1. La Piana dei Colli e la nascita della mafia
La Piana dei Colli rappresenta un notevole caso di studio per chi volesse osservare da vicino la mafia. Essa, infatti, insieme al resto dell’agro palermitano, ha rivestito un ruolo centrale in ambito mafioso fin dal momento in cui sono stati prodotti i primi documenti sul fenomeno, ossia da quando è stato possibile ricostruirne la storia. La caratteristica delle fonti sulla mafia è quella di essere state prodotte, nella maggior parte dei casi, da quegli organismi statali che, nel corso del tempo, hanno contrastato, o anche semplicemente incontrato, il fenomeno. Dunque, esse si concentrano in quelle fasi in cui maggiore è l’attenzione per la mafia, momenti che solitamente corrispondono alle strette repressive attuate dallo Stato e che spesso – anche se non sempre – seguono un picco di emergenza nell’ordine pubblico. Da ciò deriva che una storia della mafia non potrà mai essere continua e completa; invece, ci saranno dei momenti in cui avremo un elevato numero di fonti a disposizione e altri di assoluta mancanza.
Si tratta di un andamento che procede per singoli flash, che proiettano raggi di luce su gruppi o vicende specifiche. Uno di questi momenti, in cui la Piana dei Colli lasciò ampia traccia di sé, fu la congiuntura compresa tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta dell’Ottocento, ossia quando, per la prima volta, la mafia si pose al centro del dibattito pubblico e politico nazionale e si celebrarono i primi processi. Erano gli anni della transizione del governo italiano dalla Destra alla Sinistra storica e dunque il problema della gestione dell’ordine pubblico – e prima di tutto della mafia – in Sicilia emergeva con maggiore chiarezza. A tale fase seguì un black out, corrispondente ad un calo dell’attenzione per il fenomeno, che si interruppe però negli ultimi anni del secolo, quando furono riaperte le indagini sul primo, e per molti decenni unico, degli omicidi «eccellenti» della mafia, quello di Emanuele Notarbartolo. Fu in quella circostanza che venne prodotto il cosiddetto Rapporto Sangiorgi, il principale documento sulla mafia palermitana dell’Ottocento.
1. Uno sguardo al contesto
Per capire il perché di questa rilevanza della Piana dei Colli sarà opportuno volgersi al Settecento, ossia al periodo in cui ebbe inizio la sua storia moderna. Fino a quel momento nel territorio – esterno alla cinta muraria della città – si trovavano casali o fattorie di dimensioni ridotte e, lungo la costa, torri di avvistamento. Fu allora che la nobiltà siciliana, e palermitana in particolare, attratta da questo territorio pianeggiante e relativamente vicino alla «capitale», iniziò ad edificarvi delle splendide residenze di villeggiatura che, al tempo stesso, erano centri di aziende agricole in cui si praticava un’agricoltura più razionale e redditizia. Nella Piana dei Colli si svolse in questi decenni una grande opera di miglioramento fondiario. Nei terreni circostanti alle ville, in molti casi fino a quel momento incolti, fu introdotta la canna da zucchero e il sommacco e al contempo impiantati vigneti, oliveti e frutteti. L’acqua, elemento necessario per la trasformazione fondiaria, data l’assenza di corsi superficiali in questa parte dell’agro palermitano, fu intercettata nelle profondità del suolo attraverso i pozzi, ma non furono pochi i casi in cui essa fu convogliata dalle sorgive delle montagne circostanti: già la prima delle ville ai Colli, la cosiddetta «Casena grande», edificata nel 1683 in località San Lorenzo per volontà della marchesa di Geraci, fu seguita dalla costruzione di un lunghissimo condotto di argilla che si collegava ad una sorgente alle falde del monte Cuccio. Lo sfruttamento sistematico delle potenzialità del territorio richiamò una grande quantità di contadini e artigiani che, concentrandosi nei dintorni di alcune delle ville e lungo le principali vie di comunicazione, diedero vita a dei piccoli nuclei abitati sub-urbani, le borgate. Dalla città verso il mare, lungo la direttrice Sud-Nord, sorsero così Resuttana, San Lorenzo, Pallavicino, Tommaso Natale, Partanna, Mondello e Sferracavallo. La Piana dei Colli non fu la sola protagonista di questo processo e la presenza di ville e borgate si registrò un po’ in tutto l’agro palermitano nel corso di quei decenni; è vero però che essa fu una delle destinazioni principali, insieme a Mezzomonreale e alla piana di Bagheria.
