonti, soleva pascere gli armenti»: «Quando lo vide, Afrodite che ama il sorriso lo desiderĂČ, la passione prese il suo animo a fondo». Per far colpo sul giovane si era recata nel profumato tempio a lei dedicato nella cittĂ di Pafo sullâisola di Cipro e, assistita dalle Grazie, si era sottoposta a unâaccurata toeletta: «Esse la detersero con lâunguento sovrumano che cosparge gli dĂši che vivono in eterno, da lei stessa profumato. Dopo aver bene indossato le sue belle vesti, adornatasi dâoro, Afrodite che ama il sorriso si affrettĂČ verso Troia, lasciando il giardino fragrante, e compĂŹ celermente il suo viaggio, in alto, fra le nubi». Atterrata sul monte Ida, la dea con la sua scia profumata attira un corteo di lupi, leoni, orsi, pantere che, dimentichi delle prede, a coppie, tuttâinsieme, prendono ad amarsi «nelle vallate ombrose». Giunge finalmente al recinto dove, quel giorno, gli altri pastori, recandosi al pascolo, hanno lasciato il solitario Anchise ad aggirarsi «levando dalla lira note sonore» (lâamore, cioĂš la seduzione, e lâarmonia sono sempre in qualche modo collegati). Qui avviene lâincontro. Afrodite ha assunto aspetto di fanciulla, e subito fa colpo, migliorando ulteriormente il suo aspetto con adeguate vesti e ricercati monili: «Ella indossava un peplo piĂč lucente della vampa del fuoco; portava fermagli ricurvi, a spirale, e orecchini splendenti; intorno al tenero collo erano stupende collane, belle, dâoro, riccamente lavorate: e come la Luna brillavano, prodigio a vedersi, sul tenero petto».
Anchise se ne innamora, ma non Ăš cieco e non perde tempo. Le rivolge infatti impeccabili parole di saluto, subito lanciandosi in supposizioni ad alta voce: Chi sarĂ costei? Artemide? Latona? Temi? Atena? Una delle Grazie? Una Ninfa? Promette di dedicarle comunque un altare su una vetta del monte, ben visibile da ogni parte, a patto che lo renda âglorioso tra i Troianiâ concedendogli in futuro âuna stirpe fiorenteâ e lunga vita â niente di meno. Rispondendo, la dea si finge figlia di Otreo, re di Frigia. Mentre era impegnata, dice, con altre fanciulle e un seguito di Ninfe in danze in onore di Artemide (proprio lei!), Ăš stata rapita da Hermes e costĂ trasportata attraverso terre lavorate dallâuomo e terre selvagge (dalla cultura alla natura) per esservi detta legittima moglie di Anchise: «Il dio dal caduceo dâoro mi assicurava che sarei stata chiamata legittima moglie di Anchise, presso di lui, nel suo letto, e ti avrei generato splendidi figli. [...] Ecco, io sono venuta da te, mi ha costretto lâinflessibile Necessità ».
Anchise Ăš a tal punto affascinato da quello che vede e che sente, da dichiararsi pronto ad amarla e poi subito, se NecessitĂ vuole, a morire. Prende per mano la fanciulla che pudicamente «abbassa i begli occhi» ma pur lo segue cedevole «verso il soffice letto», che a sua volta Ăš giĂ bello e pronto, coperto di morbide coltri e con sopra distese pelli di orsi e di leoni uccisi personalmente da Anchise «sulle montagne sublimi». La svestizione di tutti quei monili e poi delle «fulgide vesti» non Ăš affare dappoco, ma alla fine Ăš compiuta, lasciando spazio allâamore: «Infine, per volere del Fato e degli dĂši, giacque, lui mortale con una dea immortale â senza saperlo». Verso sera, quando si avvicina lâora del rientro dei pastori, Afrodite versa su Anchise un dolce sonno sereno, si riveste di tutte le vesti e i monili che con ritmo frenetico lâamante umano aveva tolto a lei consenziente e meticolosamente ripiegato sullâapposito seggio, e riassume finalmente aspetto e dimensioni (cioĂš una statura assai maggiore) da «divina fra le dee». «Il suo capo toccava il tetto ben costruito, e raggiava dal volto la bellezza immortale che si addice a Citerea coronata di viole».
