1.
La guerra civile
come contrappunto permanente
della storia istituzionale europea
Il punto di partenza è un paradosso storico e teorico. A scorrere la letteratura più recente sulle guerre civili – o, almeno, la letteratura politologica su quelle più recenti – la guerra civile sembrerebbe essere connaturata all’arretratezza: arretratezza economica, prima di tutto, come suggeriscono gli innumerevoli studi che la associano a paesi a basso reddito, alla presenza di risorse naturali facilmente appropriabili o alla collocazione periferica nel sistema capitalistico mondiale; arretratezza politica, legata a fattori quali la debolezza o il fallimento dello Stato, la transizione da un tipo all’altro di regime politico o la mancanza di democrazia; e, perché no, arretratezza culturale, sia che venga riferita ai diretti partecipanti al conflitto (identificati, sempre più spesso, con i settori più marginali e culturalmente arretrati delle rispettive società) sia che, invece, venga allargata alle rispettive culture di appartenenza (attraverso categorie quali «fondamentalismo», «estremismo» o «patriarcalismo»). Tanto che difficilmente è un caso che, nella divisione del lavoro all’interno della Scienza politica, il campo della guerra civile sia stato quasi completamente lasciato agli studiosi di Relazioni internazionali, vuoi perché già abituati a occuparsi di fenomeni «estremi», «anacronistici» e «anti-economici» quali la guerra, vuoi perché condannati a occuparsi di un sistema politico dichiaratamente imperfetto come quello internazionale – un sistema senza governo, senza polizia e, come se non bastasse, senza democrazia liberale.
Senonché è sufficiente allargare lo sguardo oltre gli ultimi trent’anni per riconoscere che la guerra civile può benissimo investire e, anzi, ha molto spesso investito anche unità politiche che sarebbe affrettato e qualche volta del tutto irrealistico definire arretrate (coinvolgendo, per di più, non gli strati più marginali o periferici della società ma, molto spesso, proprio quelli più attivi politicamente e culturalmente – come all’indomani della Rivoluzione francese e di quella russa, o nelle micidiali guerre civili ideologiche del XX secolo). Nel corso del Novecento, per esempio, una guerra civile spaccò la Germania tra il 1918 e il 1919, l’Austria nel 1934, l’Ungheria nel 1919, l’Italia tra il 1943 e il 1945 (e, in forme meno pronunciate, tra il 1919 e il 1921), la Francia tra il 1944 e il 1945 e, almeno in termini giuridico-formali, tra il 1954 e il 1962, la Spagna tra il 1934 e il 1936, la Russia tra il 1904 e il 1905 e, più ampiamente, tra il 1917 e il 1922. Nel secolo precedente, una guerra civile distruttiva aveva già sconvolto gli Stati Uniti tra il 1861 e il 1865 mentre, ai due punti estremi del sistema internazionale, altre guerre civili avevano investito il Giappone nel 1877, nel momento decisivo della Restaurazione Meiji, e buona parte del continente europeo nella crisi altrettanto decisiva del 1848. Senza dimenticare, poi, che dalla fine del Settecento alla fine dell’Ottocento il vero campione della guerra civile fu un paese «centrale» come pochi altri quale la Francia – investito a più riprese, anche all’indomani della grande tormenta rivoluzionaria del 1789, nel 1830, nel 1848 e nel 1870. Mentre non è neppure il caso di sottolineare come, anche lungo tutta la storia precedente, l’esperienza della guerra civile non avesse affatto risparmiato i soggetti politici (imperi, città-Stato, Stati) più sviluppati delle rispettive epoche: Atene nel sistema ellenico delle poleis, la repubblica prima e l’Impero romano poi, i Comuni italiani nel basso Medioevo, gli Stati non in ritardo ma in anticipo nel processo di costruzione dello Stato moderno – la Francia nel XVI secolo, l’Inghilterra e le Province Unite nel secolo successivo.