Nel corso dell’Ottocento a questa prima trasformazione ne seguì un’altra, le cui conseguenze non furono meno rilevanti. Essa in parte si legò alla rivoluzione mondiale dei trasporti che, connettendo la Sicilia ai lontani e ricchi mercati stranieri, apriva nuove opportunità nella commercializzazione dei prodotti. Fu allora che una coltura fortemente legata all’esportazione come quella agrumaria conobbe la sua più larga diffusione, anche in zone che prima ne erano state per nulla o poco interessate, come avvenne nel caso della Piana dei Colli. Qui gli agrumi, in prevalenza limoni e mandarini, insieme alle diverse colture già praticate davano vita a un paesaggio particolarmente caratteristico, per cui, secondo quanto scriveva il celebre agronomo Ferdinando Alfonso Spagna, era consueto «vedere oliveti ad alta impalcatura, oramai irrigui, spesso intersecati da fichi d’India a secco, e tra essi avvicendarsi gli aranci e quindi i nespoli del Giappone e le piante ortensi con tale apparato di vegetazione da superare qualunque credenza». Le motivazioni della scelta della Piana dei Colli per la pratica di una coltura intensiva derivarono in primo luogo dalla vicinanza a una grande città portuale, dove il prodotto, specialmente quello agrumario, poteva essere più facilmente smerciato. Inoltre il territorio godeva dell’indubbio vantaggio di aver già vissuto una prima trasformazione nel corso del Settecento quando – come si è detto – era stata attuata un’importante opera di miglioramento fondiario con particolare riguardo per la struttura idrica, fondamentale per una coltura come quella agrumaria che necessita di moltissima acqua. Contemporaneamente si verificò un processo di frantumazione della proprietà fondiaria, caratteristico di tutti quei terreni in cui si praticava un’agricoltura intensiva e redditizia. Tale frantumazione era la conseguenza della combinazione delle riforme attuate in periodo borbonico e post-unitario e dell’altissimo valore assunto dalla singola unità di superficie coltivata (per via della presenza dell’acqua e, conseguentemente, delle colture agrumarie), per cui anche pochi ettari di proprietà diventavano un’estensione sufficiente per creare un’azienda ricca. In generale, nell’agro palermitano il valore di un terreno irriguo poteva anche essere dieci o dodici volte superiore a quello di uno asciutto, dal momento che, data l’assenza nella zona di grandi corsi d’acqua superficiali, bisognava adottare soluzioni ingegnose e allo stesso tempo molto dispendiose per intercettare il prezioso liquido. Tra di esse c’erano ad esempio i pozzi cosiddetti «a ripiano», un complesso sistema di scavi eseguiti a diverse profondità e collegati da cunicoli; i più diffusi erano però delle macchine idrauliche azionate dalla forza animale in grado di estrarre acqua anche da grandi profondità.
Intanto la città si stava sempre più avvicinando alla Piana dei Colli. Dal secondo Ottocento, infatti, riprese con nuovo vigore l’espansione urbana in direzione settentrionale, quando i quartieri attorno al viale della Libertà conobbero una rapida urbanizzazione, a partire da due delle moderne «cattedrali», il teatro Massimo e il teatro Politeama. Negli stessi anni, ad essa se ne contrappose un’altra, verso Sud, attorno ad un altro dei nuovi simboli della civiltà borghese, la stazione ferroviaria. Ma mentre quella settentrionale era destinata a diventare una zona residenziale d’élite – per la nuova classe dirigente cittadina e l’alta borghesia delle professioni e del commercio – quella meridionale era invece rivolta alla media e piccola borghesia ed era considerata di minor pregio. I notabili che andavano ad abitare...