Ridestato bruscamente dal sonno Anchise, al vedere «il collo e i begli occhi» di Afrodite in persona ne Ăš atterrito, nasconde lo sguardo, la supplica di avere pietĂ di lui. La dea risponde con la profezia: «Tu avrai un figlio che regnerĂ sui Troiani, e dai suoi figli nasceranno senza fine altri figli; il suo nome sarĂ Enea, âil Tremendoâ, perchĂ© un tremendo dolore mi ha colta per esser discesa nel letto di un uomo mortale. E tutti saranno bellissimi, maestosi, quasi divini». Gli rivela quindi da chi sarĂ allevato il loro figlio nei primi quattro anni di vita, fino a che lei stessa non provvederĂ a consegnarglielo: «Non appena egli vedrĂ la luce del Sole, lo alleveranno le Ninfe dei monti dal florido seno, che abitano questa alta, divina montagna».
Chi sono queste Ninfe? Esse «vivono a lungo, e mangiano il cibo degli dĂši; amano la bella danza con gli immortali. Quando esse nascono, abeti o querce dallâalta chioma germogliano con loro sulla terra nutrice di uomini belli, fiorenti sulle montagne sublimi. Si ergono inaccessibili, e li chiamano sedi sacre degli immortali, nĂ© mai gli uomini li tagliano col ferro. Ma quando incombe su di loro il destino di morte, dapprima i begli alberi si disseccano sulla terra, la corteccia intorno inaridisce, cadono i rami: e insieme lâanima delle Ninfe lascia la luce del Sole».
Per quattro anni, i primi quattro della sua vita, Enea vivrĂ in un mondo incantato, conoscerĂ unâinfanzia dorata: ma potrĂ avere un primo contatto con lo scacco della mortalitĂ . Le Naiadi sono infatti creature divinamente meravigliose, ma la durata della loro vita Ăš sintonizzata â perfino legata a un unico destino â con quella della pianta gemella. Quando, terminato il fatidico quadriennio, gli avrĂ affidato il loro figlio «davvero simile a un dio», conclude Afrodite, Anchise dovrĂ portarlo a Troia, e a chi gli chiederĂ chi ne sia la madre, dovrĂ dire che Ăš «una Ninfa dal roseo volto»: se si lascerĂ scappare la veritĂ , vantandosi di essersi unito in amore «con Citera dalla bella corona», Zeus lo punirĂ folgorandolo â consueta punizione per lâempio.
Ma minacce e precauzioni non servirono. GiĂ nellâIliade tutti sanno chi Ăš la vera madre di Enea. Nel Catalogo del Libro II viene detto che «era capo dei Dardani il nobile figlio dâAnchise, Enea, che partorĂŹ ad Anchise la divina Afrodite, in mezzo alle gole dellâIda, dea unita di letto a un mortale» (Canto II). Afrodite stessa, del resto, nel corso del poema, interviene sollecita a salvare il figlio colpito alla coscia da un gigantesco macigno scagliato dalla furia di Diomede: «Tese le bianche braccia intorno al figlio e lo nascose stendendo il peplo ampio, splendente, a riparo dei dardi, perchĂ© nessuno dei Danai veloci cavalli conficcandogli il bronzo nel petto potesse rapirgli la vita» (Canto V).
La dea risponde con la profezia: «Tu avrai un figlio che regnerĂ sui Troiani, e dai suoi figli nasceranno senza fine altri figli; il suo nome sarĂ Enea, âil Tremendoâ, perchĂ© un tremendo dolore mi ha colta per esser discesa nel letto di un uomo mortale. E tutti saranno bellissimi, maestosi, quasi divini». Gli rivela quindi da chi sarĂ allevato il loro figlio nei primi quattro anni di vita, fino a che lei stessa non provvederĂ a consegnarglielo.