Questo dato elementare è anche il nostro primo punto di distacco dalla letteratura e dalla retorica più recenti: lungi dall’essere un fenomeno «esotico», secondario o periferico, la guerra civile costituisce un’esperienza centrale come poche altre nella storia europea e, non casualmente, anche uno dei temi centrali della riflessione storica, filosofica e giuridica che l’ha accompagnata. Basti pensare alla sua ricorrenza nella Grecia classica e in quella ellenistica, replicata di lì a poco nella tumultuosa parabola della Roma sia repubblicana che imperiale. Mille anni più tardi, l’invadenza delle «maledetti parti» – e l’incubo della «città partita» – permeò la civiltà politicamente e culturalmente plurale dei Comuni italiani, con il consueto aggrovigliarsi di fazioni cittadine e fazioni che, oggi, diremmo internazionali o transnazionali quali i guelfi e i ghibellini. Tra il Cinquecento e il Seicento, altre guerre civili – le guerre civili di religione – costituirono il terreno di coltura della soluzione moderna all’ordine politico, sia interno che internazionale, dopo avere devastato singoli paesi (la Francia nel XVI secolo, la Germania tra il XVI e il XVII, l’Inghilterra nel XVII) ed essere confluite nella guerra costituente per eccellenza del modello di convivenza cosiddetto vestfaliano, la guerra dei Trent’anni (di cui la pace di Vestfalia costituì, appunto, la conclusione). Infine, fu un altro ciclo di guerre civili a segnare la crisi e, un secolo e mezzo più tardi, il definitivo tracollo di questo modello: il ciclo inaugurato dalle rivoluzioni americana e francese alla fine del Settecento e culminato, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, nel vortice della guerra civile europea e poi mondiale del XX secolo.
Non casualmente, ciascuna di queste esperienze ha lasciato tracce imponenti nella tradizione poetica e letteraria ma, soprattutto, nella riflessione politica e giuridica, tanto da conferire alla guerra civile «un privilegio evidente» nel pensiero politico rispetto a tutte le altre forme di guerra – un privilegio a cui corrisponde, non a caso, l’eccezionale frequenza tra i massimi pensatori politici europei di testimoni o protagonisti diretti di guerre civili (da Tucidide a Machiavelli, a Bodin, a Hobbes, fino a Marx e Schmitt). Questo dato biografico è molto di più che una semplice coincidenza storica. A questi pensatori politici, infatti, l’esperienza della guerra civile offrì una «verità esistenziale» lontanissima dalla serenità dei positivisti abituati a fermarsi alle «facciate di legalità di volta in volta vigenti», e più radicale anche di quella che è possibile attingere dalle guerre esterne. Le guerre civili e le guerre tra i popoli, scrive Ernst Jünger, «fanno riferimento a due diversi strati dell’essere umano, le cui leggi differiscono tra loro. La guerra civile va più in profondità e lascia emergere immagini più terribili».
1. La guerra civile prima dello Stato. La stasis greca e il bellum civile romano
Potrebbe apparire superfluo, o persino stucchevole, aprire una riflessione contemporanea sulla guerra civile risalendo indietro fino all’epoca classica. Ma c’è almeno una buona ragione per farlo. Che ne siamo consapevoli o no, l’esperienza greca e quella romana costituiscono la matrice originaria dei nostri discorsi sulla guerra civile, a cui procurano un repertorio di immagini, uno sfondo categoriale e, prima di tutto, un nome – «guerra civile», appunto – che abbiamo imparato a impiegare sul modello romano abbandonando e, forse, tradendo la prospettiva più ampia da cui la guardavano i Greci.
Nel mondo greco, la guerra civile costituì una presenza quasi costante. Dal 500 al 300 a.C., dalle guerre persiane all’epoca ellenistica, quasi trecento guerre civili investirono il sistema delle poleis, raggiungendo il proprio picco nel corso della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), quando una sola «gigantesca guerra civile» sembrò attraversare e dividere tutto il mondo greco. A essere colpite furono le poleis di media potenza (Argo, Tebe, Rodi, Mitilene, Chio, Samo, Corcira) più delle poleis più deboli e di quelle collocate al vertice della gerarchia del potere e del prestigio (Atene e Sparta). Come in molti contesti storici successivi (compreso il nostro), le guerre civili mostrarono una impressionante tendenza a colpire a più riprese sempre le stesse città (da cinque a nove volte in duecento anni Chio, Corcira, Mantinea e Mileto, persino dieci Argo, Mitilene, Rodi o Tebe). Soprattutto, numero e intensità delle guerre civili si rivelarono inequivocabilmente legati ai cicli di pace e di guerra internazionali: meno numerose nelle fasi più pacifiche, più numerose e distruttive in coincidenza con le grandi guerre per l’egemonia – la guerra del Peloponneso, appunto, la guerra corintica, il ...