Anche nel campo dei Danai, cioĂš dei Greci, ne sono bene informati. Lo sa, per esempio, e ne trema Stenelo («Enea, nobilissimo figlio di Anchise, si gloria di essere nato avendo per madre Afrodite», Canto V). ComâĂš ovvio, fonte diretta sulla propria genealogia Ăš Enea stesso, che perfino con Achille (un altro «nato da dea») non manca di vantarsi quando questi, balzando in avanti «come leone assassino», gli intima di desistere da uno scontro giĂ perso in partenza: «Dicono che sei stirpe di Peleo senza macchia, e madre ti Ăš Teti belle trecce», replica Enea, «figlia del Mare. Ma io, figlio del magnanimo Anchise mi vanto di essere nato, e mia madre Ăš Afrodite». Poi, rincarando la dose, gli snocciola lâintera sua stirpe a partire da Dardano il fondatore, e continuando con Erittonio, Troo figlio di Erittonio, e i tre figli di Troo: Ilo, Assaraco e Ganimede (che, come sappiamo, «fu il piĂč bello tra gli uomini mortali»), e i figli di Ilo: Priamo e i suoi quattro fratelli, e il figlio di Assaraco, Capi, e il figlio di questi, Anchise. Dopo aver dedicato un ulteriore fiume di parole a condannare chi si ripara o perde tempo dietro bimbeschi o peggio femminei fiumi di vuote parole (insulti, minacce), Enea conclude: «Me, avido di lotta, non allontanerai con le parole prima dâaver combattuto col bronzo. Su presto, cimentiamoci lâun lâaltro con le armi di bronzo» (Canto XX).
Subito Enea scaglia la sua lancia mortale contro Achille, ma il quinto strato, dâoro, del nuovo scudo forgiatogli da Efesto salva Achille, il quale a sua volta replica attraversandogli con la lancia lo scudo rotondo ânellâultimo giroâ. La lancia di Achille conclude il suo tragitto conficcandosi in terra a pochissimo da Enea. Vedendolo atterrito, Achille sguaina la spada e gli si lancia contro. Enea trova la forza di sollevare una pietra che uomini dâoggigiorno non sarebbero capaci. La spada ucciderĂ Enea o il masso ucciderĂ Achille? Poseidone se ne accorge, teme per Enea ed esorta gli altri dĂši a intervenire, affinchĂ© con Enea non si estingua la stirpe di Dardano â Dardano «che Zeus amĂČ sopra tutti i suoi figli»: Poseidone, che un tempo aveva persino ricostruito con le sue mani, al suono della cetra di Apollo, le mura della cittĂ , quelle stesse che ancora incombono e resistono alla coalizione dei Greci, sa bene che per Priamo e i suoi figli il destino Ăš segnato â che almeno Enea sopravviva! (Canto XX).
Il figlio di Dardano, Erittonio, Ăš stato il piĂč ricco dei mortali (e la storia delle cavalle fecondate da Borea, che generano a loro volta dodici cavalle capaci di volare magicamente sulla Terra sfiorando le spighe e sul Mare sfiorando le onde, stabilisce una precisa equazione tra ricchezza e feconditĂ ), ma ora, arrivata la discendenza di Dardano alla settima generazione, a causa della guerra non i piĂč prestigiosi figli di Priamo, a cominciare dal grande Ettore, potranno perpetuare la stirpe, ma lo potrĂ , per volere del fato, Enea, figlio del cugino di Priamo, Anchise. Qui infatti Poseidone puĂČ intervenire lui stesso, velare gli occhi di Achille con una nebbia miracolosa, indurre Enea a desistere. Dunque, il potere troiano passerĂ a Enea. Profezie piĂč tarde saranno molto meno generiche, seppur alquanto discordanti tra loro. La piĂč importante Ăš quella di Alessandra (alias Cassandra: nellâIliade «la piĂč bella delle figlie di Priamo»).
La profezia di Alessandra
Col lungo monologo in trimetri giambici (il verso dei recitativi nella tragedia classica) dellâAlessandra non siamo piĂč in etĂ arcaica: lâautore, Licofrone, altrimenti ignoto, Ăš collocato dai critici tra gli inizi del III e quelli del II secolo a.C. Vi si immagina che, allâarrivo dei Greci davanti Troia, un servo riferisca a Priamo le profezie della figlia Cassandra. Tra queste, ve nâĂš una che riguarda Enea e i suoi discendenti romani. Si inizia con la prefigurazione di un futuro nuovamente glorioso: «Un giorno i nostri discendenti renderanno nuovamente illimitata la gloria dei miei avi conquistando potere e signoria sulla terra e sul mare». E preannuncia lâavvento di «due leoncini, cuccioli gemelli», discendenti «della dea Castnia», Afrodite. Il linguaggio Ăš oracolare. I âleonciniâ sono Romolo e Remo, discendenti del figlio di Afrodite, Enea.
A questo punto la profetessa disegna il percorso che porterĂ Enea nel Lazio: prima tappa sarĂ Recelo, nel golfo Termaico, ai piedi del monte Cisso (penisola Calcidica); poi, passando da Almopia, cittĂ della Macedonia, attraverserĂ il mare Adriatico, e dalla costa adriatica, muovendo ancora verso Occidente, raggiungerĂ lâEtruria e le acque termali del fiume Lingeo (cioĂš lâArno), in particolare la cittĂ di Pisa e, scendendo piĂč a Sud, di Agilla (Cere). ColĂ giunto Enea, il suo destino «si mescolerà » a quello di un altro eroe: «uno che gli era nemico, Nano, che ha esplorato, girovagando, ogni anfratto della terra e del mare»: «prostrato ai suoi piedi [Enea] implorerĂ (con successo) pace e unità ».
Nano: i commentatori antichi ci dicono che si tratta di Ulisse, che una tradizione voleva fosse ucciso per errore da Telegono, il figlio avuto da Circe, e fosse sepolto nellâetrusca Cortona (Gortina): Nanos in etrusco vuol dire âerranteâ â quasi fosse un pianeta: vedremo come entrambi, Ulisse ed Enea, abbiano essenziali punti in comune proprio sul piano astrale.
Quanto allo spirito di quel profetizzato rappacificamento tra nemici mortali ritorna, con ribaltamento delle parti e variazione dei personaggi, nellâEneide di Virgilio, lĂŹ dove un compagno inavvertitamente abbandonato da Ulisse sulla riva dei Ciclopi, in Sicilia, si inginocchia disperato e lacrimante ai piedi di Enea, che subito si mostra pronto ad accoglierlo a braccia aperte (Libro III).
Di quanto segue nella profezia di Cassandra, interessano qui ancora solo due riferimenti. Il primo riguarda il fatto che, giunto nel Lazio, Enea vi ritroverà «una mensa imbandita di vivande, che poi sarĂ mangiata dai compagni e avrĂ memoria degli antichi oracoli»: un antico oracolo, lâennesimo, aveva infatti previsto che, quando la fame li avesse costretti a âdivorare le menseâ, solo allora i fuggiaschi avrebbero potuto fermarsi e fondare la nuova patria â il portento, consistente nel mangiare delle specie di focacce rotonde, o pizze, che fungevano anche da piatto per le vivande e dette perciĂČ âmenseâ, sarĂ narrato nel Libro VII dellâEneide. Il secondo riferimento riguarda il parto e lâallattamento, da parte di una «scrofa nera», proveniente dal monte Ida, di trenta lattonzoli che a Enea avrebbe presagito la fondazione di un paese «dalle trenta torri», cioĂš dalle trenta roccaforti, o cittĂ fortificate: Virgilio riprenderĂ il motivo con sostanziali ritocchi: la scrofa sarĂ âbiancaâ e non âneraâ, sarĂ trovata sul luogo e non portata fuggendo da Troia come vorrebbe la profetessa di Licofrone, e infine i trenta lattonzoli significheranno non «trenta cittĂ fortificate», bensĂŹ i trenta anni che passeranno tra quel momento e la fondazione di Alba Longa da parte del figlio Ascanio (secondo la profezia formulata dal dio Tevere nel Libro VIII).
LâAlessandra segue una variante della tradizione secondo cui Enea, tenuto prigioniero in Epiro dal figlio di Achille, Neottolemo, viene preso con sĂ© da Ulisse e portato in Italia. Un aspetto interessante sembra legare, in questa prospettiva, lâeroe greco e quello troiano: non solo il desiderio di dimenticare le antiche rivalitĂ per costruire insieme qualcosa di nuovo, ma anche il tratto comune dellâavvedutezza, che in Ulisse Ăš scaltr...